100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: logo
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100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: titolo della pagina Protagonisti
 

Maria G. Lombardi
Margherita Troili
Alberto Iannone
Antonio Marasco
Corrado Graziadei

 

Gori Lombardi
Michele Izzo
Benedetto D’Innocenzo
Michelina Vinciguerra
Maria Almaviva

 

Carmine Cimmino
Paolo Bufalini
Andrea Sparaco
Giuseppe Capobianco
Mario Pignataro

Ernesto Rossi
Domenico Ianniello
Vincenzo Raucci
Michele Senatore
Dario Russo

 

Francesco Imposimato
Luigi Paolino
Angelo Maria Jacazzi
Pompeo Rendina
Angelo D’Aiello

 

Maria Teresa Jacazzi
Gianni Ferrara
Salvatore Pellegrino
Umberto Barra
Francesco Lugnano

Antonio Bellocchio

 

Paolo Broccoli

 

Gaetano Pascarella

Ugo Di Girolamo

 

Compagni e compagne protagonisti in Terra di Lavoro

 

Nota introduttiva
Per quanto riguarda le note biografiche relative ai protagonisti/e dei cento anni di storia del PCI in Terra di Lavoro abbiamo fatto ricorso a varie fonti (archivi storici e documenti) nonché a testimonianze, che sono state raccolte da alcuni componenti del Comitato promotore (in particolare da Paola Broccoli e Pasquale Iorio).
Mentre la parte tecnica ed informatica del sito è stata curata e gestita da Umberto Riccio (casertaturismo.it).

Per rendere evidenti le fonti di riferimento di seguito indichiamo gli autori per ogni voce biografica.
Per le biografie dei protagonisti della nascita del PCdI: Maria e Gori Lombardi, Michele Izzo, Corrado Graziadei, Ernesto Rossi sono tratte del blog di Angelo Marino, PignataroNews.
Benedetto d’Innocenzo, anche articolo su quaderni Vesuviani.
Per Michele Izzo e Antonio Marasco, oltre Angelo Martino abbiamo Armando Pepe, con documenti e note di Peppino Capobianco.
Per gli anni delle lotte antifasciste: Margherita Troili, Alberto Iannone e Il Proletariato la fonte è il volume di Adolfo VillaniI ragazzi del professore”, Ediesse.
Per la fase della Resistenza e occupazione delle terre: Michelina Vinciguerra e Maria Almaviva, fonti intervista di Paola Broccoli e commemorazione del sindaco di Marcianise A. Velardi.
Su Angelo D’Aiello Cacianiello, testo tratto da tesi di laurea di Andrea Iorio.
Per la rinascita democratica: su Carmine Cimmino, testimonianza di Virginia Rosano, moglie.
In merito a Peppino Capobianco e al recupero della memoria, abbiamo varie fonti da: Archivio di Stato, interventi di Guido D’Agostino e Gianni Cerchia.
Per Andrea Sparaco, articolo di Enzo Battarra su Il Mattino, e Pasquale Iorio, La Feltrinelli omaggio.
Per Mario Pignataro, interventi di Achille Flora, Pasquale Iorio e articolo tratto da Il Caffè.
Su Mimi Ianniello, ricordo di Lino Martone.
Per Vincenzo Raucci testimonianza di Adolfo Villani.
In memoria di Michele Senatore articolo su Buongiorno Caserta del 6-11-2010 e di Emilia Borgia.
Per Dario Russo, Franco e Ferdinando Imposimato notizie di agenzie stampa.
Per Maria Teresa e Angelo Jacazzi ricordi di Vito Faenza.
Su Salvatore Pellegrino testimonianza di Nunzio Renga, con info di agenzia stampa.
*Per Umberto Barra, Armando Del Prete, Francesco Lugnano, Antonio Bellocchio e Gaetano Pascarella notizie dagli archivi: Regione Campania, Camera dei Deputati e Senato.
*Su Gianni Ferrara, articoli tratti da Il Manifesto, con testimonianze di G. Azzariti e Andrea Fabozzi
*Per Paolo Broccoli testo redazionale.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Maria G. Lombardi
 

Maria G. Lombardi
Come emerge dalla biografia che gli ha dedicato Silvano Franco - fu una “protagonista al femminile” nel contesto difficile di Terra di Lavoro all’indomani della prima guerra mondiale. Era dotata di una straordinaria forza che balza in primissimo piano al Congresso di Livorno del 1921, decisa a fondare anch’essa il “partito socialista nuovo”, ossia la costola comunista che darà frutti al vecchio albero, con una influenza molto importante nel futuro della storia del nostro Paese. Fu una donna forte, molto emancipata per i suoi tempi, un vero capo. Di professione medico, e nonostante gli impegni quotidiani

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Maria G. Lombardi

imposti dalla sua professione in una terra difficile, svolse una attività politica intensa, schierandosi sempre dalla parte delle classi più deboli. La questione contadina costituisce la bandiera attorno a cui si ritrovano tutti gli oppressi. La lotta per la conquista delle terre è il filo rosso che lega le speranze rivoluzionarie che segnano il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920) al movimento democratico, che nel dopoguerra si organizza nel Sud e dà vita ad epiche battaglie per dare la terra a chi la lavora. Dopo la liberazione dal fascismo tornò alla politica partecipando alla costituzione del PCI. Sia nella fase socialista che poi la sua azione politica è stata sempre legata all’idea di una “sinistra rivoluzionaria”. Infatti, operai e contadini costituirono sempre il centro dell’attenzione e dell’impegno di Maria Lombardi fino al declino della questione contadina negli anni ’60, non solo nella zona aurunca ma in tutto il Mezzogiorno. Dai documenti emerge la dimensione sociale del suo profilo, del suo impegno costante su tematiche e questioni di carattere storico e politico di portata nazionale.
Fu protagonista di una lotta convinta a fianco dei bisognosi e dei meno abbienti: i

braccianti del malsano «Pantano», ad esempio, contro i sontuosi padroni del latifondo. Nasceva così, spontaneamente, da una opzione sociale, la sua parabola politica, da “pasionaria”, delegata casertana per il Partito Socialista Italiano, al Congresso di Livorno del 1921. E da lì uscita fuori, su posizioni ancor più radicali, a fianco di Bordiga e Gramsci, come co-fondatrice del Partito Comunista d’Italia assumendo il ruolo di segretaria della Federazione di Terra di Lavoro. Per partecipare tanti anni più in là, dopo il blackout del fascismo e della Seconda Guerra, alle battaglie sindacali ed alle vicende operaie dei primi anni ’50. Fu un personaggio affascinante, complesso ed anche scontroso, difficile da domare. Muore il 20 maggio del 1963.
Fu una delle poche donne che riuscì a laurearsi nella Facoltà di medicina della Federico II a Napoli. Esercitò per lunghi anni la professione di medico condotte in varie frazioni del sessano e dintorni. Fu molto attiva nella cooperazione per le classi meno abbienti. Partecipò in modo attivo alla scissione del PSI e si impegnò nella organizzazione del nuovo partito comunista, fino a diventarne il 12 giugno 1921 segretario della Federazione provinciale di Terra di Lavoro. A causa del suo carattere ribelle alla fine dello stesso anno fu espulsa per indisciplina. Dopo il crollo del fascismo si riaffacciò alla vita politica e nel 1944 (insieme con Gori Lombardi, Ugo Paparelli e Michele Storace fu tra i fondatori della sezione comunista di Sessa Aurunca. Nelle elezioni amministrative del 1952 venne eletta consigliere comunale della sua città nella lista del PSI, sempre a fianco delle lotte per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi operaie e contadine (come nel caso della vertenza dei braccianti per il rimboschimento del Monte Massico, insieme con altri compagni storici come Pietro Bove, G. Ciriello, Vito Longo, R. Laurenza e S. Martino). Nonostante la sua vita travagliata bisogna riconoscere che svolse un ruolo di primaria importanza in piena epoca fascista, con scelte politiche coraggiose in aperta rottura con i tempi e le con l’ambiente in cui visse. Può essere considerata una figura ante litteram del movimento femminista.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Margherita Troili
 

Margherita Troili
Nasce a Capua nel 1913. E' stata dirigente del PCI a Napoli e Caserta, partigiana, ha insegnato nelle scuolesecondarie.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Margherita Troili

Organizza a Capua la sede UDI (Unione donne Italiane nel 1944).
In seguito venne nominata responsabile della Commissione femminile del Pci, diretto da C. Graziadei. Delegata al V Congresso Nazionale.
Autrice di un volume autobiografico “Una donna ricorda. Memorie”, edito da Il Ventaglio nel 1987.
Nel suo bel libro “Una donna ricorda” (Il Ventaglio) Margherita Troili racconta la sua intensa vita di partigiana e di militante politica di sinistra, in prima fila nelle lotte per la rinascita democratica nella sua città, ma anche a livello provinciale e regionale.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina del libro Una donna ricorda di Margherita Troili

Come ha ben descritto Lidia Menapace nella sua presentazione ci troviamo di fronte ad una storia intessuta e intrecciata a una vicenda più pubblica, quella delle lotte antifasciste e della formazione del PCI in Terra di Lavoro.

 

Capua: dalla ritrovata libertà alla tragedia di Alberto Iannone

Da I ragazzi del professore di Adolfo Villani: Capitoli I e II

Capitolo I: Il presagio
Capua 4 gennaio 1945: Margherita si sveglia presto, come fa ogni giorno dal suo ritorno in città. Se ne era allontanata con il marito e la figlia nell’estate del 1943. Era stata un’estate di fuoco. La scelta di sfollare era scaturita da valutazioni molto stringenti. Da un lato gli sviluppi degli eventi bellici imponevano la messa in sicurezza della famiglia. Con lo sbarco degli alleati in Sicilia, infatti, i bombardamenti sui centri urbani si erano fatti sempre più incalzanti. Il destino di Capua, nodo strategico di comunicazione e importante centro militare, appariva inesorabilmente e drammaticamente segnato. Dall’altro, la destituzione di Mussolini – operata il 24 luglio dal Gran Consiglio del fascismo – induceva a un cambiamento di fase nell’attività clandestina dei partiti democratici. E così per mesi avevano vissuto spostandosi nelle campagne verso Villa Volturno (così si chiamava il comune che accorpava gli attuali municipi di Bellona e Vitulazio), Calvi, Teano. Fino a quando, intorno alla metà dell’ottobre del 1943, andati via i tedeschi, il comando inglese aveva inviato delle persone a «prelevare» Alberto Iannone a San Secondino – frazione di Pastorano – per affidargli il controllo dell’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia per i reati minori nella città di Capua. Una scelta indovinata, perché i cittadini si erano subito stretti intorno al- l’uomo che, con la sua coerenza e la sua non comune cultura, aveva saputo conquistare la stima e la fiducia di tutti nel corso di quel ventennio fascista che lasciavano alle loro spalle, con tutto il carico delle sofferenze e delle persecuzioni patite. Il ricordo di quel periodo drammatico e la convinzione di aver voltato definitivamente pagina rendono ancora più piacevole il risveglio.
È straordinario respirare l’aria nuova di libertà, ritrovare la normalità della vita familiare. Certo, Alberto deve dedicare gran parte della giornata alla ricostruzione della città, completamente distrutta, materialmente e moralmente, dal bombardamento del 9 settembre del 1943. Un impegno totalizzante che cambia qualcosa d’importante nel loro rapporto. Lei, infatti, si era legata a quest’uomo di quattordici anni più anziano, fin dal 1930, all’età di diciassette anni, anche se si erano sposati solo dieci anni più tardi. Con lui era cresciuta sul piano culturale e politico, condividendone ogni giorno ansie, sofferenze, speranze. Insieme avevano animato gli ambienti antifascisti clandestini di Terra di Lavoro, il cui territorio era stato in gran parte ricompreso nella provincia di Napoli, dopo la soppressione della provincia di Caserta operata dal fascismo nel 1927 (vedi Giuseppe Capobianco, Fascismo e modernizzazione. La scomparsa di Terra di Lavoro nel 1927, Centro studi «Corrado Graziadei», 1991).
Al suo fianco aveva attraversato il drammatico autunno di lotta partigiana, vissuto da protagonista di azioni di sabotaggio e dell’uccisione di un soldato tedesco. Sempre si era lasciata guidare da lui. Ora tutto sta cambiando. Non solo i numerosi impegni pubblici del marito ma anche la responsabilità che le è stata assegnata di coordinare i circoli dell’Unione donne italiane (Udi) nella zona, le impongono di imparare a fare da sola, di decidere in piena autonomia. Per il carattere vivace, tenace, e anche un po’ ribelle, vive questa condizione come un’occasione, un’opportunità che può farle compiere un salto di qualità nella sua formazione politica. Margherita ha trentadue anni e, grazie al nuovo incarico, frequenta a giorni alterni, il pomeriggio, la federazione comunista di Napoli. Qui entra in contatto con personalità di rilievo. Conosce il mitico Velio Spano, già collaboratore di Gramsci, condannato dal Tribunale speciale, espatriato in Francia e in Egitto, animatore delle brigate garibaldine nella guerra civile in Spagna, fondatore con Giorgio Amendola di un giornale comunista a Tunisi, dove è condannato due volte in contumacia dal governo alla pena di morte, e dove forma un dirigente comunista del calibro di Maurizio Valenzi. Frequenta il severo responsabile di organizzazione, Salvatore Cacciapuoti, dal quale apprende un metodo di lavoro fondato su una rigorosa intransigenza. Stabilisce un rapporto di stima e di amicizia con Maddalena Secco, della Commissione nazionale femminile del partito.
Questa nuova esperienza suscita in lei, così avida di apprendere e di crescere politicamente, grande entusiasmo. Tuttavia non vuole spingere la sua autonomia fino al punto di rinunciare completamente all’aiuto del marito. Perciò, quella mattina del 4 gennaio, si sveglia avendo in testa un pensiero fisso, che la tormenta da giorni e che è motivo di tensione tra i due: convincere Alberto a intervenire per fare assegnare all’Udi un locale in Piazza dei Giudici, in un palazzo che fa angolo con Via Duomo, da cui si apprezza una veduta spettacolare della bellissima piazza principale della città. Il locale, infatti, si trova di fronte al cinquecentesco Palazzo della regia Corte di giustizia, sede del municipio, decorato al pian terreno con le protomi – Giove, Nettuno, Mercurio, Giunone, Cerere, Marte – provenienti dalle chiavi d’arco delle strutture dell’Anfiteatro dell’Antica Capua, e, al piano nobile, dal balcone arengario emergente sul lato della facciata adiacente alla Chiesa di Sant’Eligio, seguita a sua volta dall’arco Mazzocchi con la soprastante Loggia dell’Udienza. In quell’ambiente, riflette tra sé, l’Udi acquisirebbe ben altra visibilità. Da alcuni mesi all’associazione è stato assegnato un locale nel retro del Comune. Un locale, comunque, per niente male, visto che le consente di organizzare lunghe e partecipate discussioni sulla condizione della donna, e, ogni sabato sera, delle piccole festicciole, alle quali partecipano perfino ufficiali e soldati del vicino Pirotecnico esercito. È, però, appartato. In Piazza dei Giudici sarebbe tutta un’altra cosa. L’intervento del marito può essere decisivo. Alberto è la massima autorità della città: ha ricevuto l’incarico dalla federazione comunista napoletana «di costituire a Capua il Cnl [Comitato nazionale di Liberazione] e di entrarvi da socialista» (Margherita Troili, Una donna ricorda, Il Ventaglio, Roma, 1987) è diventato membro del Cnl provinciale, assessore comunale, e inoltre è stato designato, dal 1° febbraio del 1944, dal dirigente dell’ufficio del lavoro di Napoli, il dottor Alfredo Sorrentino, collocatore capo zona della sottosezione di collocamento di Capua. Insomma, se sostiene la richiesta dell’Udi, è fatta. Alberto, però, è un uomo rigoroso e severo. Lo è soprattutto verso se stesso e i suoi familiari.
Margherita lo sa molto bene. Ricorda perfettamente quanto accaduto pochi mesi prima. Si avvicinava una festività e aveva deciso di utilizzare le belle tende azzurre del suo salotto per cucire un vestito nuovo alla figlia Mariateresa. Terminata l’opera, le mostrò orgogliosa la bambina. La sua reazione la gelò: «Ma ti pare che con la miseria e la fame di cui soffre Capua mia figlia possa andare in giro vestita in questo modo?». Ne seguì una spiegazione pacata ma chiara nelle conseguenze pratiche, al termine della quale si vergognò di quello che aveva fatto e ripose il vestito nell’armadio. Certo questa volta la questione è diversa e lui non è stato così brusco. Non ha escluso un suo interessamento. Ha solo deciso di prendere tempo. Vuole verificare se il locale è stato oggetto di altre richieste, se vi sono altre priorità. Tuttavia questa volta Margherita non ha nulla di cui vergognarsi.
La sua richiesta nasce da ragioni politiche e non personali. Anzi è convinta che ora sia Alberto a esagerare e perciò da alcuni giorni gli porta il broncio. Quella mattina del 4 gennaio, appena sveglia, tenace come è, torna alla carica. Dopo aver affidato ai nonni Mariateresa, che era arrivata ad allietare la loro unione da circa quattro anni, chiede ad Alberto di recarsi con lei a ispezionare quel locale. Vuole spiegargli sul posto perché, cambiando sede, l’attività dell’Udi può risentirne positivamente. Vuol fargli capire che, se gli dà una mano, non lo fa per assecondare un capriccio della moglie, ma per rispondere a un’importante esigenza politica di un’organizzazione che svolge un ruolo decisivo nella battaglia per l’emancipazione femminile. Una questione certo non secondaria nel processo di costruzione di una democrazia avanzata in Italia e in particolare nel Mezzogiorno. Ha toccato il tasto giusto per ottenere almeno la disponibilità all’ascolto. Scendono le scale della casa di Via Roma, nel palazzo ad angolo con la strada che porta il nome della Chiesa di San Martino alla Giudea (ricordo della presenza a Capua di una comunità ebraica dalla metà del XII secolo, fino all’espulsione avvenuta nel 1540). Percorrono il breve tratto che li separa dall’arco del Museo campano. Qui imboccano Via Duomo. Giunti in Piazza dei Giudici rimangono attoniti: il palazzo dove è ubicato il locale è ridotto a un cumulo di macerie. È crollato nella notte. I danni prodotti dalle bombe hanno permesso alle piogge di minarne la stabilità. Non è il primo a finire in quel modo a causa di quel maledetto bombardamento del 9 settembre 1943, e, purtroppo, non sarà neppure l’ultimo. Dopo qualche minuto è Margherita a rompere il silenzio sussurrando: «Pensa se ci fossi stata io lì dentro»; e Alberto, abbracciandola: «Starei a scavare con le unghie e con i denti, disperatamente» (Margherita Troili, op. cit.)

Capitolo II: La tragedia
La mattina successiva un’altra giornata faticosa attende Alberto Iannone: deve avviare alcuni operai al lavoro, assolvere il suo ruolo di coordinatore del Cnl e poi ancora pensare all’Eca, l’Ente comunale di assistenza, la cui gestione di fatto è ormai anch’essa caduta sulle sue spalle. In città si vive una situazione politica delicata. Da qualche giorno il sindaco Andrea Mariano ha rassegnato le dimissioni. Il Cnl è entrato in contrasto con il prefetto di Napoli, che ha destituito la giunta comunale senza motivate ragioni. Forse qualcuno sta passando all’attacco di un quadro politico cittadino giudicato troppo sbilanciato a sinistra. Sa che tocca innanzitutto a lui trovare un nuovo equilibrio. La rottura dell’unità dei partiti antifascisti avrebbe effetti deleteri. Nella riunione del Cnl del 2 gennaio, alla quale non aveva partecipato il rappresentante della Dc, era stato bravo a evitare che le tensioni producessero rotture difficilmente ricomponibili. Aveva proposto un documento molto equilibrato, nel quale i partiti segnalavano l’indisponibilità a sostenere un nuovo sindaco che non fosse espressione del Cnl.
Queste tensioni lo riportano con la mente indietro di qualche mese facendogli pensare di aver fatto bene quando, pochi mesi prima, di fronte alla proposta avanzatagli dal partito di trasferirsi a Roma, per lavorare alla redazione di un giornale, aveva deciso di prendere tempo. Non se l’era sentita di lasciare i suoi impegni a Capua di punto in bianco, nonostante le insistenze di Margherita a trasferirsi subito nella capitale. Aveva ritenuto fosse prematuro lasciare la presidenza del Cnl locale. Doveva continuare a interessarsi della ricostruzione del Laboratorio pirotecnico, prima fonte di lavoro per Capua.Era soprattutto per ricostruire quella fabbrica che aveva accettato l’incarico di collocatore. Con gli operai del Pirotecnico aveva un forte legame, fin dai tempi della clandestinità. Era profondamente consapevole del ruolo essenziale di quei lavoratori per il tessuto democratico della città.
Una classe operaia così legata al proprio stabilimento da aver trovato la freddezza e il coraggio, nei momenti drammatici del dopo armistizio, di sotterrare le macchine ed evitare che i tedeschi le distruggessero. E poi aveva bisogno del tempo necessario per formare un valido sostituto alla direzione dell’ufficio del lavoro, preparargli il terreno, evitare che un posto così importante finisse nelle mani di qualcuno che lo usasse per fini di puro potere. Certamente l’impresa si stava rivelando più lunga del previsto. Con questi pensieri ancora nella mente saluta Margherita. Lei come tutte le mattine si assicura che non porti con sé più soldi del necessario, per evitare che, come spesso accade, ritorni a casa con le tasche vuote. Lui è fatto così: di fronte all’aiuto richiesto dalle tante persone in difficoltà che gli si rivolgono, alle quali non riesce sempre a dare un lavoro, si priva di tutto ciò che porta con sé. Forse quella mattina ha fretta e perciò, contravvenendo alle sue abitudini, dedica meno tempo del solito alle tante persone che quotidianamente lo trattengono lungo il percorso che lo conduce all’ufficio, per chiedergli un aiuto, un consiglio o semplicemente per salutarlo. Fatto sta che alle nove Alberto Iannone e cinque operai in procinto di essere avviati al lavoro rimangono schiacciati dal solaio del palazzo del Corso appio dove ha sede il collocamento. È crollato a causa dei danni causati dal bombardamento e dalle continue infiltrazioni di acqua piovana.Quel che accadde poi lo conosciamo dalle toccanti pagine che Margherita dedica nel suo libro al ricordo di quelle tragiche ore: «Sulla soglia io, sola. Sola con il bisogno di scavare con le unghie e con i denti, disperatamente. E poi la speranza e la corsa da un ospedale a un altro ospedale. La sosta in quello di Santa Maria Capua Vetere, ove un infermiere, incurante della mia presenza, sollevando una gamba di uno di loro che io credevo solo ferito e lasciandola cadere, esclamò quasi indignato o infastidito: “Che cazzo li avete portati a fare. Questi sono Morti”.
E poi; questi sei corpi scaricati – questo il termine – perché dalle barelle furono scaricati, rovesciati in terra nella sala mortuaria. E poi; io sola. Sola con questi poveri morti irriconoscibili; irriconoscibili tanto che, dopo averli guardati ancora una volta, gridai: “Alberto non c’è, bisogna tornare a Capua”. E poi; l’orologio che egli di solito portava al polso mi dà il segno della sua presenza lì, fra quelle carni maciullate. Non ci furono più dubbi. E mi sedetti per terra accanto a lui e incominciai a toccarlo, a toccarlo ancora, a parlargli piano quasi sottovoce, a chiamarlo. E poi; ancora la speranza perché questi sei corpi furono ricaricati sull’ambulanza e portati all’ospedale di Capua, ed io sempre con loro sull’ambulanza nel- l’ospedale. E poi; tutto come in un incubo, come in un sogno orrendo e impossibile. I fiori, tanti tanti. Gli operai tutti che piangevano il loro compagno morto. Gli alunni, i suoi alunni. Tutto avveniva al di fuori della mia percezione. Il corteo funebre, interminabile, per le vie di Capua deserta. Non un balcone, un portone, un negozio aperto. I cittadini tutti erano con me. Ma io non li vedevo. Ma io non li sentivo. E poi; la piazza gremita fino all’inverosimile. Le parole del compagno Picardi che vanno e vengono. Quelle del compagno Bellocchio in nome dei giovani comunisti. E tanti, volti intorno. E tante mani protese. E tanti pugni chiusi. E io che non ero in grado neanche di soffrire! Sono rimasta sola, sola a decidere della mia vita; nessuno mi può aiuta- re. Io che tanto mi ero lasciata guidare, amare da quest’uomo meraviglioso non sono in grado di far nulla per me» (Margherita Troili, Una donna ricorda, cit.)

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Alberto Iannone
 

Alberto Iannone
Fu un perseguitato politico, antifascista, il quale a seguito delle famigerate leggi eccezionali fasciste aveva subito ogni sorta di soprusi e danni di carattere morale e fisico. Dopo circa trent’anni di impegno a favore delle classi subalterne, anni vissuti con la coerenza dei grandi uomini che sanno ove è presente la sofferenza e il dolore di chi subisce condizioni ingiuste ed inique, il professore Alberto Iannone di Capua, a soli quarantasei anni, rimase vittima il 5 gennaio 1945, con altri cinque operai del Pirotecnico, del crollo del solaio del collocamento, sito in Corso Appio a Capua, ove lavorava e che aveva subìto danni rilevanti dal bombardamento e dalle infiltrazioni di acqua piovana. Iannone lasciava l’inseparabile compagna Margherita Troili, ed inoltre un vuoto nel Partito Comunista, nella sua città e nell’intera provincia di Terra di Lavoro. Vedi foto sopra con M. Troili.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Antonio Marasco
 

Antonio Marasco
Fu il fondatore nel 1919 della Camera del Lavoro di Piedimonte Matese insieme agli operai elettrici della centrale, ove lavorò fino al pensionamento. Tale sede diede impulso alla sezione massimalista del Partito Socialista Italiano, la quale aderirà con la forza dei suoi 200 iscritti al Partito Comunista d’Italia, dopo la scissione di Livorno. Negli anni del Fascismo Marasco fu presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Piedimonte, mentre si organizzava il Movimento Operaio di Terra di

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Antonio Marasco

Lavoro con segretario provinciale Corrado Graziadei, delegato alla conferenza di Capanna Mara presso Como nel 1924, anno in cui Graziadei avrà il compito di accompagnare Antonio Gramsci e di ospitarlo nella sua abitazione di Sparanise.
Nel 1956 la sinistra a Piedimonte Matese ottenne un 39,2% di consensi, riuscendo a competere quasi alla pari con la Democrazia Cristiana che raggiunse il 42,6%, mentre le Destre il 18,2%. Tale successo fu dovuto preminentemente ad Antonio Marasco, alla sua credibilità e alla sua coerenza nel guidare il Partito Comunista Italiano nel territorio di Piedimonte, uomo a cui anche gli avversari riconoscevano le sue idealità rapportandosi con lui con gran rispetto e stima. A conferma di ciò, quando morì poco tempo dopo le elezioni, il 15 luglio 1956, all’età di 62 anni, anche la Chiesa locale non fece alcuna opposizione ai funerali religiosi di Antonio Marasco, data la volontà dei familiari di “portarlo in Chiesa”. Allora vi fu l’accordo per un funerale misto, un funerale organizzato dal Partito e uno dalla Chiesa per ricordare l’uomo che aveva inalberato la bandiera rossa sul Monte Cila il primo maggio 1943, avvenimento che lo stesso Capobianco definisce “clamoroso”.

 

Antonio Marasco, il comunista di Piedimonte d’Alife dalla parte degli ultimi

Il movimento operaio a Piedimonte d’Alife di Armando Pepe

Con prosa efficace e rapida lo storico Giuliano Perticone, ad affresco di un’epoca di forti tensioni sociali e segnata da una lotta politica lunga e tenace, credette opportuno scrivere che «La crisi del 1898 era stata piena di insegnamenti. La reazione crispina non si era ripetuta nelle stesse condizioni e con lo stesso apparente successo. Le Camere del lavoro già unite in Federazione scendono da 19 a 4, ma nel 1900 sono di nuovo 19. Più tardi altri organismi si sostituiscono alla Federazione delle Camere del lavoro[1]». Sulla scia di queste grandi idealità trova uno spazio tutto suo Antonio Marasco, morto a 62 anni in Piedimonte il 15 ottobre 1956.

Chi era Antonio Marasco?
Il primo a scriverne un profilo biografico fu Giuseppe Capobianco, il quale ammise, data la frammentarietà delle informazioni reperibili, che era un’impresa non facile, nonostante avesse rovistato negli archivi tra Caserta, Benevento e Roma. Tuttavia, perdurando l’assenza di ulteriori fonti e facendo di necessità virtù, proviamo a delineare un ritratto di Antonio Marasco e una brevissima storia degli albori movimento operaio a Piedimonte, dove la Sezione massimalista, forte di 200 iscritti, nell’ottobre del 1924 aderì compattamente al Partito comunista d’Italia, quello di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Camilla Ravera. Durante la duratura parentesi fascista, sia pure senza clangori ma non in modo felpato, l’opposizione operaia fu presente, continua e costante.
Alla caduta del regime mussoliniano, Antonio Marasco fu Presidente del Comitato di Liberazione a Piedimonte, proprio nel momento in cui Don Giacomo Vitale fu scelto dagli Alleati quale commissario straordinario dell’Ospedale civile. Andando a ritroso, dalle poche carte di Prefettura disponibili si viene a sapere che il 5 gennaio 1925 a Piedimonte «Un gruppo di comunisti armati di bastone, incoraggiato da rappresentanti del Partito popolare, si diresse verso la sezione del Fascio per provocare. Furono scambiate bastonate e rimasero feriti quattro comunisti, di cui uno giudicato guaribile oltre il ventesimo giorno. Dei quattro comunisti fermati, due, e cioè Boggia Giuseppe e Santomassimo Andrea, sono stati denunziati quali autori di lesioni, Marasco Antonio e D’Abbraccio Carmine per correità in tale reato[2]». Per i postumi delle percosse subite Andrea Santomassimo negli anni seguenti morì.
Non è distante dalla realtà supporre che l’episodio accennato rimanesse indelebile nella memoria di Antonio Marasco, il quale continuò svolgere il proprio lavoro di dipendente della Società Meridionale di Elettricità alla Centrale di Piedimonte.

Verso la fine della Seconda guerra mondiale e dopo
A fine agosto 1944 il dottor Italo Mormile, Prefetto di Benevento, appose la propria firma su di un decreto che stabiliva la nuova composizione dell’Amministrazione comunale di Piedimonte[3], formata da: l’avvocato Alfredo Ricigliano (sindaco), il prof. Giacinto Cirioli (assessore effettivo), l’avvocato Vincenzo Cappello (assessore effettivo), il signor Vittorio Geraci (assessore effettivo), l’avvocato Vincenzo Di Matteo (assessore effettivo), il dottor Fernando Tedesco (assessore supplente), il signor Federico Lupoli (assessore supplente nonché fedele seguace di Don Giacomo Vitale).
Ricordava in un suo libro, scritto in presa diretta, l’ex sindaco di Napoli, e senatore comunista, Maurizio Valenzi che «La più bella manifestazione di fraterna solidarietà è stata però quella organizzata il 1° ottobre scorso [1944] a Piedimonte d’Alife, in onore dei combattenti delle divisioni «Folgore» e «Legnano». Vi presero parte più di 10000 soldati, assieme alla popolazione di Piedimonte d’Alife. La presenza del Sottosegretario alla Guerra Mario Palermo, del Vescovo di Alife [Luigi Noviello], del Generale [Umberto] Utili, di numerosi ufficiali di Stato Maggiore e del rappresentante [Antonio Marasco] dei sei Partiti uniti nel Comitato di Liberazione diedero a questa bella festa di solidarietà popolare il carattere di una grande manifestazione di unità nazionale. Il successo della manifestazione stroncò definitivamente i tentativi criminali di alcuni ufficiali fascisti che si erano sforzati, alcuni giorni prima, di creare a Piedimonte una situazione incresciosa provocando incidenti tra i soldati del Corpo di Liberazione e la popolazione civile[4]».
Nel dopoguerra, e fino alla morte, Antonio Marasco rimase fedele agli ideali di gioventù, non dimenticando di stare sempre dalla parte degli ultimi, e pertanto gli fu intitolata la sezione piedimontese del PCI (Partito Comunista Italiano).

Fonti e riferimenti bibliografici
Mario Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Parma, Guanda 1975.
Armando Pepe, Le origini del fascismo in Terra di Lavoro (1920-1926), Canterano Aracne 2019.

[1] Giacomo Perticone, La formazione della classe politica nella Italia contemporanea, Firenze, Sansoni 1954, p. 98
[2] ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Anno 1925, busta 119, fascicolo 81 “Caserta e provincia”, sottofascicolo “Piedimonte d’Alife”.
[3] Giuseppe Capobianco, Antonio Marasco e il movimento operaio di Piedimonte Matese, Caserta Federazione comunista 1986, p. 44.
[4] Maurizio Valenzi, Esercito e popolo: parole ai nostri soldati, Napoli, Edizioni della Federazione comunista napoletana 1944, pp. 6-7
Come possiamo vedere nell’elenco non c’era il nome di Antonio Marasco, il quale nondimeno era Presidente del CLN locale.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Corrado Graziadei
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Corrado Graziadei

Corrado Graziadei
Giunse al Partito Comunista Italiano dalle fila socialiste dove aveva militato fin da giovanissimo prima come segretario cittadino e poi come segretario della federazione giovanile socialista. La sua iscrizione alla Federazione Giovanile Socialista Italiana risale al 1907, quando aveva appena 14 anni.
Graziadei era nato l’11 agosto 1893 a Sparanise, patria di Leopoldo Ranucci, divenuto assessore al Comune di Napoli nella giunta del Cln. A 16 anni fu denunciato e condannato dalla pretura di Pignataro Maggiore a pagare cinque lire di ammenda “quale promotore di processione civile senza licenza e per disturbo della quiete pubblica”. Anche nel suo impegno politico di

deputato Graziadei tenne fede alla sua coerente visione di vita di stare sempre con i più umili e con quelli che soffrivano condizioni sociali inaccettabili e a dir poco ingiuste. Egli continuò la sua lotta per l’emancipazione delle classi subalterne fino alla morte, avvenuta il 13 luglio 1960.
Nella sua lunga militanza ricoprì vari incarichi anche di livello regionale nazionale, prima nel PSI e poi nel PCI, di cui fu uno dei primi segretari nella ricostruita Federazione provinciale il 1945. Tra le cariche pubbliche ricordiamo quella di sindaco di Sparanise nel 1944, di consigliere Provinciale nel 1946 e di Deputato al Parlamento nel 1953. Negli anni venti diversi comuni a guida socialisti furono assaliti dalle squadracce fasciste, a partire da Capua e da S. Saria CV che già era sede del Tribunale. Nel 1924 vi fu una rivolta contadina a Teano contro le nuove pesanti tasse imposte dal regime con l’avallo degli agrari.
In questi anni Mussolini in persone ebbe a dichiarare che “Caserta deve rassegnarsi ad essere un quartiere di Napoli”, aggiungendo che “i Mazzoni (nome del territorio meridionale di TdL compreso tra Aversa e la costa tirrenica) sono una plaga; con terreno paludoso, stepposo, malarico, abitato da una popolazione che fino dai tempi dei romani aveva una pessima reputazione ed era chiamata popolazione dei latrones”.
Per ironia della sorte qui era uno dei pochi luoghi in Italia dove il duce veniva contestato e beffeggiato.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro Scritti di Corrado Graziadei Le lotte nelle campagne di Terra di lavoro 1945-1950   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: libro su Corrado Graziadei di P. Mesolella    
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Gori Lombardi
 

Gori Lombardi
Era nato a Sessa Aurunca l’8 luglio 1916, riuscì ad entrare in consiglio provinciale nel 1964, tentando senza successo di diventare parlamentare della Repubblica come Corrado Graziadei nel cui collegio fu candidato nel 1958 e nel 1963. Poteva ancora dare un contributo rilevante all’emancipazione delle lavoratrici, ma mancò a soli 49 anni il 23 marzo 1966. Fu uno dei più importanti protagonisti della storia del Pci casertano. I contadini che avevano avuto assegnate le “quote” del terreno bonificato entrarono in conflitto con la politica agraria del regime. Nel dopoguerra le lotte dei “quotisti2 continuarono e a dirigerle fu proprio Gori Lombardi, che fondò la locale sezione del PCI a Sessa Aurunca nel 1944. Egli ebbe anche un ruolo di primo piano durante le occupazioni di terra del 1945 a Carinola. Poi ebbe modo di partecipare alla scuola quadri del PCI.
Anche lui entrò in contrasto con le tendenze personalistiche del dirigente De Andreis e venne gradualmente emarginato dai compiti di direzione all’interno del partito, come capitò a molti altri. La sezione comunista di Sessa Aurunca venne ricostruita il 19 febbraio 1944 da Gori Lombardi, insieme con altri militanti comunisti che avevano combattuto clandestinamente nella zona sessana, come Corrado Graziadei e Benedetto D’Innocenzo avevano fatto nell’agro caleno, così come il professore Alberto Iannone e i compagni di Capua, Antonio Marasco fu fondatore del movimento operaio a Piedimonte Matese e Leopoldo Cappabianca a Santa Maria Capua Vetere. Nella riunione del 19 febbraio, Gori Lombardi fu eletto all’unanimità segretario della sezione comunista di Sessa Aurunca e partecipò alla svolta di Salerno, diventando altresì delegato al primo congresso della federazione comunista campana del 27 febbraio 1944.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Michele Izzo
 

Michele Izzo di Carano di Sessa
Giuseppe Capobianco, nel ricordare la sua figura, usa parole che tendono al lirismo al fine di comunicare quanto questo uomo, semplice lavoratore, abbia inteso dedicare la sua vita al riscatto delle classi subalterne di Terra di Lavoro, profondendo il suo costante impegno nel territorio sessano già dal 1920. Izzo seppe far intendere agli “intellettuali per vocazione” che non bisognava cullarsi su un passato di lotta alla resistenza e vivere di rendita su di esso. Per lui anche la lotta resistenziale era stata un grande momento di sofferenza, ma essa costituiva il preludio per le grandi lotte contadine, già iniziate nel 1920, da intraprendere dopo gli anni del fascismo ancora con maggiore vigore, spirito di sacrificio ed abnegazione “per intaccare nelle campagne i rapporti di proprietà e di produzione e conquistare così una nuova coscienza e una maggiore autonomia delle masse contadine”.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Benedetto D’Innocenzo
 

Benedetto D’Innocenzo (Calvi Risorta 1879-1962)
Si rivela figura storica rilevante nella lotta non solo contro il fascismo, ma soprattutto per una società più giusta, in stretto collegamento con l’impegno antifascista, politico e sociale di Corrado Graziadei. Infatti, se la figura di Graziadei risulta rilevante al fine di conoscere la storia dell’antifascismo, dell’organizzazione del Partito Comunista, delle lotte contadine in Terra di Lavoro, non minore rilievo riveste la figura di Benedetto D’Innocenzo. D’altronde i rapporti tra i due non erano solo di impegno politico comune, quasi parallelo, ma anche di rispetto e grande amicizia. Benedetto D’Innocenzo era titolare di una fabbrica di bibite che commercializzava nell’agro caleno. Si iscrisse al PCd’I nel 1921.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Benedetto D’Innocenzo

Nel 1924 Graziadei ospitò Antonio Gramsci nella sua abitazione di Sparanise, all’incontro fu presente anche il D’Innocenzo. Nell’anno successivo a Taverna Mele, residenza della famiglia D’Innocenzo, si svolse il Congresso Provinciale del Pcd’I presieduto da Celeste Negarville. Nel 1926 l’attivismo antifascista costò a D’Innocenzo sei anni di ammonizione. Iniziano quelli che Giuseppe Capobianco definisce “gli anni bui”. D’Innocenzo continuò ad essere uno dei collaboratori più fidati di Graziadei per la propaganda politica nelle campagne e contrade dell’Alto Casertano ed entrambi furono accomunati dall’arresto e dal confino nel 1937. La sua abitazione di Calvi Risorta, a Taverna Mele lungo la Statale Casilina, fungeva da sede di sezione calena del PCI, ove si recavano spesso esponenti di rilievo dell’allora partito comunista: da Umberto Terracini a Pietro Ingrao, da Giorgio Amendola a Giorgio Napolitano.
Benedetto D’Innocenzo continuò la sua battaglia per l’occupazione delle terre negli anni 1949-50 a Calvi Risorta con il figlio Diocrate che allora aveva 35 anni.

Infatti negli anni che vanno dal 1945 al 1950 in Terra di Lavoro, che era tornata ad essere Provincia di Caserta, iniziarono le occupazioni a Nocelleto di Carinola nel 1945 e proseguirono negli anni successivi in altre zone. Il 27 aprile 1945 la Federterra festeggiava l’assegnazione dei primi terreni occupati. Da allora tentativi di occupazione furono sporadici. Bisogna arrivare al periodo che va dal 22 Novembre 1949 al 17 dicembre 1949 in cui vi furono un susseguirsi di occupazioni di terre incolte: il 22 novembre 2000 braccianti occupano ben 5 tenute dell’agro di Carinola; il 24 novembre 2000 braccianti occupano la tenuta Spinelli di S. Maria La Fossa; il 28 novembre un migliaio di persone occupano la tenuta Pontoni nel territorio di Vitulazio; il 3 dicembre circa 2000 persone occupano la tenuta Limata nell’Agro di Carinola; il 17 dicembre un gruppo imprecisato di contadini occupa la tenuta Porcara di Baia e Latina. L’impegno di D’Innocenzo è stato sempre in prima linea anche in questa fase per favorire la costruzione di una società più giusta. Morì il 26 febbraio del 1962 a Calvi Risorta.

 

Benedetto D’Innocenzo: un uomo normale che seppe dire no al fascismo di Benedetta Mancino
Benedetto D’Innocenzo nasceva il 29 gennaio del 1879 in località Taverna Mele a Calvi Risorta, un paesino facente parte della vasta area di Terra di Lavoro. La sua famiglia, non molto numerosa, era composta da Angelo, suo padre, dalla madre Carolina, dalla sorella Giacomina e dal fratello Isaia. Il papà era nativo di Caporciano, una cittadina abruzzese ed era un carabiniere a cavallo; svolgeva, dunque, un lavoro che lo aveva affrancato dalla condizione contadina delle origini. Ma tra le peculiarità della famiglia di Benedetto c’era anche il lavoro esercitato dalla madre: la signora D’Innocenzo oltre ad essere un’attenta e premurosa madre di famiglia, era un’imprenditrice, proprietaria di una fabbrica di bibite di cui le più note erano la gassosa ed il caffè; alle spalle di questa fabbrica si trovava la “fornace”, in cui venivano preparati e cotti i mattoni che, una volta raffreddati, erano pronti per essere venduti.
La famiglia Mele - D’Innocenzo, pertanto, poteva contare su un'evidente agiatezza economica, il che aveva influito in maniera significativa sulla vita di Benedetto. Egli, infatti, aveva vissuto un’infanzia serena e spensierata, impegnato solo negli studi e ad apprendere i primi rudimenti di musica. A suo modo era una condizione privilegiata; basti pensare che ci si trovava all’indomani dell’Unità d’Italia, quando la povertà ed ancor di più l’analfabetismo erano prepotentemente diffusi, tanto che solo una cerchia ristretta di persone poteva permettersi il “lusso” dell’istruzione.
Oltre alla piaga dell’analfabetismo, a fine 800 l’altra grande afflizione delle campagne meridionali, sempre più spopolate, era l’emigrazione. Per porre rimedio, almeno in parte, a tutto ciò si era intervenuti con la bonifica di varie zone, il che consentiva l'aumento delle colture. In tale contesto, ogni regione cercava di distinguersi con la coltivazione di un determinato prodotto; ad esempio, la Campania si era specializzata per la coltura del pomodoro. In questo stesso periodo, inoltre, si andava sviluppando un primo apparato industriale che aveva provocato un cambiamento significativo nella vita socio-politica del Paese e la conseguente diffusione di idee socialiste tra gli operai sfruttati e malpagati. Da questo malcontento generale nascevano, a poco a poco, a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo, i “Fasci dei Lavoratori” e varie organizzazioni solidaristiche e di lotta. L’iniziativa si stava propagando un po’ in tutta la penisola in concomitanza a manifestazioni di propaganda socialista, ma il tutto era diretto, come è stato scritto, da "principianti della politica” e bisognava aspettare la nascita del giornale «La Propaganda» per poter parlare di una vera e propria organizzazione socialista. Il giornale rappresentava, infatti, il punto di riferimento dei diversi nuclei socialisti dislocati nel Mezzogiorno e in Terra di Lavoro, dove prevaleva l’impegno politico e civile dei due fratelli Ranucci di Sparanise, sostenuti anche da molti altri giovani della zona.
Era tra questi giovani che Benedetto D’Innocenzo iniziava a maturare il proprio pensiero politico, avvicinandosi fin da ragazzino alle idee socialiste. Egli, infatti, oltre a coltivare interessi per strumenti musicali quali il clarinetto, la chitarra ed il pianoforte, si interessava di questioni di natura politico-sociale, indignato per la situazione di sfruttamento del proletariato che si giudicava brutalmente schiacciato dalla “mano del padrone".
Nonostante si trattasse di problemi che non lo riguardavano in prima persona, Benedetto prendeva molto a cuore la sorte degli operai. E la cosa appariva ancor più enigmatica se si pensa che lui proveniva da una famiglia di imprenditori, il cui guadagno maggiore era dato dalla fabbrica di gassose, di conseguenza egli era più vicino agli imperativi commerciali del mondo capitalistico che ai bisogni dei proletari. Il giovane, dunque, sosteneva le persone più deboli e, quando poteva, cercava di aiutare chi era in difficoltà.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: lapide a ricordo di Benedetto D’Innocenzo

Quanto detto poc'anzi trova un riscontro anche in un episodio particolare della vita del D’Innocenzo, episodio in cui egli aveva mostrato autonomia di pensiero, nonché coraggio e coerenza nel fare cose in cui credeva. Si tratta di un evento accaduto nel 1894, quando il ragazzino, poco più che quindicenne, aveva deciso di prendere parte ad una manifestazione insieme a degli operai della zona. Durante lo svolgimento, però, erano intervenute le forze dell’ordine che lo avevano arrestato insieme a diversi manifestanti. Benché fosse presto rilasciato, l’infortunio segnava indubbiamente la sua vita, motivandolo ancor di più all’impegno politico militante.

Questo corso delle cose subiva un’interruzione quando il ragazzo, poco meno che ventenne, era chiamato a prestare il servizio militare9, inquadrato come appuntato (successivamente promosso a caporale) musicante in una Caserma della città di Pisa. In Toscana Benedetto D’Innocenzo trascorreva circa un anno, periodo durante il quale aveva conosciuto Alessandra Alessandrini, una ragazza pisana di 5 anni più giovane di lui, figlia di noti industriali della zona. L’amore fra i due era nato fin da subito, nonostante la tenera età della donna. Il loro fidanzamento andava avanti anche quando Benedetto, finito il servizio militare, ritornava a Calvi Risorta. Da quel momento in poi, infatti, tra i due ragazzi iniziava un’intensa comunicazione epistolare.
Qualche anno dopo, il 2 giugno del 1904, finalmente potevano convolare a giuste nozze a Pisa, per poi trasferire la loro residenza a Sparanise, a pochi chilometri da Calvi Risorta, dove Benedetto aveva la possibilità di stare più vicino a sua sorella Giacomina che nel frattempo si era sposata con Emilio Ricca - dal quale aveva avuto quattro figli. A Sparanise, inoltre, il D’Innocenzo aveva un’avviata attività commerciale che, ora, mandava avanti anche grazie all’aiuto della moglie.
Alessandra, tuttavia, non ha potuto dedicarsi a lungo al lavoro: infatti, subito dopo il matrimonio era rimasta incinta e l’anno seguente, il 5 marzo del 1905, dava alla luce Otello. Al primogenito facevano seguito Isaia, nato il 15 maggio del 1906, e Desdemona, nata il 6 novembre del 1907. Erano anni sereni, insomma, senza problemi economici e familiari di alcun genere. Le cose, però, cambiavano repentinamente quando la grande storia della nazione, con le sue terribili e sconvolgenti esigenze belliche, irrompeva anche nella vita privata dei D’Innocenzo richiamando alle armi il capofamiglia.
Benedetto, infatti, il 31 dicembre del 1911 era chiamato ad unirsi ad altri combattenti per partecipare alla guerra in Libia, lasciando di punto in bianco lavoro e famiglia. La notizia lo gettava nello sconforto, non voleva assolutamente partire e si ingegnava per cercare un espediente. Gli serviva però una scusa plausibile che non destasse sospetti, ma soprattutto che non lo facesse apparire come un disertore. Così, il D'Innocenzo - con la complicità della moglie e della sua famiglia — dichiarò di avere gravi problemi finanziari; dovendo provvedere, perciò, al sostentamento di una moglie e tre figli, si riteneva impossibilitato ad espletare i doveri a cui era chiamato. La scusa si rivelava efficace, tanto che sul suo foglio matricolare era immediatamente appuntato un esonero “per motivi economici di famiglia”. Tra l’altro, quest’ultima stava per allargarsi ulteriormente, dato che Alessandra era incinta ed aspettava la quarta figlia - Deifra, nata il 10 di ottobre del 1909.
Il pretesto che il D’Innocenzo aveva utilizzato per non partire militare aveva, indubbiamente, anche un’altra motivazione: il disagio di chi non condivideva i princìpi dell’impresa libica, con le sue logiche aggressive e nazionalistiche. Una posizione, tra l'altro, che animava un gran numero di socialisti, sia a livello locale che nazionale, allorché la maggioranza del partito decideva di ribadire il tradizionale pacifismo socialista, mentre il gruppo riformista (“di destra") aderiva ad una certa concezione “progressista" del colonialismo, schierandosi a favore della guerra in Libia.
Alla fine, questa situazione determinava perfino una rottura all'interno del partito socialista, tant’è che nel 1912 si giungeva alla cacciata dei dirigenti considerati “filo-tripolini” (cioè favorevoli alla guerra di Libia) come Bissolati, Podrecca, Cabrini e Bonomi. Quest’ala, la destra riformista del partito, si organizzava poi in un altro partito ispirato agli ideali del socialismo moderato. Come ricorda Giuseppe Capobianco, la crisi nazionale aveva un immediato riflesso anche sui diversi territori locali, dividendo i militanti, portando perplessità e scompiglio.
La vicenda, tuttavia, sembrava migliorare in seguito ad un altro avvenimento politicamente rilevante, datato sempre 1912: la riforma elettorale che sanciva la conquista del suffragio universale maschile. Il provvedimento prevedeva l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi dai 30 anni in su (senza alcuna limitazione), nonché ai cittadini maschi che avessero compiuto i 21 anni e che sapessero leggere e scrivere o che avessero prestato servizio militare. La riforma, benché ancora monca per la mancata estensione del suffragio alle donne, rappresentava comunque una grande modernizzazione della vita politica; il corpo elettorale si dilatava a dismisura, chiamando alla partecipazione politica enormi strati della società, soprattutto grandi masse di contadini che, così, potevano fare il primo passo verso l’emancipazione e la presa di coscienza della loro forza politica.
Era la prima volta al voto anche per Benedetto D’Innocenzo che, possedendo tutti i requisiti necessari, poteva finalmente esprimere le proprie preferenze politiche, sostenendo le ragioni del PSI. Ma quella del voto non era stata l’unica novità nella vita di Benedetto: nel 1912, il 30 novembre, egli diventava nuovamente padre di un bimbo di nome Diocrate. Con il nuovo arrivato, la famiglia D’Innocenzo diventava davvero numerosa: cinque figli da educare e “tirar su” non era sicuramente un compito facile. Tuttavia, Benedetto ed Alessandra, con pazienza e dedizione, cooperavano e si impegnavano a fondo affinché i propri figli non vivessero in condizioni disagiate.
Dal punto di vista economico, con l’attività commerciale il capofamiglia riusciva a sopperire ad ogni necessità dei bimbi e della moglie; anzi, poteva permettersi anche qualche “lusso”. Basti pensare che Benedetto poteva mandare i propri figli a scuola ed egli stesso poteva coltivare la passione per la musica classica, imparando a suonare diversi strumenti, tra cui il pianoforte. Senza contare l’amore per il teatro e per l’opera, testimoniato persino da alcuni dei nomi che dava ai suoi figli. Ma il D’Innocenzo non dimenticava di prodigarsi molto anche per gli altri, sempre attento ai problemi sociali dei suoi concittadini. Chiunque bussava alla porta di Taverna Mele, infatti, trovava ospitalità ed accoglienza, sia da parte del capofamiglia che della moglie e dei figli. Una generosità, peraltro, che non aveva secondi fini, tanto da non chiedere mai nulla in cambio per i favori elargiti.
Il D’Innocenzo dunque partecipava, oltre che “teoricamente", anche in maniera concreta alla vita socio-politica, mettendo a disposizione il proprio tempo, la propria casa nonché il proprio denaro, in un momento — va aggiunto — tutt'altro che facile della vita economica e sociale italiana. Il Paese, infatti, era scosso dai “disordini sociali dovuti ai grandi scioperi operai che culminavano nella settimana rossa, nel giugno del 1914". Ma se l’Italia era travagliata da questi problemi, il resto dell'Europa non era da meno. I rapporti tra i diversi Stati, infatti, si reggevano su un equilibrio pericolosamente fragile, alla cui base c’erano tensioni di natura politica ed economica, determinate dalle scelte compiute dalle grandi potenze europee a partire dalla fine dell’Ottocento. Una situazione siffatta non poteva durare a lungo. Così, alla prima occasione il tutto degenerava, provocando lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914.
Al principio, come è noto, l’Italia si dichiarava neutrale. Ma all’interno della penisola si agitavano del-le correnti ben definite e contrastanti fra loro, alcune delle quali tutt’altro che soddisfatte di non poter nuovamente “menar le mani”, si erano schierate a favore dell’entrata in guerra dell’Italia. D’altro canto, però, c’era la stragrande maggioranza della nazione (le masse cattoliche come quelle socialiste, allo stesso modo di gran parte dei liberali) che sosteneva esplicitamente la scelta del non intervento.
Uno dei principali movimenti interventisti era quello nazionalista, già fondamentale nella mobilitazione per la guerra di Libia. La sua ragion d’essere si basava sul concetto di “nazione, concepita come insieme di persone unite fra di loro da vincoli indissolubili”. Tale concezione aveva una duplice funzione: unificatrice. Da persone dello stesso Paese, e disgregatrice, tra gente di nazionalità diversa. Se da un lato, infatti, spingeva il popolo a restare unito, dall'altro incoraggiava un comportamento che per certi aspetti appariva aggressivo e razzista. In altre parole, il nazionalismo, sostenendo la supremazia assoluta della propria comunità nazionale, predicava un'inevitabile contrapposizione verso tutti gli altri Paesi. Tanto che, per alcuni protagonisti del nazionalismo italiano (si pensi a Papini), la guerra diventava uno strumento vitale e positivo: un lavacro per determinare l’igiene del mondo.
Il fronte interventista, tuttavia, era molto composito e non si riassumeva tutto nelle elucubrazioni del nazionalismo. C'era, infatti, anche un interventismo democratico e di marca riformista, nonché risorgimentale che vedeva nel conflitto come l’ultima guerra di liberazione, l’occasione per redimere le ultime terre irredente (il Trentino e la Venezia Giulia). Tra questi anche alcuni socialisti, sebbene rappresentassero la minoranza nel corpo di un PSI compattamente schierato contro la guerra. Per altri versi, c'era anche un'estrema sinistra interventista, quella sindacalista rivoluzionaria, che guardava alla guerra come la scintilla dell’auspicata occasione rivoluzionaria.
Su quale versante si fosse idealmente schierato Benedetto D'Innocenzo non appare molto chiaro, ma l’aver chiamato Trento e Trieste due dei suoi ultimi figli sembrerebbe accostarlo alla corrente interventista democratica. È soltanto un'ipotesi; quel che è certo, invece, è che era richiamato alle armi nel maggio del 1915 senza che andasse alla ricerca di nuove scuse per non partire - sebbene qualche ragione potesse ragionevolmente addurla anche in questo caso: Benedetto, infatti, lasciava Alessandra incinta del suo sesto figlio che nasceva un paio di mesi dopo la partenza, il 2 luglio del 1915, iscritto all'anagrafe (appunto) con il nome di Trento. Per la signora D’Innocenzo non era affatto facile gestire da sola una famiglia con tanti figli; come se questo non bastasse, il piccolo si ammalava gravemente, di poliomielite, quando aveva ancora solo pochi mesi.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: tessera del PCI anno 1945 di Benedetto D'Innocenzi

Nel frattempo, Benedetto cercava di far giungere sue notizie a casa con una certa assiduità. A volte inviava delle vere e proprie cartoline per far vedere il luogo in cui si trovava. Partito per il fronte come musicante, era mandato a Cervignano del Friuli, in provincia di Udine. In questa località, secondo alcuni racconti dello stesso D’Innocenzo, sarebbe avvenuto rincontro col maestro Arturo Toscanini, il quale lo avrebbe inquadrato ai suoi ordini nella banda militare dell’esercito. Tra i due sarebbe nato, come amava ricordare Benedetto, un rapporto di stima e d’amicizia tale che, al termine del conflitto, Toscanini gli avrebbe chiesto addirittura di seguirlo negli USA per continuare a lavorare insieme.

Un invito davvero autorevole e intrigante che, però, l’imprenditore casertano, memore dei doveri familiari, non aveva alcuna possibilità di accettare.
Quanto di vero e quanto di leggenda ci fosse nell’aneddoto appena narrato non è dato saperlo. Ma dando uno sguardo alla biografia dell’autorevole Maestro è stato possibile appurare due cose. In primo luogo. Arturo Toscanini aveva preso parte alla grande guerra raggiungendo, con i "suoi uomini", una delle postazioni più avanzate in provincia di Udine. In secondo luogo, Toscanini qualche anno dopo la guerra era effettivamente partito per una tournée negli Stati Uniti, come narrava il D’Innocenzo. Dunque, sembrerebbe esserci una certa rispondenza tra la storia dell’illustre direttore d’orchestra ed i racconti di Benedetto. Tuttavia, non resta possibile chiarire tutti i termini dell’avvenimento e del contesto nel quale si verificava.
Toscanini a parte, ritornando alla storia del nostro protagonista - alla fine del 1918 terminava la prima guerra mondiale, con la vittoria dell’Intesa e quindi anche dell’Italia che riusciva ad ottenere i tanto agognati Trento e Trieste. Alla conclusione del conflitto i militari potevano far ritorno a casa ed anche Benedetto, una volta ottenuto il congedo illimitato, tornava alla propria famiglia, potendo finalmente conoscere il suo ultimo figlio. Aveva da recuperare un bel po’ di tempo, all’incirca tre anni di lontananza dalla moglie, ma soprattutto dai figli che Benedetto ritrovava cresciuti. Otello aveva quasi 14 anni ed aiutava sua madre, insieme ad Isaia e Desdemona.
La famiglia D'Innocenzo, dunque, si era dovuta riorganizzare per andare avanti. Col ritorno di Benedetto, ovviamente, le cose iniziavano ad andare molto meglio. Quanto meno si alleggerivano le responsabilità che Alessandra si era dovuta sobbarcare negli anni della guerra, ritrovando progressivamente la tranquillità e la stabilità di un tempo. A contribuire a tutto ciò si era aggiunto il fatto che Alessandra era nuovamente incinta. La nuova arrivata nasceva il 15 novembre del 1919 e, come anticipato, era stata chiamata Trieste.
Immediatamente dopo la fine del conflitto, Benedetto iniziava a fare propaganda politica, ma solo fino al Natale del 1920, quando veniva accusato di oltraggio e resistenza all'arma dei Reali Carabinieri. in quella circostanza egli decideva di ridimensionare il suo impegno, almeno fino a quando non si sarebbero calmate un po’ le acque. L'anno seguente, tuttavia, la situazione del proletariato italiano stava per subire una trasformazione radicale, sia in ambito locale che nazionale. Difatti, il mito della rivoluzione d’Ottobre e il crescere del conflitto sociale interno determinavano una netta frattura all’Interno del PSI, provocando poi la scissione di Livorno del 1921 e la conseguente formazione di una nuova organizzazione: il Partito Comunista d’Italia, sezione della III Internazionale. Il napoletano Amadeo Bordiga era il principale leader del neonato gruppo. Secondo lui il nuovo partito doveva essere formato da un insieme di rivoluzionari professionisti, ristretto e compatto, che avrebbe dovuto guidare le masse quando si sarebbe presentata l’occasione rivoluzionaria. Si trattava di una concezione molto vicina a quella di Lenin il quale, però, si trovava ad agire in un contesto sociale arretrato e contadino come quello russo. Tale differenza di ambiente era la principale contestazione con cui Antonio Gramsci si opponeva a Bordiga.
Per Gramsci la rivoluzione italiana non poteva essere una meccanica traduzione dell’esperienza russa per l’evidente diversità dei due Paesi. In tal senso, nel contesto nazionale dell’Occidente, il partito rivoluzionario non poteva ridursi ad un nucleo ristretto, centralizzato e separato dal contesto sociale. Infatti, se in Oriente lo Stato era tutto, nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto. In altre parole, in Italia dietro l’apparato statale si scorgeva una “robusta struttura della società civile”, per cui secondo Gramsci l’affermazione del socialismo nella nostra penisola sarebbe dovuto passare attraverso una lenta e progressiva conquista dell’intera società per poi giungere alla struttura dello Stato. Questo dibattito aveva un risvolto anche sul piano internazionale, nella fattispecie si parlava del “caso italiano” negli organismi della Terza Internazionale, dove Gramsci si trovava perfettamente in linea col comunismo sovietico (e da esso veniva ricambiato e sostenuto), mentre Bordiga sembrava allinearsi alle ragioni dell’opposizione guidata da Trotskji. Bordiga, in ogni caso, era un leader riconosciuto ed autorevole nella base del partito italiano.
Tra coloro che decidevano di seguirne le orme c’era anche Benedetto D’Innocenzo, che si schierava al suo fianco sin dai giorni successivi la scissione di Livorno. Ma non era stato il solo a fare “la grande svolta”. Di lì a poco arrivavano anche un gran numero di ferrovieri della provincia, espulsi dal lavoro perché organizzatori degli scioperi; tra questi emergeva Corrado Graziadei, il futuro leader e parlamentare comunista, abitante a Sparanise che, non più giovanissimo, si iscriveva alla facoltà di Giurisprudenza per diventare un brillante avvocato pochi anni dopo. Benedetto stringeva con lui un’amicizia destinata a durare per tanti anni e che portava i due a vivere delle esperienze drammatiche, ma allo stesso tempo intense e significative.
Nel maggio del 1924 Graziadei partecipava al Convegno segreto di Como, dove era andato in rappresentanza della Federazione comunista di Caserta e lì, anche l’ex ferroviere aveva sostenuto le posizioni assunte da Bordiga. A lui si accodavano molti altri, tanto da far pensare che il leader napoletano avrebbe conservato tranquillamente il controllo del partito. Tuttavia, Bordiga non aveva potuto mettere in pratica la sua aspirazione poiché a livello internazionale era cambiata la “scena”. Nel corso del quinto congresso della Terza Internazionale, infatti, Stalin liquidava l’opposizione guidata da Trotskji, compreso Amadeo Bordiga. Tutto ciò aveva un riflesso immediato sul piccolo partito italiano, al quale si imponeva immediatamente un cambio della leadership.
Intanto, nella vita dell’imprenditore D’Innocenzo si avvicendavano una serie di avvenimenti più o meno piacevoli. Il 14 marzo del 1922 nasceva Giacomina Ribelle detta Mimina, ma l’anno successivo tanta gioia veniva oscurata da un terribile lutto per la morte di un’altra figlia: Vladimira, scomparsa a pochissimi mesi. Era un duro colpo per l’intera famiglia, ma soprattutto per Benedetto che era riuscito a superare l’accaduto con grande difficoltà, trovando solo nel crescente impegno politico un lenimento e una valvola di sfogo. Aveva infatti ripreso l’attività militante, questa volta - come si è preannunciato - nelle fila del comunismo, andando incontro a non pochi inconvenienti. I tempi, peraltro, erano cambiati, la battaglia politica si era fatta più dura e lo spettro del fascismo diveniva sempre più manifesto ed evidente.
Il 9 aprile del 1925, Benedetto era oggetto addirittura di una perquisizione personale in seguito alla quale gli era stato sequestrato un opuscolo del “Soccorso Rosso’’. Immediatamente dopo, altri controlli (in diverse case di sovversivi milanesi) favorivano il ritrovamento di alcuni elenchi di nomi, fra i quali quello del D’Innocenzo. Nello stesso periodo, inoltre, Benedetto veniva sorpreso mentre affiggeva dei manifesti di propaganda comunista ed era arrestato subito dopo. Come ricorda la prefettura di Caserta: il 9 aprile 1925 subì una perquisizione personale che fruttò il sequestro di un opuscolo sovversivo intitolato “Il perché del soccorso rosso internazionale’’. Da perquisizioni fatte eseguire in Milano in casa idi sovversivi furono trovati diversi elenchi di nomi fra i quali il suo. La sua attività l'esplica soprattutto nei comuni di Sparanise. Pietramelara e Riardo. Risulta altresì di essere stato arrestato per affissione di manifesti sovversivi offensivi alle istituzioni ed incitanti all'odio fra le classi sociali.
Tuttavia, l’infortunio non scoraggiava certo un uomo come Benedetto D'Innocenzo che imperterrito continuava la sua battaglia. Un episodio che testimoniava il persistente e costante impegno politico era quello dell’incontro tra comunisti in una casa colonica nei pressi di Riardo. Si trattava del Congresso provinciale del partito, avvenuto nel 1925 e presieduto da Ennio Gnudi e Umberto Terracini. In questa circostanza, in cui veniva deciso il nuovo nucleo che avrebbe diretto l’azione del partito, era riconfermato Graziadei alla guida della federazione, affiancato proprio da Benedetto D’Innocenzo, oltre che da Domenico Schiavo, da Antonio Marasco, da Gennaro Leoncavallo e da Ambrogio Ursillo. Come se non bastasse, qualche mese dopo il Congresso della FGCI presieduto da Celeste Negarville si svolgeva a Taverna Mele, la dimora del D’Innocenzo.
Entrambe le riunioni si svolgevano in assoluto segreto, perché se solo la polizia avesse sospettato un minimo movimento, avrebbe impedito il tutto, arrestando certamente i malcapitati. E la situazione politica era destinata solo a peggiorare. Infatti, nel novembre del 1926 Benito Mussolini emanava le leggi speciali con le quali dava ufficialmente il via all'era della dittatura fascista. L'immediata conseguenza di ciò era lo scioglimento dei partiti ostili al neonato fascismo, primo fra tutti il PCI. Pertanto, iniziavano a “fioccare” tutta una serie di provvedimenti per “sistemare” una volta per tutte i fastidiosi antifascisti. A livello nazionale venivano dispensate sentenze eclatanti, come l’arresto e la successiva condanna a vent’anni di carcere toccata ad esponenti di rilievo come Antonio Gramsci; mentre a livello locale c’erano gli arresti, le ammonizioni, i provvedimenti di confinamento assegnate a tutti coloro che intralciavano la politica del regime.
Una punizione simile veniva data anche a personaggi come Graziadei e D’Innocenzo. Riguardo quest’ultimo, la polizia fascista rimarcava che:col pretesto di gestire una fabbrica di gazzose trova occasione di girare per diversi comuni ove esplica attività antinazionale. Il 15 dicembre del 1925 fu proposto per l’ammonizione e con ordinanza 28 detto fu ammonito. Ma mentre l'ammonizione a carico dell’ex ferroviere Graziadei era revocata dopo qualche mese, quella di Benedetto era destinata a durare fino al 1928, con l’aggravio di una stretta sorveglianza da parte delle autorità.
La Commissione Provinciale dì Napoli - continuava il rapporto dell’autorità prefettizia - con ordinanza del 16 gennaio 1928. ha prosciolto dai vincoli della ammonizione il controsegnato comunista, ammonito con ordinanza del 28 dicembre 1926 dell’Ex Commissione Provinciale di Caserta. Il D’Innocenzo viene ora vigilato come sovversivo.
La situazione, dunque, si faceva insostenibile per i comunisti che dovevano, seppur per un tempo limitato, "deporre le armi” e rientrare dei ranghi della loro vita privata. Dal 1927 al 1936, infatti, per i comunisti di Terra di Lavoro era un “periodo buio”, come scriveva Giuseppe Capobianco. Il che valeva anche per Benedetto D’Innocenzo, sorvegliato costantemente dalla polizia che faceva rapporto sul suo conto ogni tre o sei mesi, senza però dare adito a contestazioni. In ognuno di essi, infatti, si leggeva: Durante questi ultimi tempi pur mantenendo ligio alle sue idee non ha dato luogo a rilievi con la sua condotta politica; è vigilato.
Questa vigilanza durava dal 30 giugno del 1928 al 2 gennaio del 1937, periodo in cui il sovversivo non si occupava affatto di politica. Tuttavia, in quegli stessi anni il regime si interessava anche al resto della famiglia, ad iniziare dal figlio Otello, sospettato di essere un comunista, pertanto schedato come “sovversivo”. La polizia aveva iniziato a fiutare qualcosa già dal 1926, quando il giovane lavorava a Milano, facendo propaganda sovversiva tra i suoi colleghi. Segnalato alle autorità, era puntualmente trasferito, prima a Trieste e successivamente a Messina e Ragusa. E proprio durante la permanenza in Sicilia, Otello aveva incontrato Santa, una giovane isolana, che sposava poco dopo. Nel 1928 arrivava il primo figlio, che i due avevano deciso di chiamare come il nonno paterno: Benedetto. Dopo la nascita del bimbo, Otello era ormai convinto di aver trovato una certa stabilità, oltre che familiare, anche lavorativa. Purtroppo, invece, era trasferito ben presto a Bologna dove, però, egli aveva avuto molta fortuna. Difatti, in Emilia Otello non proseguiva la sua solita attività di operaio, ma aveva intrapreso l’attività di imprenditore edile, sfruttando l’esperienza e la qualifica professionale di capo capocantiere. Il tutto ovviamente avveniva sotto l’occhio attento delle forze dell’ordine che non accennavano ad abbassare la guardia. Addirittura la polizia, non fidandosi di Otello, chiedeva informazioni su di lui anche tra i clienti, generando in molti casi qualche perplessità e, in qualche caso, la perdita del lavoro. Otello perciò decideva, nel settembre del 1928, di scrivere una lettera direttamente al Duce in cui gli spiegava la situazione, cercando di “salvare il salvabile”, dato che egli aveva perso già tanti clienti: Sono ingiustamente perseguitato dalla polizia perché ritenuto un comunista ma non lo sono, anche se mio padre lo era. Ciò che mi interessa maggiormente sono la mia famiglia (mia moglie Santa e mio figlio Benedetto) e il mio lavoro, senza interesse alcuno perla politica.
Questa lettera di abiura, insieme alla “buona condotta politica”, era ritenuta sufficiente dalla dittatura, tanto che nel 1933 Otello era radiato dallo schedario dei “sovversivi”. La situazione di quest’ultimo, d’altra parte, aveva preoccupato un po’ tutta la famiglia, in special modo il papà, che ben conosceva i metodi spietati e cinici della polizia fascista.
Intanto, a Taverna Mele c’erano stati diversi cambiamenti. In primo luogo due matrimoni: quello di Deifra con Antonio Elia, anch’egli comunista, e quello di Desdemona con Veltre, i quali dopo qualche anno decidevano di emigrare negli USA. Ai due bellissimi eventi, però, faceva seguito una tragica vicenda: la morte di Isaia. Il giovane ventiseienne lavorava come operaio ad Ariano Irpino ed aveva più volte segnalato all’ingegnere responsabile il guasto dei freni di un rullo compressore. Alla richiesta non aveva fatto seguito alcun atto concreto ed un giorno, il 3 ottobre del 1932, per una banale distrazione, Isaia veniva travolto e schiacciato dal rullo che lo uccideva sul colpo. Era un evento drammatico che gettava nello sgomento l’intera famiglia, disperati anche per la consapevolezza dell’evitabilità della tragedia che non mancavano di segnalare alla magistratura, denunciando l’impresa responsabile. Con ciò, riflettevano i D’Innocenzo, la famiglia non avrebbe certo riavuto Isaia, ma avrebbe quantomeno denunciato la situazione vissuta da tanti operai, costretti a lavorare in condizioni di estrema pericolosità.
Per lo stesso Benedetto il colpo era durissimo e cercava di attutirlo gettandosi nel lavoro e in uno sporadico e assai prudente impegno politico; almeno per quel tanto che era consentito al cospetto dell’occhiuto controllo di un regime all’apogeo della sua forza. Proprio nell’anno della morte dell’amato figlio, infatti, il fascismo festeggiava il primo decennale del suo trionfo con innumerevoli celebrazioni e, addirittura, concedendosi il lusso di una larga amnistia per i reati politici. L’anno dopo, però, l’infezione totalitaria dilagava dalla periferica Italia al cuore stesso dell’Europa e Hitler conquistava il potere in Germania. Il fenomeno sembrava accompagnarsi, inoltre, ad un generale declino delle democrazie e all’affermazione di regimi autoritari e reazionari, sia nell’Europa orientale che nella vicinissima penisola iberica.
In particolare, agli inizi degli anni Trenta la Spagna entrava in un periodo di conflitti sociali e politici molto acuti che portavano prima all’immediata caduta delia monarchia - sostituita dalia Repubblica – poi ad una sovversione militare che, a partire dal 1936, apriva una vera e propria guerra civile. Le forze armate sleali alla Repubblica erano sostenute all’interno da una forte destra conservatrice e dalla Chiesa cattolica. All'esterno, invece, erano proprio i regimi di Mussolini e di Hitler a fiancheggiarne l'azione politica e militare, individuando in esso un campo di ulteriore espansione del proprio modello di Stato e di governo.
Per questo suo carattere ideologico, il confronto che si apriva in Spagna non rappresentava un semplice fatto locale, ma si affermava presto come un nodo importantissimo della politica internazionale. E se l’Italia e la Germania mandavano mezzi e soldati in aiuto al generale Franco, migliaia di combattenti antifascisti affluivano in Spagna da quasi tutti i Paesi del mondo per contrastare l’ennesimo regime liberticida. Molti erano gli Italiani che fondavano perfino una propria brigata internazionale, intitolata a Giuseppe Garibaldi. In particolare, i comunisti vedevano nella guerra spagnola il riaccendersi di un barlume di speranza nella sconfitta del fascismo, iniziando ad interessarsi dell’andamento della guerra. Ma era proprio una notizia riguardo il conflitto ad essere fatale per Benedetto D’Innocenzo e Corrado Graziadei. I due infatti venivano arrestati proprio per la divulgazione di un fatto accaduto in Spagna. In merito, il Questore di Napoli Stracca scriveva il 29 marzo del 1937: La notte sul 24 volgente questo Ufficio procedette in Calvi Risorta all'arresto del noto comunista schedato ex ammonito D'Innocenzo Benedetto essendo risultato che pochi giorni prima aveva propalata la notizia, che assumeva di avere appresa attraverso una radio diffusione da Barcellona, relativa a tal D'Andreti Alessio del comune di Roccaromana, combattente volontario in Ispana, che sarebbe stato colà fatto prigioniero con molti altri volontari italiani dai battaglioni rossi Garibaldi e Matteotti, dai quali peraltro sarebbe stato trattato bene. [...] A seguito dell'arresto proseguendo nelle indagini questo Ufficio accertò che egli il giorno 15 andante aveva ricevuto incarico a mezzo lettera dal comunista schedato Graziadei Corrado, suo compagno di fede, per avvertire i famigliari del D'Andreti della sua prigionia. Fu anche accertato che il Graziadei aveva appresa la notizia la sera del 14 volgente attraverso ascoltazione dell’apparecchio radio che egli stesso teneva nel proprio domicilio, e pertanto la notte sul 24 volgente fu proceduto pure al suo arresto.
Al D’Innocenzo era stata sequestrata la lettera che Graziadei gli aveva scritto per raccontargli ciò che aveva ascoltato dalla radio e, ovviamente, la polizia aveva usato il contenuto della missiva contro di loro. D’Innocenzo e Graziadei dichiaravano di aver agito per generosità verso la famiglia dell’uomo in questione (volevano rassicurarli sulla sorte del loro caro, ancora in vita, nonostante la prigionia). Ma secondo le forze dell’ordine quanto detto dai due non corrispondeva a verità: è ovvio che lo scopo era ben altro: come si evince dalla divulgazione della notizia riflettente la cattura delle armi e munizioni per nulla attinente alla prigionia del D'Andreti.
Pertanto, sia Benedetto che Corrado venivano assegnati al confino politico. Il 31 marzo del 1937 il D’Innocenzo era portato nella Regia Questura di Napoli dove gli era comunicata la sentenza: “condanna al confino di polizia a Tremiti per ragioni politiche per due anni, con la possibilità di ricorrere alla Commissione d’Appello”. Cosa che egli faceva, senza pensarci tanto su, producendo un ricorso in data 6 aprile 1937 e scrivendo una lettera alla Commissione Ministeriale per i confinati: lo, semplice operaio, non ero alla pollata di capire se ciò che conteneva il biglietto era compromettente o meno. Nella mia intenzione non vi era nessuna voglia di propalare il comunicato radio, perché se ciò avessi voluto fare, avrei incominciato a Sparanise dove mi fu consegnato il biglietto: invece me ne tornai a casa senza dire niente a nessuno: a conferma di ciò sta il fatto che neanche a Riardo a nessuno parlai del comunicato.
Dopo essersi giustificato di ciò che aveva fatto, Benedetto continuava raccontando cosa era successo (evidenziando sempre la buona fede nella divulgazione della notizia). Ma il tentativo si rivelava vano e gli veniva riconfermata la sentenza del confino per due anni, costretto perciò a lasciare la sua famiglia e a scontare, tristemente, la pena inflittagli. Giungeva così alle Tremiti, il 12 aprile di quello stesso anno, dove era sottoposto agli obblighi del confino da ultimare il 23 marzo del 1939, salvo interruzioni. Il 30 giugno, in un rapporto della Regia Prefettura di Foggia si leggeva: “finora non ha dato luogo a rilievi in linea politica’’. Benedetto D’Innocenzo era, dunque, un “confinato” tranquillo che non dava problemi. Era, molto probabilmente, per questa ragione che il 4 luglio egli chiedeva una licenza che gli era anche con diversi creditori che, approfittando della lunga assenza dell’imprenditore, non pagavano il dovuto. Inoltre, c’era da portare avanti la causa contro l’impresa edile per l’infortunio di Isaia che era ancora in corso dal 1932. Tuttavia, la breve licenza non era stata sufficiente a Benedetto per sbrigare le varie faccende; cosicché, una volta ritornato a Tremiti e aspettato circa un mese, chiedeva un’altra licenza. La Regia Prefettura di Foggia esprimeva anche questa volta parere favorevole, concedendo al confinato un permesso a partire dal 28 agosto 1937, con la durata di otto giorni. Allo scadere del termine stabilito Benedetto chiedeva una proroga di 20 giorni, ma il Prefetto di Napoli gli accordava solo 10 giorni, ritenuti sufficienti per poter sistemare il tutto. Così, il D’Innocenzo il 16 settembre, munito di foglio di via e scortato da due agenti, che lo avevano accompagnato durante tutta la permanenza a Calvi Risorta, faceva ritorno alle isole Tremiti.
Dopo la partenza di Benedetto, i suoi familiari tentavano di ottenere qualcosa scrivendo direttamente a Mussolini per spiegare la situazione del loro caro. Una prima lettera veniva mandata da Otello, il quale chiedeva clemenza per il padre: mio padre è stato assegnato al confino politico a Tremiti, prov. Foggia, per anni due a causa di dicerie riportate riguardanti un prigioniero di guerra in Spagna. Mentre assicuro V.E. che i suoi sentimenti sono e sono sempre stati del più alto amore di Patria e della più completa devozione alla rivoluzione ed al fascismo mi permetto rivolgere la più viva e rispettosa preghiera a V.E. per poter ottenere che mio padre sia graziato.
La lettera di Otello era datata 21 settembre 1937 e due giorni più tardi, il 23 settembre, anche Alessandra mandava una comunicazione al Duce nella quale chiedeva: che fosse riesaminata la cosa coscienziosamente, e se da questo riesame fosse emersa la sua buonafede e la sua innocenza. rimandarlo in seno alla famiglia, che senza la sua presenza si sarebbe andati irreparabilmente alla rovina. [...] inoltre, mio marito non ha ancora trovato un avvocato per Cassazione per poter controbilanciare le grandi influenze degli avversari; ma ciò non è stato possibile durante la licenza non essendosi potuto recare a Roma.
Non è stato possibile appurare l’iter delle due lettere, ma di certo Benedetto era ben presto libero. Infatti, nell’autunno del 1937 giungeva l’inaspettata notizia: S.E. il Capo del Governo gli aveva commutato il residuale periodo di confino in ammonizione. Questo provvedimento era datato 8 ottobre 1937 ed il giorno 12 dello stesso mese Benedetto partiva dalla colonia di Tremiti diretto a Napoli, accompagnato da alcune guardie. Giunto a destinazione il giorno 13, era ufficialmente dichiarato ammonito e avviato verso Calvi Risorta. I vincoli ai quali era sottoposto, tra cui quello di non fare propaganda politica ed avere un domicilio stabile, imposti con un'Ordinanza della Regia Prefettura di Napoli, in seguito alla riunione della Commissione Provinciale per l’ammonizione, si sarebbero esauriti il 23 marzo del 1939.
Ma un altro colpo di scena faceva mutare ulteriormente la situazione: in seguito ad atto di clemenza di Mussolini, in ricorrenza del Natale, il 25 dicembre entrambi i due ex confinati erano prosciolti anche dai vincoli dell’ammonizione. D’Innocenzo e Graziadei, dunque, erano completamente liberi seppur attentamente sorvegliati, Dalla Regia Prefettura di Napoli sono stati registrati controlli di vigilanza su Benedetto ogni tre mesi fino al 23 aprile del 1943, in cui era riportata sempre la stessa dicitura: “Durante decorso trimestrale nessun rilievo da segnalare. Ha serbato regolare condotta politica”. Dunque, anche se “alleggerito” dalla condanna precedentemente imposta, egli era ancora sotto i riflettori della polizia fascista che lo teneva d’occhio a debita distanza. Tuttavia, la sorveglianza andava sempre di più scemando, tant’è vero che, a differenza di quanto si raccontava nei rapporti ufficiali delle autorità, al ritorno dal confino sia Benedetto D’Innocenzo che Corrado Graziadei riprendevano i contatti con i pochi comunisti sopravvissuti alla dittatura e con essi decidevano di ricostruire il partito.
Intanto, nella vita privata di Benedetto c’era stato un altro avvenimento tragico: la morte di Alessandra. La signora D’Innocenzo, duramente provata dalle disgrazie di Vladimira ed Isaia, nonché dalle traversie legate alla repressione del fascismo, veniva a mancare nel 1939. La famiglia, straziata dal dolore, si stringeva intorno a Benedetto che era rimasto unico punto di riferimento del nucleo familiare. Per di più, in quello stesso anno aveva inizio anche il secondo conflitto mondiale, con il timore che esso potesse ben presto coinvolgere anche l’Italia. L'anno seguente, infatti, Mussolini decideva di entrare in guerra con un massiccio impiego di uomini. Il conflitto si rivelava disastroso per il Paese, che lo affrontava completamente impreparato. Nel giro di pochissimo tempo gli italiani dovevano chiedere aiuto al potente alleato tedesco, fino a dover subire - a partire dal giugno-luglio 1943 - l’invasione degli anglo-americani decisi a risalire tutta lo stivale, dalla Sicilia alle Alpi. Era in quel clima, come è noto, che maturava il crollo del fascismo, con una sorta di colpo di palazzo - il 25 luglio del 1943 - orchestrato dal re e dal fascismo moderato. Nel giro di un mese e mezzo, inoltre, gli eventi precipitavano e l’Italia era costretta, addirittura, a firmare l'armistizio con gli anglo-americani. Era l’8 settembre; in quel momento il vecchio alleato nazista cambiava volto e diventava un nemico incattivito per il voltafaccia e, dunque, molto pericoloso.
Prima di quel momento, i comunisti casertani erano già riusciti a ricostruire un minimo di organizza-zione, a partire dall’esperienza cospirativa ispirata da Aniello Tucci, noto antifascista di Terra di Lavoro, iniziata nel 1941 insieme al fratello Tommaso ed altri (quali Lazzetti, Semerano e Spinosa). L’intento era quello di costruire una rete e mettere insieme tutte le forze antifasciste della provincia di Caserta. Spinosa aveva portato con sé anche Corrado Graziadei e questi successivamente si era preoccupato di far inserire altri nel gruppo. Si volevano creare dei nuclei operativi per quante più zone possibili, autonomi e non in contatto diretto col il nucleo principale, in modo che sarebbe stato difficile per la polizia individuare l'intera organizzazione. Era in quest’ambito che, nel 1942, nasceva a Capua il solo giornale di opposizione di tutta l’Italia meridionale: «Il Proletario». Esso veniva sempre stampato nella città natale, in una tipografia mobile, e usciva con una certa regolarità ma soltanto fino al luglio del 1943. Nella redazione vi erano tutti i componenti dell’organizzazione summenzionata, tra cui anche Graziadei. L’avvocato si occupava sia degli articoli che dello smistamento del giornale nella zona del Matese e di Sparanise, con l’aiuto - ovviamente - del compagno Benedetto D’Innocenzo. Ma, come si è detto, l’organizzazione aveva potuto agire solo fino al 1943, quando “alla Cappella di Cangiani, Napoli, nella casa di un compagno ci fu una riunione per stringere le fila del movimento clandestino e per raccogliere fondi per il periodico”. In quella occasione, infatti, intervenivano le forze dell’ordine che arrestavano 49 persone su 79 partecipanti e scompaginando la redazione del «Proletario» che smetteva praticamente di esistere.
Gli eventi che seguivano vedevano Terra di Lavoro interessata dal rapido passaggio della guerra che provocava lutti ed enormi distruzioni, pur senza dare il tempo materiale per organizzare una diffusa ed efficace resistenza contro le truppe tedesche. Il risultato era quello di un gran numero di stragi di civili (circa 650 morti, senza distinzione né di sesso né di età) e il deterioramento di una situazione economica, di per sé già tutt’altro che positiva. La fibrillazione sociale, tuttavia, non si traduceva immediatamente come una spinta al cambiamento politico-istituzionale. Lo dimostrava in maniera evidente il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, ad un anno dalla fine della guerra, quando I' 80% della popola-zione casertana si esprimeva a favore dei Savoia. L’attaccamento alle passate istituzioni, corresponsabili sia dell’avvento al potere di Mussolini che della guerra, era tanto forte da determinare veri e propri disordini all’atto della proclamazione dei risultati definitivi che assegnavano la vittoria alla Repubblica.
Intanto, il PCI, finalmente alla luce del sole, aveva da risolvere molti problemi interni. Anzi, era a questa situazione di crisi che Capobianco addossava il cattivo risultato del partito, attestatosi ad appena il 4,98%, contro il quasi 20% nazionale. La prestazione deludente dava vita ad una discussione aspra e difficile, tanto da portare ad un avvicendamento della guida provinciale del partito che passava, nel settembre 1946, nelle mani di Nino De Andreis. Graziadei restava invece nel nuovo comitato federale, dove era eletta anche Trieste D’Innocenzo che aveva seguito le orme del padre74. Quest’ultimo, al contrario, aveva già raggiunto un’età in cui bisognava iniziare a centellinare gli impegni, evitando gli strapazzi e le eccessive fatiche. A quasi 70 anni, d'altra parte; continuava a condurre l’azienda (che nel frattempo era divenuta un’impresa familiare nella quale lavoravano i figli). Non rinunciava alla politica, insomma, ma assumeva un atteggiamento più distaccato e meno coinvolto. Il testimone, in realtà, era passato da una generazione al ’altra, dal vecchio padre alle mani della giovane Trieste. Questo ritrarsi nel privato, tipico degli ultimi anni di Benedetto D'Innocenzo, non si traduceva però in un disinteresse verso la società o nei confronti dei problemi degli altri uomini. Il suo istintivo sentimento di solidarietà nei confronti dei simili continuava, infatti, a manifestarsi senza tregua, e in termini sia economici che morali. Un esempio molto ricordato dalla famiglia è quello che vedeva coinvolto uno studente inglese di origine malese, un giovane di nome Revi che rischiava di moriva annegato nel corso dell’alluvione del 1960. La fortuna volle che Benedetto si trovasse a passare di lì e, a più di 80 anni, riuscisse a trarlo in salvo dal fiume nel quale era caduto. Il giovane, molto malandato a causa della sua peripezia (pare avesse contratto una forma di polmonite) veniva subito portato a Taverna Mele dove la famiglia D’Innocenzo lo accoglieva e lo curava per diversi giorni. Solo dopo essersi ripreso perfettamente, Revi faceva finalmente ritorno in Inghilterra.
L’episodio anticipava di poco la scomparsa di Benedetto D’Innocenzo che moriva il 26 febbraio del 1962, all’età di 83 anni. Si concludeva, così, la vita di un uomo che la polizia fascista qualificava come un “sovversivo, un comunista schedato pericoloso, più volte ammonito, confinato. Ma ciò che appare più evidente dalla sua biografia è la tenacia e costanza nel professare e difendere gli ideali in cui ha sempre creduto, nonostante le oggettive difficoltà dettate dalla necessità di mantenere una numerosa famiglia - un’esigenza che lo aveva spinto, in qualche caso, a fingere perfino il ravvedimento politico per evitare la stretta repressiva del regime fascista.
Ma la politica era solo una delle passioni che lo contraddistinguevano. D'Innocenzo era un uomo semplice, naturalmente buono, generoso nei confronti di tutti, comunisti e non, che sapevano di poter trovare a Taverna Mele sempre un sostegno e una parola di conforto. In tal senso, la sua storia merita di essere raccontata: per il coraggio e la fermezza delle proprie idee, ma anche per l’orgoglio e la fierezza che, ancora oggi, suscita nel ricordo dei suoi familiari e dei suoi concittadini.

** Tratto d Quaderni Vesuviani autunno 2008

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Michelina Vinciguerra
 

Michelina Vinciguerra
Nata a Maddaloni il 07.09.1930 da padre impiegato civile presso l’accademia militare di Caserta, primogenita di quattro figlie femmine. Nel 1941 il padre morì a 33 anni in guerra e pertanto restarono orfane di guerra. Vivevano a Casagiove, ma nel 1942 ritornammo a Maddaloni ad abitare presso la nonna materna. Ha frequentato le scuole fino al quarto ginnasio dove ho conosciuto in qualità di insegnante la figlia di Corrado Graziadei, che insegnava educazione domestica e che ci avviò alla vita politica e all’adesione alla associazione Ari – Associazione ragazze italiane.
A circa 13 anni frequentando l’associazione diede la sua adesione all’Udi organizzazione femminile a Maddaloni, dell’Anpi e del PCI, il cui segretario all’epoca era Giuseppe Natale fondando una colonia per bambini all’interno dei capannoni militari americani che erano stati abbandonati a conclusione della guerra. Trovò sostegno economico e materiale nelle nostre iniziative dal sindaco Pci di Macerata Campana, S. Tarigetto. Inoltre il fratello di Nicoletta Ursomando ex presentatrice della Rai dirigeva l’Urra una struttura che si trovava presso la Prefettura e anche da lui ottenemmo sostentamento materiale per portare avanti le attività delle colonie in favore dei bambini. Non so se fosse comunista, ma ci aiutò.”

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Maria Almaviva
 

Maria Almaviva (1932–2019)
Il sindaco di Marcianise Antonello Velardi l’ha commemorata con parole toccanti: “Se ne è andata ieri sera Maria Almaviva, aveva 87 anni. Ai più giovani il nome non dirà niente, ma con lei si chiude un periodo storico della provincia di Caserta e non solo. Maria Almaviva era la vedova di Peppino Capobianco, monumento della sinistra campana. E lei stessa è stata protagonista di straordinarie battaglie politiche. Fu la prima consigliera comunale donna della provincia di Caserta nel periodo della rinascita democratica. Sedette nei banchi del consiglio comunale di Marcianise alla fine del 1952, fu il simbolo di un femminismo mai ostentato ma sempre praticato in tempi difficili e di grandi chiusure”.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Maria Almaviva

E’ morta Maria Almaviva, prima consigliera donna in Terra di Lavoro. Era la moglie di Peppino Capobianco e la mamma di Franco e Giovanni.
Mondo della politica in lutto. E’ morta Maria Almaviva, vedova di Peppino Capobianco, faro assoluto di tutto il mondo della sinistra in Terra di Lavoro e madre di Franco Capobianco, ex assessore provinciale, più volte consigliere a Caserta e uomo di punta del centrosinistra in Terra di Lavoro negli ultimi venti anni, e di Giovanni Capobianco, già consigliere a Capodrise e dirigente di Rifondazione Comunista. La stessa Maria Almaviva ha rappresentato una pagine importante per la politica nostrana, in quanto è stata la prima donna consigliere comunale. Ne ricorda la figura anche Antonello Velardi sindaco di Marcianise. «Se ne è andata stasera Maria Almaviva, aveva 87 anni. Ai più giovani il nome non dirà niente, ma con lei si chiude un periodo storico della provincia di Caserta e non solo. Maria Almaviva era la vedova di Peppino Capobianco, monumento della sinistra campana. E lei stessa è stata protagonista di straordinarie battaglie politiche – ha spiegato - Fu la prima consigliera comunale donna della provincia di Caserta.

Sedette nei banchi del consiglio comunale di Marcianise alle fine del 1952, fu il simbolo di un femminismo mai ostentato ma sempre praticato in tempi difficili e di grandi chiusure. Maria Almaviva era la mamma di Franco Capobianco, protagonista della vita politica casertana degli ultimi decenni in diversi ruoli. A lui va un forte abbraccio da parte di tutta la comunità di Marcianise che ricorda con orgoglio la prima consigliera comunale della sua storia. Un abbraccio anche ai fratelli Giovanni e Teresa (moglie del prefetto Ennio Sodano). Maria Almaviva viveva a Capodrise dove si terranno i funerali - una cerimonia laica, in via Elpidio Jenco 28 - sabato mattina, alle 10. Poi raggiungerà il suo Peppino nel cimitero di Santa Maria a Vico».

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Carmine Cimmino
 

Carmine Cimmino
Uno storico socialista. In un saggio denso di empatia (pubblicato nella sua Rivista Storica) Nicola Terracciano ha delineato un suo profilo biografico di alto spessore, di un uomo politico socialista dedito ai beni comuni, educatore e promotore culturale, storico e ricercatore sociale di grande valore. Si inizia con la sua data di nascita il 25 maggio 1934 a Capodrise (allora frazione di Marcianise), paese agricolo di circa 5.000 abitanti, vicinissimo a Caserta, legato soprattutto alla cultura del tabacco – e prima ancora della canapa. Apparteneva ad una distinta famiglia di professionisti (il padre Antonio era docente), nella quale la cultura e l’impegno civile erano stati sempre valori fondamentali: si pensi ai legami di parentela col poeta Elpidio Jenco (a cui Cimmino dedicò un numero della sua rivista) ed alla militanza a sinistra nel secondo dopoguerra della stessa madre Francesca Moriello nell’Unione donne Italiane (UDI).
L’influsso materno fu fondamentale, avendo Carmine perso il padre quando era ragazzo ed era rimasto solo con la sorella Carmina e la zia materna Maddalena. Dedicando le sue migliori energie alla ricerca storica e a suscitare incessanti iniziative

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Carmine Cimmino
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di Carmine Cimmino Primo centenario della nascita di Elpidio Ienco

culturali, si segnalò nel 1974 con il fondamentale volume Democrazia e socialismo in Terra di lavoro (1861-1915). Due anni dopo fondò la Rivista Storica di Terra di Lavoro, che ha diretto fino alla morte, e più tardi nel 1978 promosse il comitato di Caserta dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, di cui assunse la Presidenza.
La storia fu la sua grande passione, a cui dedicò le migliori energie e tutti i mezzi possibili, con una dedizione quotidiana incessante, che si esprimeva non solo nei lunghi tempi trascorsi presso gli Archivi di Caserta, di Capua, di Napoli, ma anche nella promozione di tante iniziative, coinvolgendo nella ricerca amici locali ed organizzando convegni, tra i quali furono notevoli quello di Arpino su Economia e società civile nella Valle del Liri nel XIX secolo del 1981 e quello di Vairano-Caianello su Garibaldi del 1982, raccolti in preziosi volumi.
Pur interessandosi a tutta l’area di Terra di Lavoro da Arpino a Isola Liri (di cui aveva studiato le singole vicende industriali dagli inizi ottocenteschi fino al suo tracollo dopo

un secolo) a Sessa Aurunca, a Mondragone, un sentimento particolare espresse con lavori specifici verso il paese natio Capodrise e verso la contigua Marcianise, sede del suo lavoro di docente ed el suo impegno culturale. Ma l’interesse storiografico riguardava anche Napoli, la Campania e il Mezzogiorno in generale.
L’impegno politico fu precoce ed assorbente, tanto che aderì giovanissimo al PCI, diventando animatore di battaglie locali, sociali ed amministrative nella dura situazione degli anni cinquanta, quando la militanza costava in termini personali e familiari. Non aveva ambizioni da burocrate o da professionista politico, ma sentiva preminente e fondamentale solo il dovere dello schierarsi e del lottare in modo disinteressato a fianco degli umili e dei subalterni, per la loro emancipazione sociale e culturale, anche contro le linee ufficiali del partito, allora su posizioni staliniste sia a livello centrale che periferico. Oltre che consigliere, Carmine fu a Capodrise anche assessore ai lavori pubblici nei primi anni ottanta. Noti erano il suo rigore e la sua dedizione al bene comune.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di Carmine Cimmino Democrazia e socialismo in Terra di Lavoro
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Paolo Bufalini
 

Paolo Bufalini
Fu inviato dal centro del PCI per dirigere la campagna congressuale della Federazione casertana nel 1947. Questo anno di attività congressuale venne definito da Graziadei un “anno disgraziatissimo”.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Andrea Sparaco
 

Andrea Sparaco
22 agosto 2018: sette anni dalla scomparsa di Andrea Sparaco: gli amici si incontrano per ricordarlo (di Francesca Nardi da Appia Polis)

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: locandina per l'articolo su Andrea Sparaco

Il 23 agosto 2011, Andrea Sparaco ci ha lasciato, ma il suo ricordo è ben vivo nella comunità. Domani alle 11 gli amici e chi vorrà, porteranno un fiore ed un saluto all’artista scomparso. Andrea Sparaco ci lascia una preziosa eredità, culturale, umana, politica, artistica. Una lezione di stile, di impegno civile, di generosità e dedizione per la sua terra, per l’arte e per la sinistra.
Tutto il suo agire di uomo e di artista è fuso inscindibilmente con il suo impegno politico e sindacale. Andrea ha lasciato alcune sue carte, i pizzini, i manifesti politici e sindacali, all’Archivio di Stato di Caserta, dove si trovano alcune sue opere che Paolo Pietro Broccoli ha donato allo Stato italiano e che fanno parte insieme a migliaia di libri e km di documenti del Fondo Paolo Pietro Broccoli. L’intento era di farne una mostra permanente, ma Caserta è quel posto in cui un Archivio di Stato da 30 anni cerca casa e quando la trova, nei locali della Reggia, qualcuno decide arbitrariamente di "chiudere i cancelli", (in tutti sensi) e boicottare il trasferimento dell’Archivio.
Solo nella provincia più sgangherata d’Italia, può succedere che nel Museo della

Reggia di Caserta, non vi sia una parete per ospitare una mostra permanente di un artista noto ed amato. Caro Andrea, noi continueremo la nostra battaglia, sappiamo che tu combatteresti al nostro fianco. Finalmente pare che un venticello favorevole, sembra spirare, nel verso giusto. Ciao Andrea, oggi più che mai abbiamo bisogno di te!

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Andrea Sparaco e Pietro Broccoli   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco
 

Arte in movimento. Gli anni Settanta in Campania a cura di Luca Palermo
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Andrea Sparaco e la modernizzazione di Terra di Lavoro di Paola Broccoli
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Come e perché ricordare di Gaia Salvatori
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• Guida alla mostra "Un artista in Archivio: Andrea Sparaco" di Orsolina Foniciello
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Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco   Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco   Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco
 

Andrea Sparaco
Andrea Sparaco nasce a Marcianise nel 1936; studia dapprima presso l’Istituto Statale d’Arte ed in seguito frequenta i corsi di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Le sue prime esperienze artistiche si muovono nell’ambito del neorealismo e lo portano a partercipare a numerose mostre collettiva a partire dal 1958. La sua è una pittura priva di ogni formalismo ed attenta all’uomo, all’ambiente, alle questioni belliche, al mondo del lavoro, al tema della città e del rapporto uomo-macchina.
Un anno chiave nel percorso artistico di Andrea Sparaco è, senza dubbio, il 1966 quando lo si trova tra i promotori del “Gruppo Proposta 66 Terra di Lavoro che, in un secondo momento, assumerà la denominazione di “Comune 2”. Come membro dei suddetti collettivi, attivi fino alla fine degli anni Sessanta, darà vita ad una intensa attività di ricerca artistica e di comunicazione socio-politica intessendo rapporti di collaborazione e di corrispondenza con gli ambienti culturali più vivaci del periodo.
Con l’esaurirsi delle attività del collettivo, Sparaco, a partire dagli anni Settanta orienta la sua ricerca sulla grafica che, in seguito, utilizzerà come momento progettuale dei suoi oggetti polimaterici. Comincia, così, in questi anni ad elaborare nuove ipotesi lavorative e nuove metodologie che si palesano nella costruzione delle cosiddette “Macchine non funzionali” nelle quali è ben palese l’intento dissacratorio nei confronti della tecnologia. A partire dal 1973 tiene mostre personali in Italia (Milano, Genova, Napoli, Pordenone, Bergamo, Caserta) e all’estero (Stoccarda, Monaco, Karlsruhe, Anversa).
Con gli anni Ottanta la sua ricerca grafica si carica di connotazioni concettuali che, inevitabilmente, finiscono con l’influenzare anche la sua produzione plastica caratterizzata da un costante utilizzo del legno, materiale molto amato dall’artista e da lui recuperato come simbolo di una manualità povera.
Le opere di questo periodo procedono, per lo più, per cicli (Automatismi della memoria, Codici meridionali, Lettere e cifre, La memoria ha un gran futuro, Il libro e la pagina, Lettere dal disagio, etc…).
Gli anni novanta sono caratterizzati da numerose mostre in Campania (Capua, Napoli, Caserta, Gaeta, Santa Maria Capua Vetere) e più volte a Roma: mostre per lo più antologiche con un occhio di rigaurdo per i suoi Manifesti.
Andrea Sparaco muore nell’agosto 2011 mentre una sua mostra ancora si teneva a Teano (Figure Dialoganti).

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina di un libro sui disegni di Andrea Sparaco   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco
 

“Figure dialoganti: i pizzini dell’anima”. Quasi un presagio, la raffinata ricerca di una sublimazione eterea. Andrea Sparaco aveva dato questo titolo alla mostra inaugurata domenica scorsa nella Chiesa dell’Annunziata a Teano e tuttora in corso.
Ora Andrea Sparaco non c’è più. Era nato a Marcianise nel 1936. I suoi “pizzini dell'anima’’ li ha lasciati come eredità terrena, portando con sé la storia di un uomo ricco di sentimenti e di genialità. Anche se le sue opere continuano e continueranno a vivere, un senso di vuoto, uno smarrimento totale invade il mondo artistico di Terra di Lavoro.
Il suo studio in via Mazzocchi 26 a Caserta, nel quartiere storico della Santella, in quello che è stato definito un tempo il quadrilatero dell’arte, ebbene il suo studio è stata la palestra formativa di generazioni di artisti, di operatori culturali e di intellettuali (due definizioni di altri tempi), di giovani intraprendenti desiderosi di frequentare il “salotto buono” della città. Qualcuno ha tenuto la sua prima esposizione proprio nel magmatico e pullulante studio di Andrea Sparaco.
Eppure, il suo atelier era la sua immagine. Ordinato fino all’ossessione, razionale come solo un artista può esserlo, contaminando paradossalmente regole e trasgressioni. E poi sensibile, di un’umanità sconvolgente, di una delicatezza estrema. Ma bastava avviare una discussione e solo allora il suo temperamento si scaldava sempre più. Sosteneva con vigore le sue tesi artistiche, sociali, politiche. Sosteneva con forza le sue idee e riusciva sempre ad averne. Idee buone, idee nuove, idee rivoluzionarie.
Dire che ha iniziato la sua attività nel 1958 non basta, è un connotato biografico ma non è quello che gli dà autorevolezza storica. Il 18 febbraio 1967 inaugurava insieme con le menti migliori della sua generazione e del suo territorio la collettiva “Nuove presenze di Terra di Lavoro: Proposta 66” al Circolo Sottufficiali di Caserta. E lì iniziava la grande storia che avrebbe accomunato Andrea Sparaco, Crescenzo Del Vecchio, Gabriele Marino, Antonio de Core, Attilio Del Giudice, i grandi protagonisti dell’arte casertana a partire dagli anni Sessanta. Ognuno diverso dall’altro per linguaggio ma soprattutto per identità culturale.
Andrea Sparaco ha sempre incarnato, seppure giovane all’epoca, il ruolo del vecchio saggio, con un’interpretazione sempre più calzante con il passare dei decenni. Si trovava molto a suo agio nel progettare eventi collettivi, nello spronare iniziative comuni, nel motivare sé stesso e gli altri. Da lui partirono le prime prese di posizione di carattere internazionalistico degli artisti casertani, a cominciare dal 1968 per la Grecia, poi per il Vietnam, per il Sudafrica. È stato lui a realizzare decine e decine di manifesti, soprattutto negli anni Settanta-Ottanta, per iniziative territoriali del Partito Comunista o della Cgil. E con la sua proverbiale accuratezza presentò tutti questi materiali in una splendida mostra allestita nel 2007 nella sala delle Matres Matutae al Museo Campano di Capua.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina del libro Arte in Terra di Lavoro

E come non ricordare precedentemente la personale tenuta sempre a Capua nel 1990 nella chiesa di San Salvatore a Corte, dall’emblematico titolo "La memoria ha un grande futuro". Nel 2001, poi, aveva realizzato una significativa antologica nell’ex tabacchificio di Santa Maria Capua Vetere, in quella che era diventata la sua città. Ancora una volta il titolo è illuminante: “Disegnare il tempo, scolpire la memoria: geometrie emozionali”. La mostra era a cura di Domenico Papa, catalogo Electa. In quell’occasione si tenne un incontro-dibattito con la partecipazione dei filosofi Massimo Cacciari e Lucio Saviani.
Andrea Sparaco è stato veramente un testimone attivo del suo tempo, capace di rapportarsi ai protagonisti della cultura nazionale, a cominciare dal compositore Luigi Nono, passando attraverso il genio di Luigi (Luca) Castellano. Nonostante ciò aveva scelto di essere un artista calato nella propria realtà territoriale, legato alle sue radici familiari e culturali. Per questo era e resterà per sempre un genius loci romantico, convinto che la cultura prima o poi sarebbe dovuta andare al potere.
Enzo Battarra

 

Si inaugura la mostra "Andrea Sparaco. Una storia che parla agli uomini"

Lunedì 28 dicembre alle ore 12.00 nelle sale del Museo d'Arte Contemporanea della Città di Caserta, presso il Centro Servizi Culturali Sant'Agostino in via Mazzini, sarà inaugurata la mostra "Andrea Sparaco. Una storia che parla agli uomini" promossa da Confindustria Caserta in collaborazione con Comune di Caserta, Provincia di Caserta e Ordine degli Architetti. La mostra è stata curata dal critico d'arte Enzo Battarra.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Disegno di Andrea Sparaco

In omaggio ad Andrea Sparaco di Pasquale Iorio
Nei giorni scorsi ho saputo per caso che un gruppo di persone sta promuovendo delle iniziative con mostre per ricordare la figura di Andrea Sparaco, scomparso quattro anni fa. Mi sembra una buona idea per rendere omaggio ad uno degli artisti ed intellettuali più importanti di Terra di Lavoro. Di lui sono rimaste solo alcune tracce, come la sala dedicata nel Polo Culturale della Provincia di Caserta a Villa Vitrone. Ci sono stati anche eventi in sua memoria, come quello realizzato qualche mese fa presso la SUN nella sede di S. Maria Capua Vetere. Poca cosa rispetto alla sua opera e al ricco patrimonio culturale che ci ha lasciato in eredità.

Ricordo che nelle settimane successive alla sua morte organizzammo un evento nella Feltrinelli di Caserta, con i familiari. Ora è giunto il momento di colmare un vuoto, grazie anche ad alcune lodevoli iniziative (come quelle avviate dall’università e realizzate in collaborazione con Agrorinasce con la mostra degli artisti di Terra di Lavoro negli anni ’70 nel bene confiscato che ora è un bene comune, un centro di aggregazione artistica e giovanile nel cuore di Gomorra, a Casapesenna).
A tal fine cercheremo anche noi, come rete delle Piazze del Sapere, di ricordare e far rivivere i tratti salienti di un artista, un vero “intellettuale collettivo” (per riprendere un concetto gramsciano). Il primo dato che bisogna sempre mettere in evidenza è proprio questa caratteristica fondamentale, imprescindibile in Sparaco (come in tanti altri artisti ed intellettuali della sua epoca) : la volontà e la capacità di tenere sempre insieme, ben connessi la creatività artistica con l’agire quotidiano, con il suo fare politica (nel PCI) ed impegno nel sociale (nella sua CGIL, ed in particolare con la FLM, la federazione unitaria dei metalmeccanici, come ha ricordato di recente Luisa Cavaliere).
Di questa impronta particolare bisogna tener conto anche oggi, a partire dalla scelta dei luoghi e dei promotori, per mantenere una coerenza e congruità con il suo pensiero e con la sua opera di artista e di cittadino democratico. Anche attraverso la lettura di testi come quello curato da Paola Broccoli, ho potuto ricostruire alcuni momenti salienti in cui Andrea fu protagonista: come le manifestazioni e le mostre organizzate nella metà degli anni ’70 nelle feste de l’Unità, a sostegno delle lotte operaie e del movimento sindacale per i diritti. Come pure vanno ricostruite le diverse performances artistiche, come l’originale esposizione organizzata a Castel Volturno nella Piazza S. Castrese, con quadri e sculture che documentavano la civiltà contadina e le tradizioni delle terre dei mazzoni (a partire dalla bufala e dalla mozzarella). Fu una bella intuizione della giunta di riscossa popolare guidata da Mario Luise, che poi venne miseramente distrutta nei mesi successivi.
Inoltre, mi preme ricordare il tratto più peculiare di Andrea, che possiamo definire un artista “glocale” – per usare una espressione cara a Bruno Schettini – di un intellettuale e di un cittadino che sapeva guardare ad ampi orizzonti del mondo globale, ma senza mai perdere di vista le radici del suo territorio e della sua comunità di formazione, sempre orgoglioso del suo “genius loci” (per dirla con Franco Cassano nel suo “pensiero meridiano”). Esempi fulgidi sono le tante iniziative organizzate da Sparaco e dagli altri artisti a fianco del movimento di lotta internazionale per la pace, dei popoli in lotta per la loro liberazione e per il riscatto dall’oppressione neocapitalistica.
Infine, mi preme ricordare un tratto distintivo della sua personalità schiva, ma nello stesso tempo gioviale. A lui non piaceva fare comizi in pubblico, preferiva il dialogo ed il confronto diretti con le persone e gli amici. Cercava di capire le opinioni degli altri, anche quando non le condivideva. Rigoroso ma aperto a confrontarsi, anzi sempre molto curioso ed attratto dalle novità.
La sua ricca testimonianza umana ed artistica va ricordata in modo degno ed adeguato. Per questo motivo ho chiesto e proposto ad alcuni intellettuali che lo hanno conosciuto bene di collaborare per organizzare entro il prossimo mese di gennaio un seminario sul tema: In omaggio ad Andrea Sparaco. Arte, cultura, politica e socialità.

 

L’estro e il messaggio sociale di Andrea Sparaco possono essere apprezzati anche grazie ai numerosi manifesti realizzati, a partire dagli anni ’60, per convegni e incontri sindacali.
Anche in queste opere traspare l’impegno politico e sociale dell’artista, sempre schierato dalla parte dei lavoratori, e in generale, delle categorie più deboli.
Sparaco non manca di inserire nelle composizioni grafiche anche le sue, cosiddette, “macchine inutili”, con cui manifestava la critica contro l’eccessiva meccanizzazione della vita e del lavoro, a discapito dell’ambiente, di cui era strenuo difensore. Paolo Broccoli ha donato all’Archivio di Stato di Caserta, tra le altre opere, molti manifesti, parte della sua collezione, avuti in dono dallo stesso artista, suo amico.

Tratto da Archivio di Stato di Caserta

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: disegno di Andrea Sparaco    
 

Operai della Saint Gobain! Nel vostro travaglio sta nascendo l’uomo nuovo
Febbraio 1969. Gli operai hanno occupato la fabbrica Saint Gobain di Caserta.
Protestano, rischiano il licenziamento.
Pochi anni prima, i migliori artisti del territorio avevano dato vita alla collettiva “La Comune 2”.
Ne fanno parte Andrea Sparaco, Gabriele Marino, Attilio Del Giudice e altri.
Sono giovani e profondamente coinvolti nel dibattito politico e sociale.
Sostengono pubblicamente la lotta operaia in corso alla Saint Gobain e realizzano appositamente un’opera di grande formato in sostegno dei lavoratori.
Il quadro “La Saint Gobain è occupata” è attualmente conservato nell’Archivio di Stato di Caserta, così come altre numerose opere di Andrea Sparaco, artista eclettico di fama internazionale e voce del suo tempo.
La foto di Andrea Sparaco è stata scattata durante la realizzazione di una installazione durante la Festa dell’Unità del 1975 nel giardino della Flora. (archivio P. Broccoli)

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Andrea Sparaco


Tratto da Archivio di Stato di Caserta

  100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: opera di Andrea Sparaco  
 

Ecco due opere di Andrea Sparaco, geniale artista sammaritano, celebrato a livello nazionale ma dimenticato nella sua città. Per rinnovare la sua Memoria stiamo lavorando, in sinergia con la famiglia, all’organizzazione di una mostra retrospettiva. Nei prossimi giorni protocollerò al Comune la richiesta di intitolare all’artista una strada a 10 anni dalla morte.

Tratto dalla pagina Facebook di Raffaele Aveta

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: opera di Andrea Sparaco   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: opera di Andrea Sparaco
 

Bibliografia essenziale
A. Sparaco (testo di), Perché ancora la pittura, catalogo per la mostra tenutasi al Palazzo Reale di Caserta nel gennaio 1971, 1971.
E. Di Grazia, “Andrea Sparaco” (ad vocem), in Arte Italiana Contemporanea, 1972.
E. Morelli, I Simulacri tecnologici di Sparaco, testo in catalogo per la mostra alla Galleria “La Darsena” di Milano, 1973.
C. Lavorino, La dissacrante tecnologia di Andrea Sparaco, in “La Gazzetta di Gaeta”, 25 agosto 1974.
A. Sparaco (testo di), Dichiarazione, catalogo della mostra al Centro Sud Arte di Scafati, gennaio 1976, 1976.
G. Grassi, Le macchine inutili di Andrea Sparaco, in “Roma”, 7 febbraio 1976.
E. Perna (testo di), La metafora della contestazione tecnologica, catalogo per la mostra alla Galleria San Giorgio di Pordenone, 28 maggio 1977, 1977.
E. Perna, Il confronto estetico, 1979.
E. Battarra, Sparaco al “Multiplo 2”. Uomo all’alba, in “La Gazzetta di Gaeta”, 25 ottobre 1981.
G. Agnisola, “Andrea Sparaco”, in Arte Presente, n.0, marzo 1984.
M. Bignardi (a cura di), Andrea Sparaco: opere 1969-1985, 1985.
E. Battarra, Avanguardie artistiche. Così è cresciuta Caserta in un ventennio, in “Il giornale di Napoli”, 23 maggio 1986.
J. Capriglione, Andrea Sparaco e l’infinito come spazio che intercorre fra due certezze, in “Il giornale di Napoli”, 5 giugno 1990.
V. Corbi, Geometrie fantastiche, in “La Repubblica”, 5/6 aprile 1992.
F. Terracciano, Andrea Sparaco nel reticolo dei segni, in “Lo Spettro”, 12 settembre 1993.
D. Papa (a cura di), Disegnare il tempo scolpire la memoria: geometrie emozionali di Andrea Sparaco, Napoli 2001.
G. Agnisola, E. Battarra, V. Perna, Arte in Terra di Lavoro 1945-2000, 2001.
A. Sparaco, S. M. Martini (a cura di), Materiali per un incontro, 2001.
V. Corbi, Quale Avanguardia? L’arte a Napoli nella seconda metà del Novecento, 2002, pp. 194-197.
Andrea Sparaco. Manifesti e aforismi grafici, catalogo della mostra presso il Museo Provinciale Campano di Capua, 3-28 aprile 2007.
S. M. Martini (a cura di), Il limite e la memoria: omaggio ad Andrea Sparaco, 2011.

Principali mostre personali
1958, Circolo culturale cattolico, Marcianise
1962, Circolo dei congressi del Palazzo Comunale, Cassino
1963, Circolo Nazionale, Caserta
1963, Libreria DEPERRO, Napoli
1963, Sala “Mutuo Soccorso”, Bergamo
1964, Circolo di cultura Antonio Tari, Santa Maria Capua Vetere (CE)
1965, 1966, Galleria “Il Braciere”, Casertav 1967, Palazzo Civico, Capuav 1976, Circolo Sottufficiali, Caserta
1968, Studio d’arte “Il Triangolo, Caserta
1969, Galleria “Il Braciere”, Caserta
1969, “Galleria dell’artista”, Foggia
1971, Caserta Club, Caserta
1971, Galleria “La Bohème”, Aversa
1972, Galleria “La Parete”, Napoli
1972, Circolo “Adamas”, Diamante
1973, 1974, 1975, Galleria d’arte internazionale “La Darsena”, Milano
1973, “Galerie Senatore”, Stuttgart, Germania
1974, Galleria “Studio Oggetto”, Caserta
1974, Galleria “Artetre”, Pegli (GE)
1974, “Galerie v.Kolczynski”, Stuttgart, Germania
1974, Galleria “Gaeta”, Gaeta
1975, Festival dell’avanguardia, Museo di Bruxelles – Assenade, Belgio
1976, Galleria d’arte “Studio Ganzerli”, Napoli
1976, Studio L-Karlsuhe, Germania
1976, “Galerie im Kolpinghaus”, Stuttgart, Germania
1977, Galleria “San Giorgio”, Pordenone
1978, “Galerie Alex”, Stuttgart, Germania
1979, Circolo artistico “Trescore”, Bergamo
1980, “Galerie Sulzbach”, Germania
1981, Artigianare, Lecce
1981, Libreria Marotta, Napoli
1982, Centro d’arte “Lumiere”, San Giorgio del Sannio (BN)
1984, Caserta Club, Caserta
1985, Galleria “Ariete”, Napoli
1986, Galleria “Il Clanio”, Caivano
1987, Palazzo dei Pegni, Marcianise
1990, Chiesa di San Salvatore a Corte, Capua
1992, Associazione Culturale “Poiein”, Napoli
1992, Chiesa di Santa Lucia, Gaeta
1993, Museo Nuova Era, Bari
1994, “Arte Vinciguerra”, Bellona (CE)
1996, Centro Iniziative Artistiche Culturali, Caserta
1999, Palazzo delle Arti, Capodrise (CE)
2007, Museo Provinciale Campano, Capua (CE)
2011, Sala dell’Annunziata, Teano, CE

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Giuseppe Capobianco
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Giuseppe Capobianco

Giuseppe Capobianco
È stato una delle figure più importanti del Pci di Terra di Lavoro.
Nato nel 1926 a Santa Maria a Vico, si è impegnato nel «recupero della memoria» degli scempi nazisti nel Casertano, a partire dalla strage di Caiazzo.
È stato un sindacalista e un militante del partito per tutta la vita.
Sulla sua tomba ha voluto solo il nome e la parola «comunista».
Storico del movimento operaio locale, ha scritto, tra l’altro, un memorabile opuscolo sullo «smembramento» della provincia nel 1927 ad opera di Mussolini.
Ha collaborato all’Enciclopedia dell’Antifascismo e a gruppi di ricerca dell’Istituto campano per la Storia della Resistenza.
Tra i suoi libri ricordiamo: Riformisti e rivoluzionari a Napoli, Il recupero della memoria. Per una storia della Resistenza in Terra di Lavoro (autunno 1943), Sulle ali della democrazia. Il Pci in una provincia del Sud (1944-1947), Una nuova questione meridionale. Scritti scelti 1979-1992

Tra politica e ricerca storica
Ricordare oggi la figura di un uomo politico e storico della Resistenza come Peppino Capobianco scomparso del 1994 (lo stesso anno in cui venne trucidato dalla camorra don Peppe Diana) – non deve sembrare un nostalgico ritorno al passato. Serve invece a far conoscere (soprattutto ai giovani) il rigore morale ed i valori della sua personalità nei vari campi in cui è stato protagonista (dalla politica al sociale fino alla cultura), che nei nostri tempi risulta quasi impossibile ritrovare nei politici e governanti non solo a livello locale, ma anche nazionale. Già negli anni giovanili di studente manifestò la sua scelta di campo in pieno regima fascista di combattente contro ogni forma di tirannia e di sopraffazione, in difesa dei principi di libertà, di eguaglianza sociale e solidarietà (come è stato ben ricordato da Adolfo Villani nel suo volume “L’ufficiale e il comunista”, Ediesse, 2018). Nel secondo dopoguerra fu protagonista delle lotte contadine per la conquista delle terre incolte (insieme con Mario Pignataro, Salvatore Pellegrino, Ninotto Bellocchio ed altri esponenti della sinistra politica e sindacale), come emerge dalla raccolta di “Scritti su Corrado Graziadei. Le lotte nelle campagne di Terra di Lavoro. 1945-50” (Spartaco Ed.) È stato anche dirigente sindacale nella Federbraccianti CGIL e nell’Alleanza Contadini. La sua militanza nelle fila del partito comunista si è manifestata con coerenza fino agli ultimi giorni della sua vita, passando dal PCI – di cui è stato autorevole dirigente a livello regionale e provinciale – alla fase di trasformazione.

Non aderì al PDS ma fu uno dei fondatori di Rifondazione Comunista. Per lui che aveva passato una vita dedicata alla politica e alle lotte per l’emancipazione, fu molto amara e dolorosa la decisione di non passare nel nuovo partito. I suoi punti di riferimento teorico sono stati Carlo Marx, Antonio Gramsci e P. Togliatti, insieme con le figure prestigiose del “meridionalismo”. Nell’ultima stagione della sua vita si è dedicato alla sua passione per la storia locale e sociale, con un lavoro certosino di ricerca e documentazione delle fonti. Da qui sono scaturite molte pubblicazioni e tanti contributi fondamentali per la conoscenza di Terra di Lavoro, delle sue trasformazioni politiche, economiche e sociali. A partire dalla rievocazione della scelta scellerata di Mussolini di sopprimere nel 1927 l’allora Terra Laboris, la terza provincia italiana per dimensioni (di cui si trova documentazione nel saggio “Sulla classe dirigente casertana dell’età prefascista”). Ancora più rilevante è stato il suo apporto sui temi del “Recupero della memoria” (un saggio pubblicato con ESI, introdotto da Guido D’Agostino), nel quale finalmente viene ricostruita la storia della Resistenza in Campania, con particolare riferimento a Terra di Lavoro.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di Giuseppe Capobianco Sulle ali della democrazia

Nello stesso tempo si dedicò a documentare le stragi naziste con altri saggi raccolti nel volume “La giustizia negata” (Centro C. Graziadei), che dopo tanti anni di oblio hanno fatto piena luce sull’apporto delle popolazioni casertane per una rinascita democratica, anche con tante vittime e stragi finora dimenticate. Su questi materiali hanno poi sviluppato una ricerca importante Gianni Cerchia, Felicio Corvese ed altri storici, con la produzione di un docufilm dal titolo sintomatico di “Terra bruciata”. Altrettanto significativo è stato il suo contributo sui temi del primo socialismo con il saggio su “Antonio Indaco ed il sindacalismo rivoluzionario” con prefazione di Franco Barbagallo; con quello su Errico Leone a Napoli, fino a “La costruzione del Partito Nuovo in una Provincia del Sud” introdotto da Aurelio Lepre. Da non dimenticare sono anche le raccolte di suoi scritti “Sulle ali della democrazia. il Pci in una Provincia del Sud 1944- 47” a cura di Paolo Broccoli e quelli di “Una nuova questione meridionale scritti scelti 1979-92” a cura di Aldo Tortorella.
A fronte di questo spessore della personalità di Capobianco, con un gruppo di amici e compagni (d’intesa con il figlio Franco) abbiamo deciso di raccogliere documenti e materiali per ricostruire la sua biografia politica e culturale, con saggi e contributi dedicati alla sua figura di “rivoluzionario di professione” (come si diceva una volta). Infatti, mentre da un lato emerge che la bibliografia delle sue opere e scritti è di notevole mole (come si può vedere dall’allegato), dall’altro abbiamo riscontato che dopo la sua scomparsa ci sono poche opere in suo ricordo, come il saggio di A. Villani e quello di P. Broccoli sul suo “impegno civile” in Civiltà Aurunca. Ci sono stati altri momenti con alcuni eventi in sua memoria in occasione del decimo e ventesimo anniversario (a Caserta e Caiazzo). Nel suo comune natio S. Maria a Vico gli è stata dedicata una strada. In tal senso non sarebbe male una iniziativa analoga anche da parte del Comune di Caserta da inserire nelle celebrazioni in occasione del Bicentenario della sua elevazione a Capoluogo di Provincia. Di recente va segnalata anche una tesi di laurea di una studentessa Dilbec Unicampania, seguita dal prof. Paolo De Marco.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di Giuseppe Capobianco Il recupero della memoria

Tutto ciò può fare giustizia del lungo periodo di disattenzione su una delle figure più eminenti della nostra vita politica, sociale e culturale, anche in considerazione del fatto che la consistente mole dei suoi documenti (donata dai familiari in apposito fondi conservati nella Biblioteca Diocesana e nell’Archivio di Stato) purtroppo ora non sono accessibili e consultabili a causa dei modi dilettanteschi ed incompetenti con cui gli organi del Mibact hanno avviato il processo di delocalizzazione nei nuovi uffici della Reggia Vanvitelliana. Una vicenda assurda e scandalosa, che si trascina da decenni e che sta mettendo a rischio di frantumazione e dispersione dei pezzi fondamentali della nostra identità e memoria storica. Come ha scritto Anglo Martino, Capobianco è stato uno dei rappresentanti più nobili della vita politica e culturale di Terra di Lavoro. Il suo fu un impegno civile di primo piano sia come Peppino Capobianco, un rivoluzionario di professione comunista coerente nella visione di una società in cui brillassero giustizia, uguaglianza sociale, progresso civile ed umano delle classi sociali sfruttate che in relazione al suo ruolo di storico, di autore di ricerche storiche sulla Resistenza, sulle lotte agrarie, sull’impegno sindacale nella provincia di Caserta.

Nato a Santa Maria a Vico il 27 luglio 1926, scelse l’impegno politico in giovane età perché profondamente colpito dalla violenza e dall’assurdità della guerra. La Resistenza era stata per Capobianco guerra contro nemici interni e contro l’occupazione nazista per cui il Mezzogiorno, pur non avendo conosciuto il senso di una consapevole e rilevante partecipazione di lotta di liberazione del Nord, aveva dato contributi di sangue che testimoniò nel testo “Il recupero della memoria.” Ricordiamo l’apporto determinante di Giuseppe Capobianco, con Joseph Agnone, nel far luce sulle responsabilità della terribile strage nazista di Caiazzo. Mentre si dedicava a tale impegno – come ha scritto Adelchi Scarano – “Era solito intrattenersi con gruppi di giovani caiatini, in un ambiente essenzialmente anticomunista, con passione, raccontando le sue esperienze e i giovani provavano ammirazione per la coerenza e il rigore etico che comunicava ai suoi attenti ascoltatori”. L’esperienza dolorosissima della guerra vissuta “con gli sbandati e gli sfollati” lo portò all’impegno civile e in breve tempo divenne un dirigente del Partito Comunista Casertano, un

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di Adolfo Villani L'ufficiale e il comunista La vicenda di Francesco e Peppino Capobianco

dirigente sindacale, un uomo delle istituzioni pubbliche al servizio della giustizia e dell’uguaglianza. Pur essendo un uomo di parte, era stimato da tutte le persone di buona volontà della provincia di Caserta e non solo, in quanto tutti gli riconoscevano l’essere una figura straordinaria di democratico.
Peppino dedicò la sua vita a servire il partito in quanto per lui era porsi al servizio dei lavoratori e della loro emancipazione. Sulla sua c’è solo una semplice scritta: Giuseppe Capobianco 1926-1994, Comunista. Che significava essere “comunista” per Giuseppe Capobianco? Semplicemente lottare per un assetto sociale giusto in maniera fattiva, considerando il partito non un fine per raggiungere un carrierismo personale o qualsiasi altro “particulare” guicciardiniano. Per Peppino Capobianco il partito comunista era solo uno strumento funzionale alla costruzione di un sistema politico e sociale più giusto e compiutamente democratico, tenendo presente quell’articolo 3 della costituzione che invita ad operare nella società per la rimozione delle disuguaglianze. Tale era il concetto nobile della politica per Capobianco, un agire al servizio degli altri con una consapevolezza dell’eticità con cui esso deve sapersi proporre.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di Giuseppe Capobianco La resistenza a Gaeta durante l'occupazione tedesca

Tutto ciò emerge chiaramente dai suoi tanti scritti. La politica – scriveva Peppino Capobianco - non è una cosa repellente, ma l’unico strumento che le vittime di un sistema di cose ingiuste hanno a disposizione per cambiare tale situazione. In tale senso nell’esistenza degli esseri umani – era solito dire e scrivere – non esiste nulla di più nobile dell’agire politico. Quando aveva un minimo dubbio passeggero al riguardo, si dedicava alle sue ricerche storiche con passione e dedizione. Egli dedicò molte pagine a Corrado Graziadei, ripercorrendo il suo impegno quale antifascista e successivamente protagonista delle tante lotte per l’emancipazione delle classi subalterne della provincia di Caserta. Gli scritti di Capobianco su Graziadei sono tra le più belle e appassionanti pagine di storia della provincia di Caserta, quella Terra di Lavoro che Peppino Capobianco amava fino ad appassionarsi a tutto il suo percorso storico dal fascismo agli anni del dopoguerra, della costituente, delle lotte operaie e contadine. Egli si appassionò allo smembramento di Terra di Lavoro operata dal Fascismo nel 1927. Vi dedica pagine di alta analisi storica per comprendere le motivazioni di quella decisione e in quale maniera essa si potesse rapportare alla

debolezza di una classe dirigente dall’ età prefascista fino al Regime.
Capobianco non seguì i compagni nella svolta dal Pci al Pds. Al XVII congresso della federazione del Pci di Caserta nel 1990 il suo intervento “Io non vi seguirò”, al di là della condivisione o meno del contenuto, si dimostrò ancora una volta una testimonianza degli alti valori umani, politici e sociali di chi aveva incarnato davvero la politica quale nobile servizio per il riscatto delle classi subalterne meridionali. Militò per poco tempo in Rifondazione Comunista, ma morì pochi anni dopo il 27 settembre del 1994. La sua storia fu “storia di una sconfitta” – scrive Adelchi Scarano – in quanto negli ultimi anni di vita si trovò nella posizione di essere scambiato per un nostalgico del passato. Il dubbio che lasciò quale riflessione ai suoi compagni fu: “Dove finiremo se, invece di cambiar le cose che vanno cambiate, non sappiano far altro che liquidare il soggetto portatore del cambiamento”. Ultime riflessioni di chi aveva testimoniato una nobiltà della politica con la sua forte carica di eticità.
Per il contributo che ha dato agli studi ed alle ricerche sulla storia locale, sull’antifascismo e sulla Resistenza, Peppino Capobianco oggi meriterebbe maggiore

attenzione per ricostruire una sua biografia in modo organico, per poter rendere pieno merito al suo impegno sociale e politico in anni difficili. Un primo contributo è stato offerto di recente da Adolfo Villani con il volume fortemente rievocativo “L’ufficiale ed il comunista”, Ediesse, nel quale sono stati ricostruiti i suoi anni giovanili, la sua formazione e ribellione contro il regime fascista – in un rapporto duro, aspro e conflittuale con il padre, portatore di valori e di una diversa tradizione. Negli ultimi anni ci sono state anche alcune iniziative per commemorare la sua figura. In particolare segnaliamo un ritratto sintetico ma essenziale che gli ha dedicato il prof. Gianni Cerchia, memore dei suoi anni nella FGCI, cioè la federazione dei giovani comunisti, una vera scuola politica e di cittadinanza democratica. Nello stesso tempo il giornalista Giacinto Di Patre ha rimarcato la caratura politica e morale dell’ex segretario provinciale PCI. Sul versante più economico e sociale negli studi universitari e nei saggi di Paola Broccoli ritroviamo il ruolo trainante che ebbe Peppino nella fase di grande trasformazione degli anni ’70, di cambiamento e riassetto produttivo a seguito della industrializzazione e ristrutturazione, con l’entrata in campo di un nuovo protagonista come il movimento operaio e sindacale. Infine, va detto che ad oggi la ricostruzione più vicina alla personalità complessa e poliedrica di Peppino è quella fatta da Paolo P. Broccoli in un ampio saggio sull’impegno politico e civile, pubblicato da Caramanica.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Archivio di Stato di Caserta, Il pensiero di Giuseppe Capobianco nel suo impegno politico e civile. Scritti selezionati
Archivio di Stato di Caserta, 27 settembre 2019, 25° anniversario della morte di Giuseppe Capobianco
Il pensiero di Giuseppe Capobianco nel suo impegno politico e civile. Scritti selezionati

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Al Presidente Provincia di Caserta

Al Direttore Museo Campano

Mi è capitato di leggere con interesse la seconda pagina del Nuovo dialogo interamente dedicata al Museo Campano, in cui vengono riportate le proposte del consigliere provinciale Lamberti per lo sviluppo di questa importante istituzione culturale di Terra di Lavoro.
A questa istituzione mi rivolsi nell’estate del 1981 quando lavorai, assieme all’Istituto campano per la Storia della resistenza per l’organizzazione del seminario: “Capua e Terra di Lavoro dal fascismo alla Repubblica”. Era una iniziativa che intendeva correggere un lavoro pregevole curato da Luigi Cortesi riguardante l’analogo periodo, che si presentava carente nella ricostruzione del ruolo svolto dagli antifascisti di Terra di Lavoro per abbattere il fascismo e conquistare la libertà. Le comunicazioni presentate da docenti e borsisti furono ritenute una utile base per l’ulteriore approfondimento di quel periodo storico, tant’è che l’amministrazione comunale di Capua decise di stampare gli atti del convegno. Purtroppo ancora si attende la pubblicazione. Questo riferimento mi permette di considerarmi tra quanti ritengono che il Museo Campano - la principale istituzione culturale della nostra Provincia - vada potenziata. Ora vedo con piacere avanzare interessanti proposte “per recuperare il Museo al ruolo di centro culturale vivo e vitale” dal consigliere B. Lamberti. Tra le quali vi è la proposta di “dedicare una sezione della biblioteca del Museo alla storia dei partiti politici e del movimento operaio e contadino in terra di Lavoro”. Su questa idea vorrei esprimere il mio parere.
La storia locale è trattata con sempre maggiore attenzione dai più qualificati ambienti universitari. In un recente congresso, svoltosi a Pisa nel dicembre del 1980, si è affermato che “storia generale e storia locale si identificano” quando questa “intende essere il riscontro in luoghi ed in ambienti determinati di problemi di carattere generale”. Questo è il caso dello studio dei movimenti politici e sociali, delle istituzioni in una provincia come la nostra. In questo modo non si fa del provincialismo, ma “storia totale di un determinato territorio”.
Stando così le cose, la proposta del consigliere Lamberti andrebbe meglio specificata. Ed è questo il motivo del mio intervento. Presso il Museo dovrebbe sorgere non tanto una biblioteca, quanto un archivio dei movimenti sociali e politici di Terra di Lavoro. Infatti è scarsa la produzione editoriale, molto più ampia è invece una “editoria minore” (dattiloscritti, ciclostilati, volantini, verbali di convegni e di riunioni, ecc.), che il più delle volte va perduta. Eppure in questa “editoria minore” c’è la traduzione delle politiche generali, c’è il giudizio di un determinato momento storico. C’è in sostanza l’originalità e la creatività delle politiche “locali” delle varie organizzazioni.
Per chi volesse ricostruire un episodio o un periodo determinato questa produzione diventerebbe una ricchezza inestimabile che assieme ai materiali delle emeroteche ed egli archivi di stato permetterebbe veramente di cogliere tutta la vivacità di una fase storica. Creare una sede capace di raccogliere ed ordinare il materiale via via prodotto significa non solo salvarlo dalla distruzione, ma dare vita ad una fonte inesauribile per i futuri ricercatori, evitare che la specificità dei vari gruppi sia appiattita in un giudizio generico e generale.
Molto materiale è già irrimediabilmente perduto. Penso ad esempio ai verbali del Comitato di Liberazione provinciali e locali. Eppure da li si potrebbe ricostruire la via attraverso cui si è andata costruendo la nuova democrazia postfascista. Penso ai programmi elettorali amministrativi. Eppure da li si potrebbe ricostruire il moto di intende delle varie forze politiche il ruolo degli enti locali. Penso a come si sono mosse le varie forze politiche e sociali nei confronti della Legge Stralcio della Riforma Agraria. E potrei continuare con altri esempi. Ma deve sempre essere così? È interesse di tutti i partiti, di tutte le organizzazioni economiche far si che le loro radici, la loro attività, non vadano distrutte, non scompaiano con i protagonisti, non vengano coperte dall’oblio.
Il Museo Campano può essere l’istituzione deputata a questo compito. Le generazioni future la considereranno un’opera meritoria perché potranno capire attraverso quali vie, quali idee, quali scontri, questa nostra e loro società è passata per diventale quella attuale. Per questo considero la proposta del consigliere Lamberti come una idea interessante da approfondire e discutere. Mi auguro che la affronterete anche voi con la dovuta serietà. Distintamente.

** Giuseppe Capobianco, 1982
** Intervento di G. Capobianco nel convegno “Capua e Terra di lavoro dal fascismo alla Repubblica” – Capua 30 giugno 1981

 

Guido D’Agostino – Testimonianza
Per una nuova dimensione di vita civile, sociale e politica
Ho conosciuto e quindi frequentato, per anni, in amicizia e in collaborazione di studio e lavoro, Peppino Capobianco, conservandone il ricordo pieno di stima e di affetto, in maniera viva e profonda. A pensarci ancora, o soprattutto, oggi, mi incuriosivano ed animavano il profilo politico-partitico dell’Uomo, il suo radicamento nella militanza comunista, già di lunga data, il rigore e la fermezza del carattere, lo stile di vita, la scala dei valori cui conformava la propria esistenza, e su cui fondava le relazioni umane e sociali. Dal canto suo, e nei miei confronti, rivelava attenzione, simpatia, affetto e grande fiducia. Ha voluto, nel tempo, che fossi io ad occuparmi dei suoi lavori storici e che ne scrivessi qualche pagina di prefazione o di introduzione. E così è stato in diverse occasioni, in particolare in quelle legate a quel filo rosso interpretativo, suo proprio del più complessivo itinerario di scavo nella memoria rimossa di cosa è stato per Terra di Lavoro il momento dello scontro più duro e crudele tra nazifascisti da un lato e le popolazioni locali dall’altro.
Opere come “La giustizia negata”, “La barbarie e il coraggio”, “Il recupero della memoria” pubblicati tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, mettono in luce la tragedia delle stragi naziste nel Casertano – si pensi all’efferato massacro sul Monte Carmignano, a Caiazzo – attraverso la ricostruzione, ineccepibile per accuratezza e competenza, delle vicende. Ma ancora più significativa, risulta la denuncia insistita e appassionata, e piena di sdegno, che Capobianco faceva della rimozione di quegli avvenimenti operata dalle autorità alleate, tedesche, italiane, nonché dalle stesse classi dirigenti locali strutturalmente interessate a lasciare nell’ombra fatti di inaudita gravità compiuti ai danni delle comunità da essi amministrate. In sostanza, per Peppino, il punto era che il cruciale periodo, tra gli ultimi anni del fascismo, la guerra, la resistenza e la lotta di liberazione, l’arrivo degli Alleati ha rappresentato per le comunità locali meridionali altrettante occasioni di crescita, di maturazione democratica e di passaggio da una solidarietà tutta interna a un universo di subalternità e di rassegnazione, verso una embrionale coscienza di lotta di classe e di riscatto. Ed è proprio un tale tipo di processo a venire intenzionalmente colpito dalla rivoltante alleanza, a livello locale, nazionale e internazionale, fatta di omertà e di fuga da ogni responsabilità, non meno che di timori per la perdita del controllo sociale e politico di masse povere e sfruttate.
In pratica, un doppio inganno e un altrettanto irrimediabile torto patito dalla gente di Terra di Lavoro: avere subito tante e inaudite atrocità e al tempo stesso non avere avuto la possibilità di costruire di ciò e da ciò una memoria come attributo di futuro, come costruzione di un nuovo progetto di vita. In definitiva, una resistenza compiuta e sancita nel sangue dei suoi eroi e martiri, ma restata inerte, perché misconosciuta e rimossa. Questo il ‘rovello’ mentale e politico che ha reso Peppino Capobianco così tenace, così reattivo, tutto dedito a fare breccia in quel muro, a riaprire un discorso politico e sociale brutalmente interrotto e ridotto all’inerzia e al silenzio. Recuperare, con e attraverso la memoria, una nuova dimensione di vita civile, politica e sociale per i suoi conterranei: per questo egli ha vissuto e operato, e per questo merita da parte di tutti noi, ricordo imperituro e gratitudine perenne. Personalmente, chiudo queste poche note avendo ben presente davanti ai miei occhi l’ultima visita di Peppino Capobianco, nella sede dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Antifascismo, quando la malattia si era ormai palesata come foriera della vicina morte, rivolgendo lui a noi parole di affetto e di incoraggiamento! Allo stesso modo, la commozione intensa, fino alle lacrime, di tutti i presenti intervenuti, qualche tempo dopo, alla cerimonia funebre con la partecipazione del Comune di Napoli e del Sindaco Bassolino, all’epoca, e da meno di un anno, alla guida della città.

*P. Iorio - Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro, Guida 2019

 

Giovanni Cerchia
Un uomo politico schivo e appassionato
Giuseppe Capobianco era un uomo di estremo rigore personale e politico, schivo e disinteressato fino ai limiti dell’ascetismo. Ricordo con quanta insistenza fu quasi “costretto” a partecipare alla presentazione del suo libro sulle stragi naziste in Terra di Lavoro (“La giustizia negata. L’occupazione nazista in Terra di Lavoro dopo l’8 settembre 1943”, 1990), alla presenza dell’allora presidente della Camera dei Deputati on. Nilde Jotti. Capobianco era casertano, nato a Santa Maria a Vico il 27 giugno del 1926, l’anno delle leggi eccezionali che portavano il fascismo a compiere il salto decisivo verso la dittatura. Suo padre Francesco era un ufficiale di carriera della Regia Marina Militare, trasferito a Gaeta nel 1931 per dirigere i locali Stabilimenti Militari di Pena. Ed era qui, proprio nelle immediate retrovie di quella che sarebbe diventata la “linea Gustav”, che Peppino veniva sorpreso dall’8 settembre e dall’inizio della “guerra civile” italiana, riuscendo a superare rocambolescamente le linee soltanto nel marzo 1944. Partecipava poi alla ricostruzione del movimento giovanile comunista, promosso per cooptazione nel marzo del 1948 nel comitato federale della Pci di Terra di Lavoro; organizzazione della quale sarebbe diventato segretario quasi un venticinquennio più tardi, tra il 1970 e il 1976, sino al suo successivo ingresso nel ristretto ambito nazionale del Comitato Centrale di Controllo.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: 25° anniversario della scomparsa

La sua produzione storiografica iniziava proprio in quest’ultima fase degli anni 70, quando accendeva i riflettori sui protagonisti del movimento operaio e democratico casertano (“Scritti di Corrado Graziadei” e “Ricordo di Michele Izzo” nel 1979, “Leopoldo Cappabianca, una vita per la libertà e la giustizia sociale” nel 1983, “Ricordo di Gori Lombardi” nel 1985, “Antonio Marasco e il movimento operaio di Piedimonte Matese” nel 1986), all’interno del più ampio contesto della complessa vicenda politica e sociale della provincia (su tutti il già citato “La giustizia negata” e l’appena riedito “La costruzione del ‘partito nuovo’ in una provincia del Sud” nel 1981).

In questi suoi studi ritroviamo tutta la passione dell’uomo politico, con le idiosincrasie, le suggestioni, i valori, ma anche i limiti, spesso affascinanti, di un uomo del suo tempo.
Poiché Peppino Capobianco, e ciò non va mai edulcorato con letture di maniera, fu innanzitutto un uomo orgogliosamente di parte: un comunista della covata di Togliatti che metteva al primo posto, sempre e comunque, le ragioni della politica e dell’organizzazione. Un uomo che diffidò sempre dagli “spontaneismi”, che non amava i “movimentismi”; anzi, che li giudicava, come ebbe a scrivere a proposito degli eccidi nazisti di Terra di Lavoro, incapaci di divenire di per sé “occasione di rottura col passato e coscienza del cambiamento”. Capobianco moriva il 27 settembre del 1994; conoscendolo, sospetto che non avrebbe amato queste rievocazioni: “Le masse”, ci diceva, “non gli individui, fanno la storia”. Eppure Peppino Capobianco, nonostante le sue convinzioni e l’innata timidezza, fu un protagonista della storia democratica del Paese. Ecco perché, dieci anni dopo, ancora ci addolora ricordarne la scomparsa.

*in «L’Articolo» del 7 settembre 2004

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di G. Capobianco Una nuova questione meridionale   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di G. Capobianco Le tendenze del primo socialismo in Terra di Lavoro 19200-1925   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di G. Capobianco Riformisti e rivoluzionari a Napoli
 

Biografia e Bibliografia

Politico e storico della Resistenza. Nato a Santa Maria a Vico (Ce) il 27 giugno 1926. Deceduto a Caserta il 27 settembre 1994. La sua vita, il suo impegno politico e di ricercatore storico.

Incarichi Elettivi:
• Consigliere Provinciale della Provincia di Caserta
• Consigliere Comunale Città di Caserta
• Consigliere Comunale Comune di Maddaloni
• Consigliere Comunale Comuni di San Felice a Cancello
Incarichi Politici:
• Segretario Provinciale della Fgci (Federazione giovanile comunisti Italiani) della provincia di Caserta
• Segreteria Federazione Provinciale del P.C.I. di Napoli
• Segreteria Federazione Provinciale del P.C.I. di Benevento
• Segreteria Federazione Provinciale del P.C.I. di Pescara
• Segreteria Comitato Regionale del P.C.I. della Abruzzo
• Commissario Comitato Regionale del P.C.I. della Molise
• Segretario Federazione Provinciale del P.C.I. di Caserta
• Segreteria Comitato Regionale del P.C.I. della Campania
• Componente Commissione Centrale di Controllo del P.C.I.
• Coordinatore Provinciale di Rifondazione Comunista
• Segretario della Confederterra-Cgil della provincia di Caserta
• Segretario della Federbraccianti-Cgil della provincia di Caserta
• Alleanza Contadini della provincia di Caserta
• Segretario Regionale della Federmezzadri Abruzzo

Le pubblicazioni e gli scritti
G. Capobianco, Scritti di Corrado Graziadei
Le lotte nelle campagne di Terra di Lavoro 1945-1950, edizione “il progresso di terra di lavoro”, 1979
G. Capobianco, La costituzione del “Partito Nuovo” in una provincia del sud
Appunti e documenti sul P.C.I. di Caserta: 1944-1947, Cooperativa Editrice Sintesi, 1981
G. Capobianco, Appunti sulle origini del fascismo in Terra di Lavoro e momenti della resistenza operaia e popolare 1921- 1923, Edizione S.l., 1983
G. Capobianco, Le tendenze del primo socialismo in Terra di Lavoro 1900-1925, Cooperativa Editrice Sintesi, 1983
G. Capobianco, Leopoldo Cappabianca: una vita per la libertà e la giustizia sociale, Edizione “Centro Studi Corrado Graziadei”, 1983
G. Capobianco, L’operaio muratore di Napoli, Edizione Pietro Laveglia, 1985
Il resoconto del processo casale “propaganda”, Edizione Pietro Laveglia, 1985
“Il valore delle lotte sindacali nel dopoguerra per la trasformazione economica e sociale di Terra di Lavoro”. Conferenza di Giuseppe Capobianco 4-8 giugno 1984, Caserta Palace Hotel
G. Capobianco, Antonio Marasco e il movimento operaio di Piedimonte Matese, Edizione “Centro Studi Corrado Graziadei”, 1986
G. Capobianco, La classe dirigente casertana dall’età prefascista alla fase che segue l’abolizione della provincia di Terra di Lavoro, Edizione Territorio, istituzioni, politica, economia, 1986
G. Capobianco, La giustizia negata: l’occupazione nazista in Terra di Lavoro dopo l’8 settembre 1943, Edizione “Centro Corrado Graziadei”, 1989
G. Capobianco, L’Azione cattolica ed il fascismo: gli avvenimenti del 1931 a Piedimonte Matese, in «Annuario 1989 dell’Associazione storica del medio Volturno», pp. 21-25
G. Capobianco, J. Agnone, La barbarie e il coraggio: riflessioni sul massacro nazista di SS. Giovanni e Paolo, Caiazzo, 13 ottobre 1943, Edizione “Associazione storica del Caiatino”, 1990
G. Capobianco, Il quadro socio-economico e la vicenda elettorale dell’area casertana (1946-1985), Edizione Liguori, 1990
G. Capobianco, Quadro socio-economico e vicende politico-elettorali, Edizione Liguori, 1990 - Fa parte di: Società, elezioni e governo locale in Campania (1946-1986)
G. Capobianco, Fascismo e modernizzazione: La scomparsa di Terra di Lavoro nel 1927, edizione “Centro Studi Corrado Graziadei”, 1991
G. Capobianco, La “bonifica integrale” in Campania e la colonizzazione del Basso Volturno Rif. “Italia Contemporanea”, Franco Angeli Edizioni, 1992
G. Capobianco, Chiesa e fascismo nel Sannio negli anni ’30, edizione Torre della Biffa, 1993
G. Capobianco, Il recupero della memoria: per una storia della Resistenza in Terra di Lavoro, autunno 1943, edizioni Scientifiche Italiane, 1995 (Postumo)
G. Capobianco, La resistenza a Gaeta durante l’occupazione tedesca: testimonianza di un ragazzo di allora, edizione S.l., 1999 (Postumo)
G. Capobianco, Sulle ali della democrazia: il PCI in una provincia del Sud, 1944-1947 (Ristampa), edizione Spartaco, 2004 (Postumo)
G. Capobianco, Una nuova questione meridionale: [Scritti Scelti 1979-1992], edizione Spartaco, 2004 (Postumo)
G. Capobianco, Riformisti e rivoluzionari a Napoli: Errico Leo- Diritti e lotte sociali nel XX secolo
Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 115 116 Parte quinta - Peppino Capobianco, un rivoluzionario di professione ne e la nascita del socialismo scientifico, 1898-1904, edizione Spartaco, 2005 (Postumo)
G. Capobianco ha scritto saggi per: - “Lotte contadine: la verità a posto”, in La voce della Campania, N 12 1977
“Il Piano verde in Campania”, in Cronache meridionali, n. 9 1962
Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza. Edizione La Pietra
Alla radice del nostro presente, Napoli e la Campania da fascismo alla repubblica 1943/1946, anno 1986
Società, elezioni e governo locale in Campania 1946/1986, Anno 1990. A cura di Franco Capobianco, ASFOR UNILIF

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Mario Pignataro
 

Mario Pignataro
Dal 17 settembre scorso Mario Pignataro non è più. Alla soglia dei novanta anni Mario ci ha lasciato dopo aver attraversato l’intero ‘900 con tutti i suoi orrori e le sue speranze, ma anche le sue conquiste e sconfitte per il mondo del lavoro. Mario s’iscrisse al PCI all’età di vent’anni e, dopo l’esperienza di organizzatore degli operai serici, entrò a far parte della Segreteria della Camera del Lavoro di Caserta di cui fu segretario dal 1958 al 1961. Più volte incarcerato e processato per aver organizzato le lotte sociali degli anni ’50, s’impegnò anche nell’attività politico istituzionale come consigliere comunale a Caserta dal 1947 al 1950 e poi dal 1960 al 1980. Già questo basterebbe a delinearne la figura di alto profilo di uomo e dirigente politico-sindacale, impegnato nell’attività sociale a fianco delle categorie più deboli.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: 1950 Mario Pignataro al centro della segreteria CGIL provinciale con Giorgio Napolitano a sinistra allora Segretario provinciale del PCI di Caserta

Non è stato solo questo Mario Pignataro. L’ho conosciuto nel 2005, quando lavorava alla redazione di un libro su “L’economia della provincia di Caserta 1998-2005” (Immagina, 2006) e mi chiese di redigere una presentazione da anteporre al suo testo. Mario Pignataro era dotato di notevoli capacità intellettuali che il passare degli anni non aveva affievolito, come per molti di quella generazione. All’età di quaranta anni si laurea in Economia e Commercio, si specializza in studi storico politici e, nel 1981, vince una borsa di studio ISVEIMER per una ricerca sul “modello di sviluppo casertano e la questione meridionale”. Avvia una fiorente attività di giornalista pubblicista pubblicando su “il giornale di Napoli” e sulle riviste “Economia e Lavoro”,

“Frammenti”, “La provincia di terra di lavoro”, “La Campania”, “La riflessione”, “Il Caffè”.
Intensa la sua produzione di monografie di storia del movimento operaio: da “La situazione nelle campagne e le lotte contadine nel secondo dopoguerra” (L’Aperia, 1999), “Quando S. Leucio era la città della seta” (CGIL, 2004), per citarne solo alcuni. Così come le pubblicazioni sull’economia casertana: dalla “Storia economica della provincia di Caserta 1945-2005” suddivisa in quattro volumi, a “L’economia casertana 1993-1997” che riceverà il premio Alberto Beneduce, fino all’ultimo volume con la mia presentazione.
Un uomo poliedrico, animato da forte senso civico ed impegno sociale, tensione che ha guidato tutta la sua vita coniugando partecipazione e riflessione critica. Nonostante l’età avanzata, difficilmente mancava ad un convegno o seminario di economia. L’ultima immagine che ho di lui è del novembre 2011, seduto nella platea di un convegno su “Crisi economica e finanziaria”, in cui ero relatore, attento come sempre a cogliere le sfide e le opportunità che la crisi determinava per la sua terra e per il Mezzogiorno.
Una vita spesa per il bene comune, si direbbe oggi, senza per questo chiedere prebende o occupare posizioni di potere. Un esempio per i giovani meridionali oggi scoraggiati dalla mancanza di lavoro e prospettive future, tanto da andare ad ingrossare le file dei cosiddetti NEET (Not in Education, Employment or Training) NEET, ossia giovani che non lavorano, non studiano, né sono impegnati in tirocini formativi. La vita di Mario dimostra che è possibile, con l’impegno sociale unito a studio e ricerca, a dare un senso al proprio essere, a riempire il vuoto che caratterizza i territori meridionali. È anche un esempio ad affidarsi alle proprie forze e alla propria intelligenza, senza percorrere strade oramai desuete di ricerca di relazioni verticali con politici e gruppi di potere.
Ricordo ancora l’orgoglio con cui Mario mi raccontava dell’incontro con il Presidente Napolitano, a latere di una sua venuta nel casertano. Erano amici da quando Napolitano era stato commissario della Federazione del PCI di Terra di Lavoro Era l’incontro tra due uomini di ferro della stessa generazione, due meridionali impegnati a riscattare il nostro Mezzogiorno, un impegno che per entrambi è stato ed è l’impegno della vita. La speranza è che la testimonianza della vita di Mario Pignataro ispiri e stimoli i giovani meridionali a ritrovare quell’impegno sociale, politico, di studio e ricerca, senza il quale le politiche di sviluppo, dall’alto o dal basso che siano concepite, non avranno le gambe per camminare, condannando il Mezzogiorno ad una perenne arretratezza e subordinazione.
Achille Flora, SUN

 
  100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: inervento di Mario Pignataro al 2° Congresso CGIL Campania Comprensorio di Caserta  
  100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: inervento di Mario Pignataro al 2° Congresso CGIL Campania Comprensorio di Caserta   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: inervento di Mario Pignataro al 2° Congresso CGIL Campania Comprensorio di Caserta  
 

1945: un Primo Maggio speciale di Mario Pignataro
Occorre anzitutto ricordare che, anche se l’Italia era ormai completamente liberata, il 1° maggio del 1945 sul fronte esteuropeo e nel Pacifico la seconda guerra mondiale era ancora in corso. E che quella guerra - costata ben oltre 50 milioni di vite - ha causato in provincia di Caserta circa 7000 caduti, oltre 700 dei quali vennero trucidati dai nazisti fra il 1943 e il '44, mentre furono 513 i militari caduti o dispersi nei lager tedeschi. Ma in Italia c'è stata, il 25 aprile 1945, la Liberazione, e il 1° maggio di quell'anno sono ben 24 le manifestazioni indette nella provincia di Napoli (Caserta sarà ricostituita provincia soltanto 40 giorni dopo. I'11 giugno 1945). La Camera del Lavoro è operativa a Caserta, ma anche a Santa Maria Capua Vetere, Sessa Aurunca, Capua; nel contempo si sviluppa la "Confederterra", che organizza i contadini e le cooperative che puntano all'occupazione delie terre.
Ma l'organizzazione della festa dei lavoratori è seguita soprattutto da comunisti, socialisti e democristiani. I partiti si andavano riorganizzando per zona: il 7 novembre 1944 il PSI tiene il congresso provinciale presieduto da Pietro Nenni, che ebbe come risultato, fra l'altro, la divisione fra Caserta e Napoli per zone di competenze. La segreteria eletta è composta dà Giuseppe Baffone, Umberto Merola e Alberto Jannone. Precedentemente, il 22 ottobre 1944, previo accordo fra la federazione comunista di Caserta e quella di Napoli, c'era stata la conferenza di organizzazione del P.C.I. per le sezioni oltre il Volturno (zona di Caserta) e di Piedimonte (presenti Cacciapuoti, Valenzi e Maglietta). Comunque, mentre da più parti si lavora incessantemente per riavere la provincia, per il 1° maggio 1945 si tengono manifestazioni a Caserta (con Paolo Fissore, Viscaro e Numeroso), ad Aversa (con Danesi, Benvenuto e Rodino), a Capua (con Ingangi, Manes e Passeggia), a Santa Maria C.V. (con Mario Alicata; Farina e Piscitelli), a Sessa Aurunca (con Ennio Villone, Corrado Graziadei e Piscitelli) e ancora a Piedimonte, Grazzanise, Marcianise, Maddaloni, Albanova, San Marco Evangelista, Santa Maria a Vico. Le notizie qui riportate le ho tratte dal libro di Peppino Capobianco Sulle ali della democrazia, ristampato con "la storia del P.C.I. (1943/47)"; il 1° maggio del 1945, infatti, non mi trovavo a Caserta, ma ero ancora a Firenze quale interprete presso un Comando delle forze Armate Americane. Qui ritornerò solo ai primi di giugno, e riprenderò ì contatti col partito e la Camera del Lavoro.
In quel periodo il problema da affrontare è il lavoro. A Piedimonte si organizzano manifestazioni delle operaie delle Cotonerie Meridionali per la ripresa del lavoro mentre i ferrotranvieri pongono i problemi relativi alla propria categoria. I reduci cominciano a reclamare un lavoro. A San Leucio le fabbriche sono ferme e gli operai vengono mandati a casa. I pochi che lavorano con le forze alleate vengono gradualmente licenziati. Gli unici che, in quel periodo ottengono risultati concreti sono i contadini, ma soltanto grazie al ricorso alla lotta e alle occupazioni: a Nocelleto di Carinola si registrano occupazioni delle terre già il 18 febbraio e poi ancora il 30 aprile del 1945; il 16 maggio dello stesso anno la Commissione istituita presso il Tribunale di Santa Maria C. V. assegna alle cooperative 50 ettari di terra ma, dopo soli 15 giorni, il 31 maggio, risultano assegnate alle cooperative, secondo la legge Gullo, 325 ettari.
L'agricoltura si conferma settore trainante delle nostre zone: dal censimento del 1951 si evince che il 60% della popolazione attiva è impiegata nell'agricoltura, che conta 150.000 lavoratori contro 17.000 addetti dell’industria. lo trovo provvisoriamente lavoro presso gli Americani come interprete di inglese e tedesco (gli Americani avevano dei prigionieri tedeschi). Siamo in tre, divisi in turni di 24 ore. Un giorno di lavoro e due liberi. Riprendo contatto col P.C.I. e comincio a riorganizzare i tessili e a interessarmi anche di altre categoria: edili, canapieri, pastai ecc. Nell'ottobre del 1945 la segreteria della Camera del Lavoro, ormai ritornata provinciale, è composta da Attilio D'Angelo socialista, segretario responsabile, Raffaele Postiglione, democristiano e impiegato della Sopral, e il sottoscritto, comunista, segretario. Ha inizio così la mia attività politica e sindacale.

** Tratto da Caffè del 30 aprile 2010

 

Mario Pignataro
Nasce San Leucio di Caserta nel 1923. Aderisce al PCI alla fine del 1945. Nell’autunno del 1945 in quanto organizzatore sindacale degli operai serici entra a far parte della Segreteria della Camera del Lavoro di Caserta, di cui diventa segretario responsabile dal 1958 al 1961. Fu tra i dirigenti in prima fila nelle lotte sociali del dopoguerra e degli anni ’50 in Terra di Lavoro; più volte venne incarcerato e processato. Poi divenne consigliere comunale di Caserta dal 1947 al 1950 e venne rieletto dal 1960 al 1980. Fu tra i fondatori e promotori della Confesercenti, di cui è stato presidente dal 1975 al 1980. Si laureò in Economia e Commercio presso l’Università di Napoli con una tesi su “La rendita fondiaria”. Nel 1981 vince una borsa di studio dell’ISVEIMER con una ricerca sul tema: “Il modello di sviluppo casertano e la questione meridionale”. Divenne Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 85 86 Parte quarta - Le lotte contadine per la terra esperto di pianificazione commerciale, acquisì la qualifica di giornalista pubblicista con tanti articoli e saggi, fu studioso di problemi economici apprezzato dai vari enti (in particolare collaborò con la Camera di Commercio). Tra le sue opere e ricerche ricordiamo in particolare: “L’economia di Terra di Lavoro dal 1945 al 1985”, a cui seguì la raccolta di saggi: “Una Provincia che vuole risorgere: l’economia casertana dal 1986 al 1992 vista da vicino”. Si potrebbe definire un vero “homo civicus”, l’emblema del vero cittadino attivo da proporre alle nuove generazioni. La sua vita era caratterizzata da una costante tensione civile e culturale, capace di coniugare insieme la partecipazione con la passione umana e riflessione critica.

 

In memoria di Mario Pignataro di Pasquale Iorio, ex Segretario CGIL Caserta
Con la sua scomparsa Mario Pignataro lascia un vuoto profondo nella vita sociale, politica e culturale della nostra provincia. Insieme a Peppino Capobianco, a Mimì Ianniello, ad Andrea Sparaco ed altre personalità della sua generazione, può essere ricordato come un “costruttore di democrazia”, come uno dei protagonisti più impegnati per la rinascita di Terra di Lavoro nel secondo dopoguerra: come operaio, militante e dirigente sindacale, in prima fila nelle lotte per la conquista delle terre incolte; sempre a fianco degli operai tessili delle seterie della sua borgata S. Leucio e delle tante vertenze che segnarono gli anni della industrializzazione (come quella emblematica della Saint Gobain), in difesa dei fondamentali diritti sociali ed umani.

 
  100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina del libro La situazione nelle campagne e le lotte contadinenel secondo dopoguerra di Mario Pignataro   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: tessera del PCI del 1958 di Mario Pignataro  
 

Giovanissimo si iscrisse al PCI all’età di vent’anni e fu tra fondatori della Camera del Lavoro di Caserta, di cui fece parte come segretario dal 1958 al 1961. Più volte incarcerato e processato per aver organizzato le lotte sociali degli anni ’50, s’impegnò anche nell’attività politico istituzionale come consigliere comunale a Caserta dal 1947 al 1950 e poi dal 1960 al 1980. Negli ultimi anni della sua vita prese parte attiva alle iniziative del mondo del volontariato dedicate ai temi della memoria storica ed economica, in particolare dell’Auser.
Sicuramente va annoverato tra gli intellettuali meridionali più attivi ed impegnati, dimostrando molta tenacia anche negli studi, conseguendo a quarant’anni la laurea in Economia e Commercio. Poi si è specializzato nelle ricerche storiche e politiche. Era molto orgoglioso di alcuni riconoscimenti, come quello ricevuto nel 1981 con una borsa di studio ISVEIMER per una ricerca sul “modello di sviluppo casertano e la questione meridionale”. Particolarmente intensa fu la collaborazione con varie testate giornalistiche e riviste specializzate (a partire da Il Mattino).
Ancora più rilevante è stato il contributo alla ricostruzione della storia economica di Terra di Lavoro, con alcune opere che rimangono fondamentali per chiunque voglia approfondire la nostra realtà: a partire dalle monografie di storia del movimento operaio, come “La situazione nelle campagne e le lotte contadine nel secondo dopoguerra” (L’Aperia, 1999); “Quando S. Leucio era la città della seta” (CGIL, 2004), per citarne solo alcuni.
Così come le pubblicazioni sull’economia casertana: dalla “Storia economica della provincia di Caserta 1945-2005” suddivisa in quattro volumi, a “L’economia casertana 1993-1997” che riceverà il premio Alberto Beneduce, fino all’ultimo volume con la presentazione del prof. Achille Flora, della Facoltà di Economia della SUN.
Di lui va ricordato il forte senso civico ed impegno sociale (come dice Franco Cassano in un suo bel libro, si potrebbe definire un vero “homo civicus”, l’emblema del vero cittadino attivo da proporre alle nuove generazioni). La sua vita era caratterizzata da una costante tensione civile e culturale, capace di coniugare insieme la partecipazione, passione umana e riflessione critica.
Fin negli ultimi momenti in cui le forze gli consentivano di uscire era partecipe alle attività delle “Piazze del sapere” e della vita socio-culturale della città, in cui portava sempre il suo contributo di uomo colto e curioso, di profonda umiltà e disponibilità al confronto – doti sempre più difficili a ritrovare nei nostri tempi. Per questo ha sempre mantenuto bei rapporti con alcune personalità ed enti, a partire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fino a quello della Camera di Commercio in carica Tommaso De Simone, con il quale aveva messo a disposizione le sue competenze per rilanciare la Biblioteca del sapere economico di Terra di Lavoro)
Con lui ho avuto modo di collaborare mettendo a disposizione tanti materiali e documenti della nostra realtà sociale e culturale. Di recente mi aveva chiamato per dirmi che stava lavorando ad una rielaborazione delle sue ricerche di storia dell’economia locale. Spero che questi materiali siano tra sue carte per poterli consultare e diffondere. A tal fine la rete delle Piazze del Sapere intende organizzare un incontro per ricordare degnamente la sua memoria in un luogo come la libreria Feltrinelli (di cui era assiduo frequentatore), concordando con i familiari data e modalità.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Per una storia del Sindacato di Terra di lavoro - Il contributo di Mario Pignataro

In ricordo di Mario Pignataro, homo civicus
Il 17 settembre 2022 decorre il decennale della scomparsa di Mario Pignataro, una delle personalità di spicco del movimento operaio e democratico, delle lotte per la rinascita democratica della nostra provincia.
Come ha ricordato in una sua nota il prof. Achille Flora, alla soglia dei novanta anni Mario ci ha lasciato dopo aver attraversato l’intero ‘900 con tutti i suoi orrori e le sue speranze, ma anche le sue conquiste e sconfitte per il mondo del lavoro. Mario s’iscrisse al PCI all’età di vent’anni e, dopo l’esperienza di organizzatore degli operai serici, entrò a far parte della Segreteria della Camera del Lavoro di Caserta di cui fu segretario dal 1958 al 1961. Più volte incarcerato e processato per aver organizzato le lotte sociali degli anni ’50, s’impegnò anche nell’attività politico istituzionale come consigliere comunale a Caserta dal 1947 al 1950 e poi dal 1960 al 1980. Già questo basterebbe a delinearne la figura di alto profilo di uomo e dirigente politico-sindacale, impegnato nell’attività sociale a fianco delle categorie più deboli. Insieme a Peppino Capobianco, a Mimì Ianniello, ad Andrea Sparaco ed altre personalità della sua generazione, può essere ricordato come un “costruttore di democrazia”, come uno dei protagonisti più impegnati per la rinascita di Terra di Lavoro nel secondo dopoguerra: come operaio, militante e dirigente sindacale, in prima fila nelle lotte per la conquista delle terre incolte... continua la lettura e/o download del file in PDF

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Ernesto Rossi
 

Ernesto Rossi, un democratico ribelle.
Nato a Caserta il 25 agosto 1897, morto a Roma il 9 febbraio 1967, politico, giornalista, antifascista e professore d’economia. Si era formato negli ambienti democratico e liberali fiorentini ed aveva partecipato da volontario alla Prima guerra mondiale, comportandosi valorosamente. Tra il 1919 il 1922, in polemica con le posizioni che i socialisti avevano verso i reduci di guerra, Diritti e lotte sociali nel XX secolo.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Ernesto Rossi

Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 43-44
Parte prima - I pionieri dell’inizio del Novecento il giovane economista ebbe a collaborare con il mussoliniano Popolo d’Italia. Ma non gli ci volle molto tempo per ricredersi. Nel 1924 Ernesto Rossi aderì all’Unione Nazionale Democratica fondata da Giovanni Amendola e, sempre nello stesso anno, fu tra i fondatori a Firenze dell’associazione segreta L’Italia Libera e, dal gennaio all’ottobre 1925, tra i redattori del periodico antifascista Non mollare! Per questo venne processato e costretto a riparare in Francia.
Nel 1926 tornò in Italia e partecipò, vincendolo, ad un concorso statale per l’insegnamento dell’Economia. Insegna a Bergamo, ma prosegue l’attività cospirativa e nel 1929 è tra i fondatori, con Carlo Rosselli, del movimento “Giustizia e Libertà”. Arrestato sul finire del 1929 per una delazione, Rossi - con altri dirigenti di “Giustizia e Libertà” - finisce in carcere e nel 1931 il Tribunale speciale lo condanna a venti anni di reclusione. Ne sconta nove, poi viene mandato a Ventotene, dove ha modo di concorrere con i suoi compagni alla stesura del federalista Manifesto di Ventotene.

Alla caduta del fascismo Ernesto Rossi raggiunse Milano, dove, il 27 agosto 1943, partecipò alla riunione di fondazione del Movimento Federalista Europeo ed entrò poi nell’Esecutivo del Partito d’Azione. Dopo l’8 settembre passò in Svizzera, dove continua l’attività resistenziale e da dove rientra a Milano nei giorni della Liberazione. Designato membro della Consulta nazionale, Rossi venne anche chiamato a far parte del governo Parri come sottosegretario alla Ricostruzione.
Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, svolse prevalentemente una fittissima attività pubblicistica (famosissimi i suoi articoli, raccolti nei volumi Aria fritta e I padroni del vapore, per non dire dei libri Settimo non rubare, Il malgoverno, Il manganello e l’aspersorio, Le baronie elettriche), anche se nel 1955 fu tra i fondatori del Partito Radicale che, in origine, si chiamò Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani.
Dopo la sua morte, ad Ernesto Rossi sono state intitolate una Fondazione, Circoli radicali e strade in molte città italiane. Il «democratico ribelle», come lo definisce Giuseppe Armani nel testo dedicato alla sua figura di politico ed intellettuale, ha sempre manifestato un’indole polemica e intransigente, dedito all’invettiva contro i vizi del potere, impegnato nel combattere gli interessi corporativi e clientelari dei “padroni del vapore”, attivo nei confronti dei grandi assetti monopolistici, testimone esemplare di un pensiero laico e liberale che, inevitabilmente, si è esplicitato in un’aperta dichiarazione di anticlericalismo in nome della difesa di un mondo libero dalle costrizioni ideologiche delle gerarchie ecclesiastiche e del regime fascista con cui la chiesa non mancava d’intessere relazioni, a partire dagli anni venti.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Domenico Ianniello
 

Domenico Ianniello (detto Mimì)
È stato certamente una delle figure più emblematiche della sinistra casertana nel secondo dopoguerra. Fu un intellettuale eclettico e rigoroso, di grande simpatia umana e comunicativa. Nato nel 1928 da famiglia originaria di Sora (sempre Terra di Lavoro) con papà ferroviere; unito da forti legami con la sua compagna di sempre, la moglie Serafina, ha lasciato insieme a lei i suoi tre amati figli Andrea, Pietro e Tania. Soprattutto ha lasciato un altro grande vuoto nella memoria storica del PCI e dell’intera Sinistra di Caserta.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto di Domenico Ianniello

Ha rappresentato l’ala intellettuale più avanzata del PCI casertano. Ingraiano convinto e coerente, anche dalla parte del gruppo de Il Manifesto, rimase all’interno del PCI con Ingrao per esercitare quella funzione essenziale della sinistra del partito. La sua impostazione, fortemente intellettuale, impregnata nel pensiero e nella ricerca del che fare, capire fino all’ossessione qualche volta, aveva però una caratteristica pregiudiziale e di fondo: il rifiuto dell’ideologismo ripetitivo, un grande senso della libertà del pensiero, partire dalla storia delle realtà sociali che incontrava, capirle e partire da esse per trarne la sintesi. La sua funzione non è mai stata quella del comunista che portava il credo e la verità ma quella di costruire momenti di organizzazione democratica della società e dei lavoratori.
Pur ricoprendo un incarico squisitamente politico e di partito, nei massimi organismi della federazione casertana del PCI, collaborava contemporaneamente con la CGIL, insieme con Paolo Broccoli e Pietro Di Sarno, per dare continuità al rafforzamento organizzativo dei braccianti e dare una testa alla storica vertenza dei mezzadri delle tenute ex borboniche di Mastrati e di Torcino.

Dette il massimo contributo all’allora segretario federale del PCI Peppino Capobianco (stiamo intorno al 1973- 74), per una svolta berlingueriana del Partito; per un profondo rinnovamento teso a ridare al PCI una nuova grande autonoma capacità di dar vita allo sviluppo dell’organizzazione democratica dei Lavoratori, dei contadini e della società. Per questo fu fatta la scelta di fondo di rinnovare e rifondare l’allora segreteria provinciale del PCI basandola sull’ingresso di due nuove esperienze sindacali, quella di Adelchi Scarano, che poi divenne segretario, e quella mia e di altri giovani dirigenti, stiamo all’inizio dell’estate 1974.
L’altra grande peculiarità e caratteristica di Mimì era quella di un rifiuto ideologico della politica e del partito come occasione di carriera. È memorabile il suo caparbio rifiuto della proposta insistente di Peppino Capobianco e di tutti noi di candidarlo come sicuro eletto in un collegio senatoriale, al momento in cui si pose l’alternanza delle cariche parlamentari nella nostra provincia. Mimì, contemporaneamente al suo forte impegno politico, contrassegnato da una grande aspirazione agli ideali di libertà e giustizia, non ha mai tralasciato la sua passione di lavoro fondato su un grande amore per la matematica e la fisica.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: copertina libro di Domenico Ianniello Il vialone Carlo III nella storia di Caserta

Nella metà degli anni ’70 la vecchia guardia che dirigeva il PCI (sotto la guida di Peppino Capobianco, a cui Mimì era molto legato, insieme con i funzionari storici come Umberto Barra, Salvatore Martino, Ciccio d’Ambrosio e Salvatore De Cicco), decise di affidare le sorti della Federazione casertana ad una nuova leva di giovani quadri e militanti. Quasi tutti/e provenivano dai movimenti giovanili e studenteschi; molti abbandonarono gli studi e si dedicarono anima e corpo alla vita di “rivoluzionari di professione” (così ci definivamo allora). Alcuni passarono per la FGCI, altri dal sindacato e dalla formazione professionale, altri dall’associazionismo cattolico, prima di assumere incarichi di direzione nelle varie “commissioni di lavoro” in cui si articolava l’organizzazione della Federazione.
A memoria cerco di ricordarli: da Peppino Venditto ad Adelchi Scarano (futuri giovani segretari provinciali del PCI), da Ugo Di Girolamo ad Amedeo Marzaioli, da Franco De Angelis a Tina D’Alessandro e Luisa Cavaliere), da Michele Colamonici (che è stato Segretario Provinciale CGIL) fino al gruppo dei sindacalisti come Michele Gravano, Giancarlo Bottone, Corrado Cipullo, Franco Capobianco, Adolfo Villani, che iniziarono la loro militanza nella CGIL. Vanno aggiunti anche il pratese Claudio Martini (che è stato Presidente Regione Toscana) e Piero Lapiccirella (Ex Segretario della gioventù comunista, prematuramente scomparso a Napoli).

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Vincenzo Raucci
 

Vincenzo Raucci

Il deputato Vincenzo Raucci, protagonista delle lotte contadine
Vincenzo Raucci iniziò il suo impegno di attivista comunista nel 1944, a 20 anni. Infatti nacque a Capua nel 1924 e visse i suoi anni di fanciullezza ed adolescenza in un ambiente familiare di forte impronta fascista. Ricordiamo solo che il nonno Vincenzo era stato nel 1921 segretario della sezione del Fascio di Capua e suo padre Attilio aveva partecipato alla marcia su Roma e accusato dell’aggressione del deputato socialista Vittorio Lollini.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Vincenzo Raucci

La famiglia era una famiglia molto benestante di commercianti e proprietari di immobili. Fu allievo del professore Alberto Iannone, nonostante il professore fosse un noto antifascista, e da quegli insegnamenti Enzo Raucci trasse l’ispirazione di una scelta di vita al servizio delle classi subalterne di Terra di Lavoro.
Raucci si iscrisse al Partito Comunista Italiano nel 1944 e già il 22 ottobre fu tra i sei delegati della sezione di Capua, insieme a Aniello Tucci, De Cecio, Antonio Perrotta, Pasquale di Rienzo e Vittorio Castellano, alla conferenza di organizzazioni delle sezioni del Pci dell’Oltrevolturno che si tenne a Sparanise. Da allora il suo impegno fu mirato a costruire e dare forza al “Partito nuovo” con incarichi di responsabilità.
Enzo Raucci rischiò il primo arresto nel corso di un comizio per una manifestazione non autorizzata, dopo la notizia dell’attentato a Togliatti. Riuscì a sfuggire ai carabinieri, rifugiandosi nella casa di Benedetto D’Innocenzo a Calvi Risorta, mentre veniva condotte al fermo le sorelle Maria e Velia. Raucci entrò a far parte del comitato federale del Pci nel 1946, dopo che la provincia di Caserta ottenne di nuovo il suo status, e successivamente nella segreteria della Federazione.

Poi rappresentante della Camera del Lavoro e consigliere comunale di Capua, nel 1948, avrà il suo ruolo rilevante nel corso delle lotte dei braccianti del 1954. Le lotte bracciantili del 1954, in provincia di Caserta, segnarono, infatti, un momento altrettanto importante con una nuova ondata di occupazioni, che portò a conquiste rilevanti in relazione al salario e ai primi diritti sindacali per i contadini. Siamo in un momento storico in cui il movimento contadino assume la valenza di movimento organizzato con una consapevolezza politica delle proprie ragioni sociali, anche economiche e di partito. Nel 1954 i braccianti conquistarono il primo contatto provinciale che portava i salari minimi a 800 lire giornaliere.
Inoltre fu l’anno degli scioperi per il sussidio di disoccupazione, di cui resta memorabile la giornata del 12 giugno 1954 con la Camera del Lavoro che decise di organizzare due grandi manifestazioni a Trentola e a Casal di Principe. In tale giornata, alle ore 6 del mattino, i dirigenti della Camera del Lavoro di Caserta, insieme ai braccianti, erano già sul posto, ma vi trovarono anche i Carabinieri che trassero in arresto sia i funzionari che gli stessi braccianti per blocco stradale. Tra di essi ritroviamo Vincenzo Raucci, che diede tutto il suo apporto generoso a quelle lotte per i primari diritti sindacali. Con Pietro Bove e Mariano Vegliante, Enzo Raucci sarà condannati a tre anni di carcere, condanna che in appello si ridurrà ad un anno di carcere. È grazie a quelle lotte che nell’inverno del 1954 i contadini conquistano il sussidio di disoccupazione, l’assegno familiare per il figlio e per il genitore, l’assistenza sanitaria. A tal riguardo, infatti, il 22 novembre 1954 il Parlamento approva la legge n° 1136 Bonomi con alcune aggiunte della proposta Longhi - Pertini che prevede l’assistenza sanitaria completa ed il contributo statale di 1500 lire per assistito.
Da quel momento ben 2 milioni di contadini usufruiranno per loro stessi e per i familiari dell’assistenza medica; il che significa che la conquista dell’assistenza sanitaria riguarderà ben 5 milioni di persone. Quindi Enzo Raucci diede un apporto determinante per un futuro migliore dei contadini in quell’anno. Belle le parole che dedicherà all’esperienza in carcere di Enzo Raucci la moglie del professore Alberto Iannone, Margherita Troili, nel momento in cui scrive: “ Il compagno Raucci, in carcere, con il suo atteggiamento e con il suo rifiuto di stare in cella se non con i braccianti, riuscì a tenere uniti i compagni”.
Sarà gran festa per tutti i compagni della provincia quando Enzo Raucci ritroverà la libertà nel 1956. Nell’anno 1959 Raucci sarà con Gerardo Chiaramonte testimone alle nozze di Giorgio Napolitano e Clio Bittoni. Nel dicembre del 1960 entra a far parte della Camera del Deputati. Siamo in un momento storico in cui, dopo la caduta del governo Tambroni, la Democrazia Cristiana apre al Partito Socialista e ciò provocherà un dibattito nel Pci sulle posizioni da tenere. Enzo Raucci nei suoi interventi farà prevalere la tesi dell’opposizione costruttiva in attesa di una svolta in senso ancora più progressista della società italiana. Dal 1961 al 1962 proporrà un pacchetto di proposte per una riforma tributaria che, basandosi sui principi fondamentali della Costituzione, sarà incentrato su imposte progressive per un fisco più giusto, equo e solidale. Nel contempo non viene meno il suo impegno di consigliere comunale di Capua, che aveva conservato. A ridosso degli anni settanta si consumò la devastazione del litorale domizio con la rivolta di Castel Volturno del 1969 e Raucci dedicò alla questione interrogazioni in cui denunciava gli intrecci di interessi fra politici e speculatori.
Enzo Raucci fu deputato fino al 1976, allorché vi fu un ricambio nella rappresentanza parlamentare del Pci della provincia e a Raucci e Iacazzi subentrarono Antonio Bellocchio e Paolo Broccoli. Raucci entrò nella direzione nazionale della Confcoltivatori e successivamente fu chiamato a dirigere la Confcoltivaltori campana. Agli inizi degli anni ottanta si adoperò quale collaboratore di Giorgio Napolitano, allorchè fu eletto capogruppo dei deputati del Pci fino alla morte che lo colse prematuramente nel 1986.

Bibliografia:
Adolfo Villani - I ragazzi del Professore - Ediesse 2013

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Michele Senatore
 

Michele Senatore, impegno e passione per la vera politica di Pasquale Iorio
Prendendo spunto da una lettera aperta inviata da alcuni militanti del PD casertano, lunedì 8 novembre 2010 si terrà nella sala della piazza del sapere alla Feltrinelli di Caserta un incontro sul tema “cultura e politica” con il commissario Ciro Cacciola. L’iniziativa offrirà anche l’occasione per ricordare la figura di Michele Senatore, scomparso da pochi mesi e ricordato da tutti/e come una delle espressioni più impegnate ed appassionate della vita politica casertana. Abbiamo volutamente scelto di legare in un filo rosso del nostro incontro i temi della politica e della cultura, intesa come fattore di coesione sociale e di crescita civile. La testimonianza di Michele ci riporta ai valori forti, al senso di militanza che la politica dovrebbe esprimere e che purtroppo oggi sono smarriti, svuotati dal pensiero unico dominante del neoliberismo, dall’effimero prodotto dal grande fratello e da un sistema di comunicazione dominato dall’immagine scandalosa di Berlusconi.
È l’occasione per ricordarsi che fare politica non vuol dire solo conquista del potere (ad ogni costo, spesso con metodi spregiudicati). Al contrario - come ci ricordano i principi su cui si fonda la nostra Carta costituzionale - vuol dire impegnarsi per il governo del bene pubblico, per affermare i valori e diritti fondamentali umani, civili e sociali, per lottare contro tutte le forme di emarginazione, per l’inclusione sociale e l’accoglienza dei più deboli.
È per questi valori che Michele si è sempre battuto, con passione e rigore. Lo faceva anche negli ultimi anni, in cui ha cercato disperatamente di rilanciare nella città capoluogo i luoghi in cui far vivere la partecipazione responsabile e democratica. Quanta sofferenza gli è costata la chiusura del circolo “Nilde lotti”, certamente tra i più attivi e partecipati della città. Per questo nella lettera aperta abbiamo sottolineato l’esigenza di far radicare anche a Caserta il PD sul territorio, di dare trasparenza al tesseramento e vitalizzare la partecipazione attiva degli iscritti e dei cittadini che ancora vogliono impegnarsi per una politica di cambiamento (dopo il palese fallimento dell’esperienza amministrativa).
A fondamento di tutto Michele poneva il ruolo della scuola e dell’istruzione pubblica, come diritto dei giovani per formare le basi culturali del loro sapere di futuri cittadini; ma anche delle persone adulte per poter apprendere sempre, per aggiornare ed adeguare il loro bagaglio di conoscenze e di competenze.
Come dimenticare la sua partecipazione assidua (insieme con Angela) alle tante iniziative locali e nazionali promosse su questi temi dall’area tematica oppure nelle feste de L’Unità, dove spesso interveniva per portare il suo contributo competente: di un uomo e maestro di vita per tanti ragazzi e studenti, con i quali si poneva in modo dialogante, di un docente che voleva condividere con curiosità, non solo trasmettere, sapere e conoscenza.
Infine, non possiamo trascurare la sua partecipazione attiva alle lotte sociali e sindacali, in difesa dei diritti primari, a partire da quelli per la scuola pubblica, dell’ambiente, della valorizzazione delle nostre bellezze e del territorio.

** Tratto da Buongiorno Caserta, 6 novembre 2010

 

Emilia Borgia ricorda l'impegno poliico di Michele Senatore
In una assolata ed afosa giornata di agosto tantissime persone hanno sfidato il clima pur di porgere l'ultimo saluto a Michele Senatore. Avendo militato per anni nello stesso Partito, benché non nella medesima Sezione, ed avendo fatto assieme innumerevoli esperienze congressuali, sia provinciali regionali, ma soprattutto avendo assistito ad interventi politici nelle sedi deputate, ho avuto modo di conoscere a fondo la persona che era. Impossibile non apprezzarne le specchiate doti dell'uomo e della persona politicamente impegnata. Michele era la testimonianza vivente del significato più nobile della parola "impegno politico": era lontano dalle poltrone, dal potere e dalle gestioni burocratiche che appassionano solo i politici perversi. Egli aveva un animo indomito della persona che non si piegava di fronte a nessuna ingiustizia e che della lealtà e della trasparenza aveva costituito il suo normale modo di vivere. È stato per me un orgoglio averlo conosciuto, frequentato ed aver condiviso con lui e la sua splendida compagna di vita del tempo prezioso. Con profondo affetto e stima anche a te Angela".

 
 

Dario Russo
Un chirurgo comunista. Una delle giornate che non dimenticherò mai fu quella vissuta all’inizio di giugno 1980 in occasione dei suoi funerali. Egli fu vittima della assurda follia e violenza di una donna che lo accoltellò in modo irreparabile nel suo studio all’ospedale civile di Capua. Era un medico di alta professionalità ed umanità, ed anche un uomo politico, un comunista sempre pronto ad aiutare i compagni e tutte le persone che si rivolgevano a lui (anche nella sua esperienza di consigliere comunale a Caserta). Poche volte, forse solo ai funerali di Enrico Berlinguer, abbiamo visto una intera città stringersi intorno al suo feretro, una folla sterminata, corale e commossa si strinse intorno a lui per l’ultimo saluto.
Un chirurgo abile, un uomo colto, di poche parole e di silenzi sereni. Una persona mite, con una bella e solida famiglia. Ed era un comunista. Il fatto di essere comunista in una città tendenzialmente democristiana, anzi molto democristiana, non gli precludeva la stima di chi non la pensava come lui. Mai, come nel suo caso, la passione politica non era di alcun peso nella valutazione della persona; di più, ne faceva risaltare gli aspetti umanamente più rilevanti. Sarebbe diventato deputato, Dario Russo, primo dei non eletti del Pci nella circoscrizione Napoli-Caserta, subentrando a Giorgio Amendola, morto da poche ore. Ma alla Camera il medico gentile non ci arrivò mai.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Francesco Imposimato
 

Francesco Imposimato
Sindacalista e ambientalista. Nella data dell’11 ottobre 2013 ricadeva il 30° anniversario dell’uccisione di Francesco Imposimato: un operaio vittima della barbarie omicida della camorra e del terrorismo, per il suo impegno politico, sociale ed ecologista. È stato una delle tante vittime innocenti del clima di violenza che in quegli anni ha insanguinato il nostro paese e la nostra provincia, con un pesante attacco alle condizioni di vita sindacale, democratica e civile. Oggi è importante ricordare queste figure per non dimenticare i pericoli che abbiamo corso. Da questo punto di vista è apprezzabile l’iniziativa promossa dall’Amministrazione e dal Presidio Libera di Maddaloni per ricordare Franco con una manifestazione pubblica. Nello stesso tempo vanno ricordati i tratti salienti e la ricchezza della sua personalità: in primo luogo il suo impegno di uomo politico, di un militante comunista rigoroso. Era un cittadino attivo (un vero “homo civicus” per dirla con Franco Cassano) in difesa dei fondamentali diritti sociali ed ambientali, in fabbrica e nel territorio per salvare i Tifatini dallo scempio delle cave, per tutelare un bene comune come il paesaggio (così come prevede l’Art. 9 della Costituzione).

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Francesco Imposimato

La sua esecuzione fu molto spettacolare, per il modo con cui venne trucidato in auto (mentre la moglie Maria Luisa Rossi restò ferita), davanti ai cancelli della sua fabbrica la Face Standard di Maddaloni. Come è stato ricordato in una nota della Fondazione Polis, che sta svolgendo un ottimo lavoro di documentazione e di memoria storica sulle vittime delle mafie, Imposimato era un iscritto al PCI, molto attivo nella vita politica e sindacale.
Ricordo i suoi interventi appassionati, di vero militante FIOM CGIL, nelle assemblee di fabbrica e nelle manifestazioni. Nello stesso tempo svolgeva una intensa attività culturale, con un particolare interesse alla salvaguardia dell’ambiente e dei centri storici. Memorabili restano le sue battaglie contro lo sfascio delle cave sui Monti Tifatini, che purtroppo nel tempo è continuato con danni irreparabili.
Per i suoi assassini aveva una grave colpa: era il fratello del giudice Ferdinando, in servizio presso il tribunale di Roma. Per questo la “cupola” mafiosa decise la sua morte, che era già scritta da tempo: nel marzo del 1983 gli rubano la Ritmo (poi utilizzata nell’agguato) e veniva pedinato.

Il fratello giudice, Ferdinando Imposimato, comprese l’esistenza di un reale pericolo: si rivolse ai carabinieri perché venisse allestito un servizio di scorta e sollecitò il direttore generale della Face Standard a trasferire il fratello. Dalle indagini e dai processi emerse subito la matrice mafioso-camorrista del crimine: si è voluto colpire il giudice Ferdinando Imposimato con un’azione trasversale.
All’origine dell’omicidio del sindacalista c’era un patto di ferro fra banda della Magliana, mafia e camorra. Come è emerso dalle sentenze e condanne, a volere l’omicidio furono Pippo Calò, considerato il cassiere della mafia, ed Ernesto Diotallevi, uomo di punta della banda della Magliana. Visto che Franco Imposimato viveva in Campania, era coinvolto anche Lorenzo Nuvoletta. Secondo la ricostruzione dei magistrati, i due decisero di uccidere il giudice Imposimato quando questi arrivò a loro nel corso delle indagini sull’omicidio di Domenico Balducci e su una serie di speculazioni edilizie nella Capitale. I due compresero che un agguato non sarebbe stato possibile, ma non per questo rinunciarono al loro obiettivo. Spostarono soltanto il tiro: il magistrato avrebbe, comunque, capito il messaggio e si sarebbe fermato. Allora si rivolsero ai Nuvoletta che erano interessati ad eliminare proprio Franco Imposimato.
Il sindacalista, infatti, aveva avviato una battaglia per fermare le cave abusive sui monti Tifatini, da dove è estratto il materiale per costruire dei tratti ferroviari i cui appalti erano affidati a ditte che facevano capo al boss di Marano. Appariva chiaro che l’impegno di Imposimato fosse tutt’altro che gradito al potente clan. La morte di Franco rientra nelle classiche vendette trasversali in quanto risultava impossibile colpire il fratello giudice.
È ancora viva la commozione che suscitò la notizia del suo assassinio, a cui seguì una forte mobilitazione unitaria del sindacato con una grande manifestazione dai cancelli della fabbrica per le strade di Maddaloni. Tutta la città si strinse commossa intorno al feretro di Franco, a fianco della moglie e dei figli. Toccò a me fare l’intervento conclusivo (a nome di CGIL-CISL-UIL), insieme ad Antonio Bassolino ed al fratello Ferdinando. Per ricordare la figura di Franco, la CGIL e la FIOM di Caserta – insieme alla rete di associazioni del terzo settore ed alla piazza del sapere – stanno valutando una iniziativa che si terrà a Caserta.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Luigi Paolino
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Luigi Paolino

Luigi Paolino
Marzano Appio 14/08/1923 – Vairano P. 01/03/1972

Figura di riferimento per il PCI nella zona dell’Alto casertano, già dal primissimo dopoguerra militante attivo del partito. Partecipò in prima persona alle lotte contadine che ebbero luogo nel 1949, in particolare nella zona di Cancello ed Arnone. Nel Gennaio del 1950 fu ispiratore ed organizzatore materiale di uno dei primissimi “scioperi al rovescio” della provincia e, per tale azione, scontò circa sei mesi di carcere con l’accusa di istigazione a delinquere.
Lo sciopero coinvolse circa 20 persone, le quali, in maggior parte braccianti disoccupati, si attivarono per canalizzare l’acqua di una antica fonte in località “Vallo di Marzanello”, nel Comune di Vairano Patenora, fino al centro abitato non ancora provvisto di tale servizio.
A Seguito dell’appello di Stoccolma si prodigò sul territorio per la raccolta firme contro le armi atomiche.

Nel novembre del 1950 fu cooptato nel Comitato Federale Provinciale del Partito ed inserito nella Commissione d’organizzazione.
Nel 1951 fu inviato dalla Segreteria Provinciale alla Scuola Centrale quadri “A. Marabini” di Bologna, dove affinò le sue già spiccate doti comunicative.
Le prime elezioni amministrative provinciali lo videro candidato nel Collegio Mignano-Roccamonfina tra le fila del “Fronte democratico Popolare”, esperienza bissata nel 56 con la lista “Rinascita” e poi sempre riconfermato con il PCI fino al 1964.
Nel 1963 ricoprì, per circa un anno, la carica di consigliere provinciale a seguito dell’elezione in Parlamento di alcuni compagni di partito.

A livello comunale, fino agli inizi degli anni ’70, fu “bandiera della sinistra” e voce instancabile delle istanze popolari e dell’interesse comune.
La sua generosità di uomo non gli fu restituita dalla vita, la perdita infatti di ben tre figli a poca distanza l’uno dall’altro contribuì non poco a minare la sua salute. Egli culminò tragicamente la propria esistenza il primo marzo 1972, accompagnato per il suo ultimo viaggio dalle bandiere rosse al vento.

Alberto Paolino

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: foto del funerale di Luigi Paolino

Fonti Documentali:
Fondo Peppino Capobianco – Archivio di Stato Caserta;
Corrispondenza privata 1951.
Fonti fotografiche:
Archivio Privato Alberto Paolino
Fonti orali:
Intervista Prof. Carlo De Cesare;
Memorie Mariano Paolino.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Maria Teresa Jacazzi
 

Maria Teresa Jacazzi
È nata a San Pietro del Carso il 30 novembre del 1929 è scomparsa a causa di una malattia incurabile il 13 novembre del 1993. La sua carriera politica comincia negli anni 60 e nel 1963 viene candidata ed eletta al Consiglio comunale, unica donna di quel consesso. Iscritta al Pci viene confermata per tre volte in Consiglio comunale e diventa assessore alla Pubblica Istruzione e allo sport nel 1987 e nel 1988.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Maria Teresa Jacazzi

Della sezione del Pci diventa anche segretaria. Componente del Cf della federazione di Caserta, candidata e prima dei non eletti alla regione nel 1975, component del comitato regionale del Pci e successivamente del Pds. Fino all'ultimo ha partecipato attivamente all'attività politica del partito partecipando nel luglio del '93, quando la malattia cominciava già a insorgere, alle votazioni e al dibattito per l'elezione del segretario regionale del partito. Come educatrice ha insegnato nelle scuole elementari di Teano, Villa di Briano ed Aversa.
Le è stato intitolato il palazzetto dello Sport di Aversa costruito proprio grazie alla sua azione di assessore. Durante il suo assessorato sono state costruite e progettate le scuole tutt'ora in funzione. Si è battuta per ottenere l'Università ad Aversa operando in maniera da liberare il complesso di San Lorenzo e affidarlo alla facoltà di Architettura della Sun.
La sua attività non è stata solo politica. È diventata nel 1967 presidente della squadra maschile di pallavolo di Aversa che ha portato in serie B prima e in serie A nell'aprile del 1975.

È stata tra i fondatori della lega di serie A di pallavolo e dirigente regionale del 15 anni della stessa federazione. È stata premiata per questo con la medaglia d'oro del Coni, essendo stata l'unica donna ad aver conseguito la promozione nella massima serie a capo di una squadra maschile. Per i suoi meriti politici e sportivi è stata insignita dal presidente della Repubblica Pertini dell'onorificenza di cavaliere della repubblica, nel 1981, e poi di quello di grand'ufficiale della Repubblica Italiana, nel 1988.

A cura di Vito Faenza, aprile 2012

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Angelo Maria Jacazzi
 

Angelo Maria Jacazzi
Fra le file dei partigiani tra il ‘43 ed il ‘44 nel suo periodo romano, nativo di Gorizia ma poi residente per anni a Valle di Maddaloni e quindi definitivamente ad Aversa, Angelo Maria Jacazzi è stato un punto di riferimento del Partito Comunista Italiano avendo rivestito le più alte cariche. Con la segreteria provinciale di Caserta ricoperta da Giorgio Napolitano, nel 1953 Jacazzi fu un funzionario di riferimento del partito in Terra di Lavoro. Di lui si ricordano in quel periodo le amicizie con Peppino Capobianco, altro casertano che ha legato il suo nome alla nascita e all’affermazione del Pci, e con don Salvatore D’Angelo, il sacerdote maddalonese che nel secondo dopoguerra diede vita alla Fondazione «Villaggio dei Ragazzi». Fu segretario del Pci aversano dal 1954, poi consigliere provinciale di Caserta. Dal 1963 e fino al 1976 fu ininterrottamente deputato del Partito Comunista. Sciolto il Pci Jacazzi decise di aderire al Partito della Rifondazione comunista, poi ai Comunisti italiani. Di recente aveva abbracciato la svolta «rottamatrice» di Matteo Renzi: alle ultime primarie del Pd aveva apertamente tenuto per l’allora sindaco di Firenze. Muore il 9 febbraio del 2015 a 80 anni.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Pompeo Rendina
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Pompeo Rendina

Pompeo Rendina
Classe 1922, proveniva da una famiglia antifascista, con il padre che partecipò in modo attivo agli incontri culturali che si tenevano nel Museo Campano. E’stato sentore della Repubblica dal 1963 al 1968, poi sindaco di Capua dal 1975-76.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Angelo D’aiello, detto Cacianiello
 

Angelo D'Aiello, detto Cacianiello
Così come nel capitolo precedente, una parte molto interessante della tesi di laurea di Andrea Iorio su “Lotte contadine e sociali in Terra di Lavoro” è stata dedicata ad una delle figure mitiche del movimento operaio, Angelo D’Aiello, comunemente detto Cacianiello, un vero capopopolo. Come ha ben ricostruito l’autore, in quella contingenza storica l’intervento dei militanti comunisti si diresse anche verso delle vere e proprie forme di “educazione popolare”. Molti militanti e studenti universitari si impegnarono in delle campagne di istruzione per le classi popolari, poiché in quegli anni l’analfabetismo era ancora molto diffuso. Questo impegno educativo derivava dalla convinzione che l’istruzione fosse un importante mezzo per sconfiggere quella che Vergani definiva come “servitù politica” delle masse contadine. Un altro elemento molto importante stava nel fatto che la promulgazione della Costituzione fu percepita come un elemento di garanzia nei confronti dei diritti dei lavoratori. Un famoso militante comunista di Maddaloni, soprannominato “Cacianiello” era solito conservare una copia del testo costituzionale in tasca per poterla citare più agevolmente durante i suoi interventi politici. Una sorta di bibbia dei laici!

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Angelo D’aiello, detto Cacianiello

Questo episodio è particolarmente emblematico in quanto dimostra il valore del nostro testo costituzionale, un concreto ed attuale riferimento per ogni riforma democratica del nostro Paese.
Leggiamo ancora la narrazione di Salvatore Pellegrino: «Il partito in questo modo si radicò su tutto il territorio del comune di Maddaloni; noi andavamo in ogni quartiere a leggere l’Unità a persone che erano per lo più analfabete.
E così creammo delle scuole serali organizzate da noi che eravamo per lo più studenti. Noi cercavamo di porre rimedio a questo (l’ignoranza e l’analfabetismo diffuso “nota mia”) facendo scuola ai contadini, insegnandogli a leggere. Ad es. fui proprio io che feci iscrivere al partito Cacianiello che imparò a leggere grazie a l’attività politica».
In un volumetto, edito di recente, riguardo l’intensa vita di “Cacianiello”, Pellegrino ricorda altri momenti: «Inoltre leggeva le riviste sindacali, quelle, in particolar modo, riguardanti i lavoratori del settore edile ed agricolo.

Egli si disperava che a volte non comprendeva a pieno ciò che leggeva e per questo si dava pugni in testa, per sforzarsi di capire. Gli regalai un piccolo vocabolario della lingua italiana che per lui fu una grande scoperta e quando leggeva consultava il vocabolario per capire il relativo significato delle parole, a volte riuscendoci ed altre no. In questi ultimi casi veniva da me a chiedere spiegazioni».
“Cacianiello” era il soprannome di Angelo d’Aiello un combattivo militante comunista, chiamato così perché era un pastore e “caciano” era il nomignolo di una sua pecora. Il mestiere di pastore era particolarmente disprezzato, ed i pastori venivano considerati selvatici e rozzi. Ad esempio lo stesso Graziadei in un suo scritto criticherà la scelta della Coldiretti di scegliere un pastore di bufale come rappresentante dei contadini all’interno di una commissione. Anche in altre città meridionali vi furono dei pastori che divennero figure “mitologiche” e considerati come ferventi antifascisti. Grazie al suo impegno e alle “scuole popolari” Cacianiello riuscì ad alfabetizzarsi, imparando il valore della cultura, ed il suo ruolo emancipatore. Egli infatti diede sempre importanza all’istruzione delle classi popolari. Infatti quando era difficile far intendere dei messaggi e dei concetti al proletariato maddalonese, li trascriveva in dialetto affinché ognuno li potesse comprendere. Egli partecipò alle prime lotte sindacali di Maddaloni assieme allo stesso Salvatore Pellegrino ed Attilio Esposto.
“Cacianiello” fu poi tra i protagonisti delle occupazioni di terra del 1948-49. Anche in altre cittadine del Sud contadini analfabeti divennero leader delle lotte contadine. È il caso ad esempio delle lotte della zona di Melissa, in Calabria, dove il contadino “Carrubba” guidò le occupazioni. Durante le occupazioni del 1949 la zona della provincia di Caserta dove era più vasto il latifondo (Basso Volturno e carinolese), fu divisa idealmente in alcuni settori. Da ognuno di questi settori, una volta che fu stabilito l’inizio Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 83 84 Parte quarta - Le lotte contadine per la terra delle mobilitazioni, doveva partire una colonna di braccianti a occupare un determinato terreno. Cacianiello fu responsabile della colonna composta dai contadini poveri e braccianti della zona di Capodrise e Macerata.
In una recente pubblicazione lo stesso Angelo d’Aiello, purtroppo defunto, racconta il periodo delle occupazioni: «La colonna da me diretta, che partì alle tre del mattino da Capodrise per Macerata, si doveva incontrare con l’altra proveniente dalla zona aversana. Al bivio di Capua ci siamo incontrati e abbiamo formato un’unica colonna di circa 3000 persone con tamburi, bandiere rosse, zappe, vanghe, semi per coltivare simbolicamente la terra. Dopo tre giorni fui distaccato dalla zona di Capodrise-Lusciano alla zona sessana. Prima avevo occupato le terre di Fossataro e di altri agrari».
Nel 1947 ci fu anche un’altra importante lotta popolare che riguardava la costruzione del complesso INA case nella zona detta “Starza”. L’appaltatore non rispettava i contratti previsti per i lavoratori, scatenando uno sciopero ad oltranza guidato dal nostro protagonista, che era responsabile della locale CDL. Dopo alcuni giorni di sciopero le maestranze incominciarono a percepire serie difficoltà. Caciano, allora, andò nelle varie salumerie e comprò il cibo per gli operai, accollandosi tutte le spese. Dopo alcuni giorni i negozianti non gli riconobbero più il credito. Questa difficile situazione lo convinse a cercare l’intervento del massimo dirigente della CGIL, Giuseppe di Vittorio. Il dirigente pugliese contestò la direzione della lotta, in quanto uno sciopero ad oltranza era una protesta troppo estrema, e dopo di esso “c’era solo la rivoluzione”. Di Vittorio allora consigliò di “diluire” la protesta in una serie di scioperi ad intermittenza, che potessero permettere ai lavoratori di sopravvivere.
Questo attivista partecipò al movimento dei disoccupati di Maddaloni e degli scioperi “a rovescio”. I disoccupati infatti si organizzarono in squadre di attuando lavori di pubblica utilità (come per esempio per quanto riguarda i lavori di miglioramento di via Calabricito a Maddaloni). Egli continuò a partecipare a tutte le lotte popolari della sua città, alcune delle quali furono particolarmente dure e difficili. Cacianiello diventò cosi “leader indiscusso della CGIL” e “punto di riferimento del mondo lavorativo maddalonese,” capo storico della massa dei disoccupati. Egli diresse alcune tra le lotte più dure della storia popolare di Maddaloni, ed anche della intera provincia. Nel 1960 occupa assieme alle maestranze lo stabilimento “Boccolatte” per un intero mese.
Nel 1970 è la volta della azienda alimentare “CISA” che viene occupata per due settimane, per arrivare poi al 1974 quando, dopo il licenziamento di alcuni cavatori, egli partecipò alla occupazione dello stabilimento e della locale stazione ferroviaria. Nel 1981 divenne pensionato, ma questo periodo non costituì per lui la fine delle lotte e l’inizio del riposo. Egli continuò ad essere un combattivo militante dei pensionati, diventandone leader e riuscendo a tesserarne 1.180 nel sindacato di categoria. Purtroppo, nonostante queste importanti lotte popolari, la sua figura assieme a quella di tanti altri, come Graziadei, Tarigetto e Tucci è stata dimenticata. In questo caso specifico l’oblio generale è stato particolarmente crudele. Infatti egli “è morto solo e abbandonato, senza poter contare nemmeno sull’assistenza pubblica.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Gianni Ferrara
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Gianni Ferrara

Addio ad un combattente per la democrazia costituzionale

La sera di sabato 20 febbraio è morto a Roma Gianni Ferrara, era ricoverato da qualche giorno in clinica per una polmonite batterica. Gianni avrebbe compiuto tra poco 92 anni, era nato nell’aprile del 1929 in provincia di Caserta.
Da giovane vinse il concorso come assistente parlamentare della camera. In seguito ha insegnato diritto costituzionale nelle università di Genova, di Napoli e per trent’anni alla Sapienza di Roma. È stato un maestro del diritto costituzionale e con lui si sono formate generazioni di allievi, molti di loro sono oggi tra i principali costituzionalisti italiani.

È stato anche parlamentare per due legislature, dal 1983 al 1992, prima deputato della Sinistra indipendente e poi del gruppo comunista.
Per sua volontà non ci saranno funerali. Aveva chiesto di essere ricordato solo come professore emerito della Sapienza e deputato della IX e X legislatura.
Intanto dal nostro archivio proponiamo un articolo di Gaetano Azzariti in occasione del novantunesimo compleanno di Ferrara e l’ultima intervista di Gianni al nostro giornale raccolta nella sua casa romana in occasione del referendum sul taglio dei parlamentari.
Ha fondato e diretto la rivista online Costituzionalismo.it
Del Manifesto è stato compagno, amico, sostenitore e prestigioso collaboratore.

Il collettivo de Il Manifesto

 

Novantuno anni e di buona «Costituzione» di Gaetano Azzariti

Oggi, Natale di Roma, Gianni Ferrara compie 91 anni e la comunità de il manifesto vuole festeggiarlo. I lettori di questo giornale conoscono bene la passione e l'impegno di questo grande vecchio del costituzionalismo italiano. Non c'è battaglia per i diritti dei più fragili che non abbia visto un suo intervento, perlopiù «in disaccordo».
Una indomita vis polemica che ha la sua origine nella caparbia ottenute dai lavoratori nel corso del Novecento disperse. Non dunque una generica visione «democratica», ma una specifica interpretazione della storia e una determinata idea di progresso sostengono le sue prese di posizione.
Ferrara si sente parte attiva di un movimento storico, quello che ha collegato il costituzionalismo moderno con le affermazioni del movimento operaio.
È da questo particolare punto di vista che si è sviluppato tutta la sua riflessione politica, ma anche quella scientifica. Se c'è, infatti, un insegnamento da trarre dalla sua opera di studioso è che è possibile parteggiare, senza perdere il rigore della scienza praticata. «Vivere vuol dire essere partigiani», a questa massima di Federico Hebbel sembra ispirarsi. Potrebbero ripetersi anche per lui i famosi passi gramciani: «Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Ciò porta inevitabilmente ad affrontare le scelte politiche, ma anche quelle più propriamente culturali, persino quelle personali, in modo non facile, caratterizzando le proprie posizioni per un «eccesso» di rigore, se non di rigidità; trovandosi spesso ad assumere punti di vista scomodi e di minoranza, senza remora nel sostenere dissenzienti, poiché la coerenza non sempre si coniuga con la duttilità. Proprio questa rigidità ha portato Ferrara a scontrarsi spesso, nel corso degli anni, con la «sua» parte.
Una coscienza scomoda. Tanto più in tempi confusi, dove è facile smarrire la rotta, temere per il futuro, magari fare passi falsi. Per Ferrara non si può perdonare nessun cedimento se si vuole salvare quel poco che resta della sinistra e della visione del mondo che si vuol propugnare. In fondo è dalle sue rigidità che abbiamo imparato. Ogni tanto è stato irritante, ma lo perdoniamo per questo. Tanto più noi, una comunità che si vanta di stare «dalla parte del torto».
È l'adesione ai principi del costituzionalismo democratico che spiega anche l'accentuarsi delle critiche negli scritti più recenti, ove si rafforza la denuncia, sempre più aspra e profonda, dei rischi di grave degenerazione che i sistemi costituzionali corrono per via delle trasformazioni degli ultimi anni. Molti dei lettori di questo giornale sono consapevoli dei tempi tristi e delle difficoltà del momento, ed è per questo che la voce tonante e piena di sdegno di Gianni Ferrara li tiene svegli, scuotendoli da un torpore che finirebbe per generare mostri.
«Buon compleanno, Gianni» da parte della comunità de il Manifesto.
** Tratto dal Manifesto del 20 aprile 2020

 

Gianni Ferrara: con Rodotà difendevamo il parlamento, oggi vogliono affossarlo di Andrea Fabozzi

Referendum. Il decano dei costituzionalisti italiani ricostruisce la storia della proposta di legge della sinistra indipendente sul monocameralismo di cui fu primo firmatario nel 1985 e dice: c'è un abisso con il taglio voluta dai 5 Stelle che vogliono paralizzare l'istituzione rappresentativa.
La «prova», non proprio inedita (l'aveva già «scovata» Renzi quattro anni fa quando faceva campagna per il «sì»), dimostrerebbe suo una volta e per tutte che il taglio dei parlamentari è un'idea di sinistra. La «prova» è la proposta di legge costituzionale 2452 del gruppo della sinistra indipendente che immaginava già, nel 1985, un parlamento di 500 componenti. Addirittura cento in meno di quelli teorizzati oggi da Di Maio. Certo, paragonare l'Italia di 35 anni fa a quella di oggi, anche solo dal punto di vista istituzionale e politico, è un po 'come paragonare il senato italiano a quello degli Stati uniti. Ma siccome si fa anche questo per esigenze di propaganda referendaria, forse è bene andare all'origine di quella proposta per rintracciarvi un obiettivo opposto a quello di oggi: rafforzare il parlamento, non sancirne la definitiva inutilità (è la nota tesi di Casaleggio). Ma anche per recuperare la memoria di una sinistra parlamentare assai lontana da quella di oggi, capace di progetti e ambizioni e non solo di giocare di rimessa con i 5 Stelle.
Possiamo farlo grazie a Gianni Ferrara che è il decano dei costituzionalisti italiani, maestro di più generazioni e nel 1985 deputato della sinistra indipendente, primo firmatario della proposta di legge in questione. Co-firmata da tutto il gruppo della sinistra indipendente, per primo dal presidente del gruppo Stefano Rodotà e subito dopo da Franco Bassanini e dalla deputata Levi Baldini, cioè Natalia Ginzburg.
Professor Ferrara, in che contesto cadeva la vostra proposta di legge costituzionale?
Nel 1985 da oltre dieci anni avanzava l'offensiva della trilaterale sulla insostenibilità dello stato sociale e la conseguente necessità di tagliare la rappresentanza politica dei parlamentari in modo da neutralizzare le domande di eguaglianza e giustizia sociale. La novità degli ultimi anni era che Craxi con la sua proposta di «grande riforma» aveva rotto il fronte dei partiti di massa che, pur combattendosi, avevano retto dal punto di vista della difesa della Costituzione. Ci ponemmo il problema di difendere l'istituzione rappresentativa, rafforzandola. E aggregarla per rafforzarla.
Scrisse lei la proposta di legge?
Sì, ma la discuti immediatamente con Stefano Rodotà che la condivise appieno. Al cuore c'era il monocameralismo, una proposta tradizionale per la sinistra. Sostenuta dai comunisti anche in Assemblea costituente e poi messa da parte per ragioni più pratiche che politiche: il testo sul bicameralismo nella Carta del '48 è in effetti alquanto stentato. Secondo noi il monocameralismo avrebbe riportato centralità all'istituzione parlamentare. L'esatto opposto di quello che si vuole fare oggi con la riforma dei 5 Stelle che invece avrà l'effetto di incrinare o addirittura bloccare le funzioni del parlamento.
Nella lunga relazione alla proposta di legge del 1985 non si accenna nemmeno vagamente al risparmio per le casse pubbliche che sarebbe derivato dal dimezzamento dei parlamentari.
Certo, perché quello del risparmio è un argomento falso - il risparmio è minimo - e profondo anti parlamentare. Del resto si risparmierebbe certamente di più abolendo del tutto il parlamento. Posso dire che tra la nostra proposta e l'oggetto del prossimo referendum costituzionale c'è una distanza enorme, abissale. Grande quanto l'indignazione per la miserabile demagogia alla quale ricorrono i sostenitori del sì.
Se il cuore della vostra proposta era il monocameralismo, nel testo c'erano tante altre cose. Anche il referendum propositivo che oggi piace ai 5 Stelle. Eravate già sintonizzati anche con la «democrazia diretta»?
Ma quale democrazia diretta! La nostra idea di proposta di legge rafforzata e di qualsiasi referendum propositivo aveva il senso di riportare alla partecipazione politica attiva le minoranze e si poneva in dialogo con la funzione legislativa della camera.
Cosa pensa dell'introduzione del vincolo di mandato per i parlamentari, l'annunciata prossima tappa del riformismo di Di Maio?
Che è una bestialità. Le finalità anti parlamentari mi sono chiare, in più mi pare anche poco praticabile vista la rapidità dell'azione politica. Come si fa a vincolare un deputato a questo oa quel disegno di legge se poi il confronto porta da un'altra parte, ci sono gli emendamenti ed emergono soluzioni differenti? Il vincolo di mandato è incompatibile con la dinamica parlamentare, a voler prendere sul serio il parlamento.
La proposta di legge di cui stiamo parlando non fece molta strada, anche perché il Pci non la appoggiò.
Era una proposta molto avanza e completa, mirava a introdurre una nuova categoria di leggi - le leggi «organiche» - una scrittura nelle costituzione della legge proporzionale, a porre dei limiti alla decretazione di urgenza ea estendere il controllo parlamentare sulla politica estera del governo. Come si vede era una proposta «per» il parlamento e non «contro» il parlamento come quella che abbiamo davanti adesso. E che mi auguro venga respinta dagli elettori.

** Tratto dal Manifesto del 25 agosto 2020

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino
 

Salvatore Pellegrino
Salvatore Pellegrino (Maddaloni, 31 luglio 1922 – Maddaloni, 24 ottobre 2015) è stato un politico e sindacalista italiano. Esponente di primo piano del Partito Comunista Italiano in Terra di lavoro. Fu senatore a 41 anni e tre volte consigliere comunale ed anche consigliere provinciale. Per l’ultimo saluto la salma è stata portata a spalle, con rigorosa bandiera del PCI, procurata dal compagno Franco Capobianco, figlio di Giuseppe che tante iniziative e battaglie ha condiviso con Salvatore, accolta da un partecipato applauso, accompagnata da tutta la popolazione cittadina e della provincia.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino

Professionalmente Salvatore Pellegrino, essendosi laureato in Economia e Commercio oltre all’impegno sindacale (principalmente nel settore agrario – con le battaglie per l’occupazione delle terre - ed in quello del terziario – tra i fondatori ed impegnato nella Confesercenti Provinciale di Caserta), e politico, è stato uno stimato commercialista. Oltre i confini territoriali è noto per essere stato eletto al Parlamento Italiano, nella Circoscrizione Campania, il 28 aprile 1963 come Senatore della IV Legislatura della Repubblica, come uno dei più giovani senatori della storia repubblicana. La sua elezione fu possibile grazie all’impegno partitico dopo l’adesione al PCI sulla scia del prof. Antonio Renga, rappresentante del pensiero comunista a Maddaloni, che lasciò a lui come a Francesco Lugnano la possibilità di crescere e poter ambire a ruoli di prestigio, di guida e di rappresentanza. Nella vita personale conosce e si innamora di Rosa Suppa con cui si sposerà il 25 luglio 1953, nella sagrestia della chiesa di nascosto per via della scomunica ai comunisti. Rosa era molto devota per cui non avrebbe acconsentito ad una vita insieme senza l’impegno cristiano.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino   100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino

Fotocronaca del comizio del PCI in occasione delle Elezioni Politiche, fine anni '70 con il Senatore Salvatore Pellegrino e l'On. Enzo Rauccio. I comizi, come evidente dalle foto, si svolgeva per tutti sul palco di piazza della Vittoria, di fronte al Monumento ai Caduti.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino
Foto anni '60, il Senatore è alla Face Standard di Maddaloni
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino
Anni '60, in Sezione PCI il Senatore al centro, a destra Nicola Squillace e a sinistra Emanuele Ventrone
 

Biografia e ricordi
Il legame con il Senatore Pellegrino è della seconda metà degli anni ’90, e ci unì la battaglia per il balzello del Consorzio del Bacino Inferiore del Volturno per la quale vicenda costituimmo un comitato da lui presieduto. Tante sono le memorie di quel palazzo, ad iniziare dal ricordo che lo vede prima sede ad appannaggio degli alleati e poi, grazie alla solerzia di un maddalonese, sede dei partiti locali, ed in particolare di quello socialista per lungo tempo fino allo PSDI, Ud di Maccanico e quindi alla naturale evoluzione del Pds, Ds e Pd. Mettendosi frontalmente al portale centrale sulla sinistra il primo locale era quello destinato all’attività politica, seguendo, verso la chiesa e convento dei Padri Carmitani Scalzi una edicola punto di incontro non solo per l’accesso all’informazione ma anche per i confronti quotidiani. Alla stessa si serviva Salvatore Pellegrino, da “Ciciotto”. Dal lato destro del portale padroneggia la lapide che ricorda la presenza in loco di Garibaldi.
Eletto in Parlamento fece parte del Gruppo “Comunista” dal 16 maggio 1963 al 4 giugno 1968 e fu componente della “5ª Commissione permanente (Finanze e tesoro)” dal 3 luglio 1963 al 4 luglio 1963 di cui fu Segretario dal 5 luglio 1963 al 4 giugno 1968 ed ancora fu componente della Commissione “Speciale ddl esercizio provvisorio 63-64 (n. 34)” dal 25 giugno 1963 al 28 giugno 1963. Dopo il matrimonio essendo Rosa Suppa insegnante delle elementari furono costretti a trasferirsi Suzzara (Mantova) già dal 1 agosto del 1953 e poi ancora ad Acquanegra Cremonese (Cremona) nel marzo aprile 1954, e solo nel giugno 1956 ritornarono a Maddaloni.
Salvatore Pellegrino si iscrive al PCI nel 1944 e partecipa da delegato al V Congresso Nazionale del PCI che si tenne dal 27 dicembre di quell’anno fino al 6 gennaio del 1945. Pellegrino, in relazione a tale appuntamento testimonia “Tutti, dopo i congressi clandestini, si iscrissero a parlare. Oltre alla vera fame, c’era anche quella di far conoscere agli altri la propria storia dopo venti anni di silenzio coatto”. Inoltre Pellegrino è stato consigliere comunale a Maddaloni, nel gruppo del PCI, dal 1952 al 1987 e nello stesso tempo fu anche consigliere Provinciale di Caserta dal 1960 al 1963, anno dell’elezione al Senato della Repubblica. Ricordo che quando mi parlava della sua esperienza provinciale riferiva di essere considerato il “consigliere delle acque” perché portava avanti battaglie atte a far in modo che in ogni nucleo abitativo vi fosse l’acqua corrente, elemento di vita. Altre testimonianze lo ricordano anche com consigliere comunale a Marcianise e a S. Felice a Cancello.
Egli è nato e vissuto a Maddaloni, aderì molto giovane al PCI, partecipò alla seconda guerra mondiale, ed ebbe un rapporto intenso con la città sia sul piano sociale sia come protagonista di tante lotte sociali per il lavoro e per i diritti, a partire dalle lotte contadine per le terre incolte. Tra l’altro fu tra i fondatori, nel 1973 della Confesercenti Provinciale di Caserta, di lui si ricorda il suo essere vulcanico e battagliero, il tutto sempre indirizzato alla conquista dei valori democratici e civili. Nelle medesime organizzazioni ha ricoperti diversi incarichi ai diversi livelli, con importanti funzioni di responsabilità. Circa le attività o iniziative promosse dal Senatore Pellegrino queste avevano quasi tutte una matrice sindacale: si ricordano manifestazioni, incontri, assemblee di spirito aggregativo al fine di ricompattare le categorie commerciali per rivendicare diritti sociali e convogliare delle legittime istanze nei confronti delle istituzioni. Ne 1997 è passato al l PDs poi Ds dal 1999 (ricordi del senatore al tavolo di Presidenza).

 
  100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino  
Inizio anni '90 manifestazione pro Face Standard di Maddaloni, corteo su corso I° Ottobre a Maddaloni
  100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021:  Salvatore Pellegrino  

Foto Gentilmente concessa da Nunzio Renga, che riprende una manifestazione del 1 Maggio 1975 su Corso Trieste a Caserta. Renga al centro mentre sulla destra con il pugno alzato Michele Colamonici, figura centrale del sindacato casertano nella Cgil. Lo stesso Renga ricorda che in quel primo Maggio uno degli slogan gridato era “il Vietnam è libero il Cile lo sarà”, infatti, da pochi giorni gli americani avevano finalmente abbandonato tutti le bramosie imperialiste e lasciato il territorio vietnamita; nel mentre il Cile viveva la dittatura del generale Pinochet sostenuto dagli americani.

 

Testimonianza intervista
Segue a questo punto il contributo del compagno Nunzio Renga che ci ha rilasciato una breve intervista.

Quando ha conosciuto il Senatore Salvatore Pellegrino?
Ho conosciuto il Senatore Pellegrino agli inizi degli anni 70, quando da giovane studente liceale mi avvicinai al Partito Comunista Italiano e, soprattutto, alla sua organizzazione giovanile la FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana). Il sen. Pellegrino, ovvero Salvatò come tutti noi lo chiamavamo, mi affascinò subito per l'entusiasmo, il calore e la passione che metteva in tutto quello che faceva; il compagno che sulla sua pelle aveva dovuto subire per essere “comunista” subito dopo la guerra; qualche volta nel dare sfogo ai ricordi mi ha detto che a qualche concorso fu scartato perché comunista.

Cosa sa dell’esperienza di vita, sindacale, politica e professionale del Senatore Pellegrino?
Agli inizi degli anni settanta si spese tantissimo nella vita sindacale fautore assieme al compianto Mario Pignataro della riorganizzazione e rilancio della Confesercenti nella Provincia di Caserta; la sede di Maddaloni per tantissimi anni fu retta dal Sen. Pellegrino. Ricordo l'esperienza della campagna elettorale per le elezioni amministrative nell'anno 1975. IL sen. Pellegrino era il capolista del PCI ed in quella lista per la prima volta entrarono i giovani diciottenni (da poco il diritto di voto era stato esteso a 18 anni); nella lista del Partito fummo inseriti io e Maria Ierniero in rappresentanza della FGCI con la compagna Ierniero che risultò eletta in Consiglio Comunale. La campagna elettorale vissuta assieme a tanti compagni ma soprattutto con il Compagno Pellegrino che entusiasmò e caricò tutti gli altri. Le elezioni del 1975 per il PCI rappresentarono uno dei maggiori risultati unitamente a quelle politiche del 1976 dove un italiano su tre votò PCI. Ricordo con piacere la sua passione politica; nell'anno 2004 per le elezioni Europee stavamo organizzando il palco per il comizio finale (allora militavo nel partito dei Comunisti Italiani), il sen. Pellegrino si avvicinò a me chiedendomi se poteva come per tante volte l'aveva fatto tenere il comizio di chiusura della campagna Elettorale, perplesso gli dissi: “Salvatò ma tu sei dei DS.” Lui mi guardò con l'espressione stupita, meravigliata, non rispose subito. Io affascinato da quel desiderio di un vecchio compagno e antico maestro feci si che il suo desiderio fosse esaudito, facendo si che il sen. Pellegrino potesse parlare ancora una volta ai cittadini di Maddaloni dal palco di Piazza Vittoria.

In che modo il Senatore Pellegrino è legato alla sua persona?
Salvatore Pellegrino è stato per me il compagno da seguire, il formatore politico ed anche la persona che mi ha aiutato a crescere professionalmente e come uomo.

Che ruolo ha rivestito nel tempo il Senatore Pellegrino nell’ambito della Politica e dell’adesione partitica, ed a che livello?
Il Senatore Pellegrino è stato per tutti i Maddalonesi la persona a cui si ricorreva nei momenti di difficoltà, soprattutto in Materia di imposte e Tasse. Ha aiutato tanti cittadini nei rapporti con il fisco e nelle controversie. Usava dire alle persone che gli portavano avvisi di accertamento “non ti preoccupare, faremo reclamo”.

Quali le principali attività e le attività/iniziative promosse o condotte dal Senatore Pellegrino?
L'ultima battaglia che ricordo del sen. Pellegrino fu quello contro “l'ignobile pizzo” che Consorzio di bonifica imponeva a tutti i cittadini di Maddaloni. Battaglia che per la quasi totalità dei cittadini fu vinta.

Quale è stato il rapporto tra il Senatore Pellegrino e gli organi e gli aderenti alla organizzazione politica di appartenenza?
Il ricordo che io ho del sen. Pellegrino è di un compagno rispettoso del Partito, dei ruoli, degli incarichi e delle cariche, un vecchio compagno rispettoso del “centralismo democratico” e soprattutto del Partito.

In che modo e per cosa oggi è ricordato il Senatore Pellegrino?
Il Senatore Pellegrino oggi è ricordato come l'uomo delle lotte per il riconoscimento dei diritti e dell'emancipazione degli uomini. Non va dimenticato l'impegno che profuse alla fine della seconda guerra mondiale per l'alfabetizzazione e la disponibilità nei confronti degli altri per l'accesso alla lettura e scrittura.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Umberto Barra
 

Umberto Barra era originario della provincia di Salerno, come un altro Quadro dirigente storico Giuseppe Speizia (per anni capogruppo alla Provincia di Caserta). Nel 1960 era segretario un po’ avanti negli anni. Nel 1961 organizzò la partecipazione di Caserta alla manifestazione di Italia 61 a Torino per ricordare i fatti di Genova dell'anno prima. E' stato a lungo responsabile di organizzazione della Federazione PCI e allorché si dovette sostituire nel 1970 A. Bellocchio fu indicato dalla delegazione che incontrò la Direzione come il nome più adeguato. Allora la Direzione Nazionale PCI bocciò la proposta. In seguito subentrò a Bellocchio alla Regione nel 1976 allorché fu eletto alla Camera dei Deputati. Negli ultimi anni della sua attività fu dirigente della CIA (allora Alleanza Contadini) insieme con Lino Martone.
È stato funzionario della Federazione del PCI nei decenni dalla fine degli anni 60, dove ha ricoperto diversi incarichi, in particolare quello dell'organizzazione. Insieme con altri compagni storici (come Salvatore De Cicco, Ciccio D'Ambrosio e Salvatore Martino) si occupava dei rapporti con le sezioni nei comuni della nostra provincia, in particolare del tesseramento, che insieme con le quote e contributi - versati dagli eletti - costituivano le principali entrate per sostenere le varie attività (in particolare nelle campagne elettorali e congressuali).

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Umberto Barra

La foto con al centro Umberto Barra, uno dei dirigenti storici della Federazione PCI Caserta, insieme con Pasquale Iorio e Lino Martone (poi passato a dirigere l'Alleanza Contadina) - allora tra i giovani che entrarono nella segreteria provinciale nella metà degli anni 70 e anni 80, insieme con Ugo di Girolamo, Corrado Cipullo ed Adelchi Scarano, con le compagne Tina d'Alessandro e Giovanna Abbate. In quel periodo Mario Bologna fu corrispondente de L'Unità. Poi subentrarono anche due compagni provenienti da fuori: Claudio Martini, poi divenuto Presidente Regione Toscana e Piero Lapicirrella dalla Segreteria della Internazionale giovani comunisti (anche lui scomparso).

Nella foto ci sono anche due giovani della FGCI: Amedeo Marzaioli (da poco scomparso) e Franco Capobianco, che poi divenne segretario FIOM CGIL provinciale e Campania.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Francesco Lugnano
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Francesco Lugnano

Santa Maria Capua Vetere: si e' spento l'ex senatore Francesco Lugnano
L'ex senatore del Pci ed avvocato penalista Francesco Lugnano, si è spento oggi nella sua abitazione di Santa Maria Capua Vetere.
Francesco Lugnano, che ha ricoperto per quattro mandati (dal 72 al 83) l'impegno senatoriale è stato anche membro della Commssione permanente giustizia.
Difensore impegnato in numerosi processi anche a livello nazionale, aveva difeso anche don Salvatore D'Angelo, il sacerdote fondatore del Villaggio dei Ragazzi per una vicenda legata a tangentopoli.
Innumerevoli gli attestati di cordoglio giunti da ogni parte.
I funerali si svolgeranno domani, 3 ottobre 2005 alle 16.30 nel Duomo di Santa Maria Capua Vetere.

Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 5 giugno 1968 al 24 maggio 1972
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Membro dal 5 luglio 1968 al 24 maggio 1972
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:
Membro dal 24 luglio 1968 al 24 maggio 1972
Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della "mafia":
Membro dal 27 ottobre 1969 al 24 maggio 1972

Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 25 maggio 1972 al 4 luglio 1976
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Membro dal 4 luglio 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:
Membro dal 2 agosto 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per il parere al governo sull'emanazione del nuovo testo del codice di procedura penale:
Membro dal 30 luglio 1974 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della "mafia":
Membro dal 28 luglio 1972 al 23 gennaio 1973
Membro dal 22 febbraio 1973 al 4 febbraio 1976

Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 5 luglio 1976 al 19 giugno 1979
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Vicepresidente dal 27 luglio 1976 al 19 giugno 1979
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:
Membro supplente dall'11 agosto 1976
Commissione parlamentare per il parere al Governo per l'emanazione del nuovo testo del codice di procedura penale:
Membro dal 5 agosto 1976 al 19 giugno 1979
Comm. inchiesta attuazione interventi ricostruzione Belice:
Membro dal 13 luglio 1978 al 3 ottobre 1978
Vicepresidente dal 4 ottobre 1978 al 19 giugno 1979

Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 20 giugno 1979 all'11 luglio 1983
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Membro dall'11 luglio 1979 all'11 luglio 1983
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:
Membro dal 9 agosto 1979 al 10 agosto 1979
Vicepresidente dall'11 agosto 1979 all'11 luglio 1983
Commissione parlamentare d' inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l' assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia:
Membro dal 20 dicembre 1979 al 7 marzo 1980
Membro dal 20 marzo 1980 al 30 giugno 1983

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Antonio Bellocchio
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Antonio Bellocchio

Antonio Bellocchio
Nato a Capua il 22 settembre 1927, venne eletto sindaco di Pietravairano e poi a Caserta. Fu Segretario della Federazione PCI di Caserta, presidente e fondatore della Alleanza Contadini provinciale (ora Confcoltivatori-CIA), Consigliere Regionale in Campania nelle prime due legislature, Deputato per diverse legislature. Giornalista, iscritto al Partito Comunista Italiano fin dalla giovane età. Viene eletto alla Camera dei deputati nelle file del PCI nel 1976 e viene riconfermato anche dopo le elezioni del 1979, quelle del 1983 e infine quelle del 1987, per un totale di quattro Legislature. In seguito alla svolta della Bolognina, aderisce al PDS.

Organi parlamentari
• 3 Incarichi parlamentari
• 266 Progetti di legge presentati
• 1630 Atti di indirizzo e controllo
• 294 Interventi

Gruppi parlamentari
VII Legislatura della Repubblica italiana
• Partito Comunista Italiano Membro dal 5 luglio 1976 (PCI)
VIII Legislatura della Repubblica italiana
• Partito Comunista Italiano Membro dal 20 giugno 1979 (PCI)
IX Legislatura della Repubblica italiana
• Partito Comunista Italiano Membro dal 12 luglio 1983 (PCI)
X Legislatura della Repubblica italiana
• Gruppo Comunista - PDS Membro dal 9 luglio 1987 (Gruppo Comunista - PDS)
• Membro dal 13 febbraio 1991 (Gruppo Comunista - PDS)

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Paolo Broccoli
 

Paolo Broccoli
Comunista della prima ora e sempre genuino, trova insopportabile lo stato di asservimento, di sfruttamento, di inerzia e di ingiustizia della sua gente, puntualmente aggravata da strutture politiche e culturali oppressive. Egli crede a una dimensione politica della liberazione dell’uomo e lotta per la promozione della giustizia sociale, vissuta come solidarietà e condivisione e come pubblica e coraggiosa richiesta del rispetto e della promozione dei diritti di tutti. Condanna ogni forma di organizzazione sociale che produce e riproduce comportamenti destabilizzanti e vittimali. Paolo Broccoli è un protagonista per la sua personalità pronunciata e franca, ma è soprattutto un testimone di giustizia e legalità. Con lui si può andare d’accordo o no, ma ci si deve confrontare. Il suo stile di lotta crea un linguaggio nuovo nella nostra terra, quello della riscossa e della rinascita sociali delle classi deboli. Linguaggio vibrante di vita per le popolazioni ancora ignare di un possibile riscatto. Dalla metà degli anni ’50 alla metà degli anni ’80, le nuove strutturazioni sociali che coinvolgono la nostra provincia, hanno il potere di produrre una trasformazione radicale. Nasce nelle nostre terre una classe operaia moderna. Essa gradualmente conquista lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, che definisce la nuova cultura della fabbrica e degli operai. A fianco si esprime il momento più felice delle confederazioni sindacali, che lottano sapientemente per le riforme: pensioni, fisco, sanità, trasporti. Nel settore agricolo le lotte dei braccianti, quasi sempre durissime, ottengono il risultato di cambiare la struttura, che diventa espressamente industriale.
Giovanissimo, nel 1960, alle elezioni comunali di Carinola è candidato, come capolista del PCI. Nel 1976, alla VII legislatura, viene eletto parlamentare nella circoscrizione Napoli-Caserta con 45.000 preferenze. Rieletto nella VIII legislatura, è membro della Commissione industria dal 1977 al 1983. Autore di numerosi saggi e interviste, viene fatto presidente del Centro Studi “Corrado Graziadei”. Nel 1995 ricopre l’incarico di vicepresidente della Provincia di Caserta. Dal 2013 tutti i materiali relativi all’attività sindacale, politica e istituzionale, fanno parte del Fondo a suo nome, depositato nell’Archivio di Stato di Caserta. Inoltre, presso lo stesso Archivio vengono conferiti circa 3.000 volumi e altrettanti volumi sono donati alla Biblioteca Diocesana. La simpatia per l’uomo non mi impedisce, tuttavia, di riconoscere quella che è l’identità specifica del personaggio. Paolo Broccoli è un politico, un vero amante della “polis”, della società organizzata. È un politico di professione, che riconosce la politica come la forma più alta e più espressiva del convivere umano. Così valorosa da poter coinvolgere tutto il suo pensiero e tutta la sua azione, perché la politica è un’esperienza etica e formativa in sé stessa.

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Gaetano Pascarella
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Gaetano Pascarella

Gaetano Pascarella (Maddaloni, 15 aprile 1951)
Laureato in medicina nel 1976, ha esercitato per anni la professione di medico ospedaliero, in quanto specialista in pneumologia.
Esponente del Partito Comunista Italiano e successivamente del Partito Democratico della Sinistra e dei Democratici di Sinistra, è stato consigliere comunale di Maddaloni dal 1979 al 1988, consigliere provinciale di Caserta dal 1990 al 1996 e sindaco del paese natio dal 1994 al 2001.
Alle elezioni politiche del 2001 viene eletto senatore: nella XIV legislatura ha fatto parte della commissione Difesa, di cui sarà vicepresidente dal 2003 al 2006.
Dal 18 maggio del 2006 fa parte del secondo governo Prodi in qualità di sottosegretario al Ministero della Pubblica Istruzione.

Mandati
• XIV Legislatura Senato

Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Democratici di Sinistra - l'Ulivo
• Membro dal 30 maggio 2001 al 27 aprile 2006
Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari
• Membro dal 16 luglio 2002 al 27 aprile 2006
4ª Commissione permanente (Difesa)
• Membro dal 22 giugno 2001 al 6 ottobre 2003
• Vicepresidente dal 7 ottobre 2003 al 27 aprile 2006
Commissione d'inchiesta uranio impoverito
• Membro dal 9 febbraio 2005 al 27 aprile 2006
Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa
• Membro dal 16 luglio 2002 al 27 aprile 2006
Commissione parlamentare per l'infanzia
• Membro dal 25 settembre 2001 al 14 luglio 2002
Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite connesse
• Membro dall'8 febbraio 2002 al 27 aprile 2006

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Ugo Di Girolamo
 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Ugo Di Girolamo

L’eredità politica di Ugo di Girolamo
Come scrive un autore caro a Ugo “Tutti muoiono. La vita non è una sostanza, come l’acqua o la roccia; è un processo, come il fuoco o un’onda che si infrange sulla riva. È un processo che inizia, dura un po' e alla fine termina” (S. Carrol). Sul piano scientifico la morte non ha in sé alcun mistero: tutto è spiegato nei minimi dettagli. Tutte le specie viventi accettano la fine del processo senza discutere e, soprattutto, senza interrogarsi su quel che c’è dopo. Solo noi umani facciamo storie. Solo noi umani manifestiamo quello che Edgar Morin definiva un “disadattamento alla specie” e, in forza di questo, concepiamo le imprese più sublimi e perpetriamo i crimini più atroci. Solo noi umani conosciamo il funerale, quella complessa “funzione sociale” per la quale “un uomo può essere oggetto di amore, di odio o di cordoglio mentre muore; ma una volta morto egli diventa il principale capo d’ornamento di una complicata cerimonia mondana” (J. Steinbeck). Accade quindi che l’ornamento non sia osservato per sé stesso, ma per illustrare le qualità estetiche del suo portatore.

È amaro, ma sappiamo che le cose vanno così. Purché – mi verrebbe da dire leggendo certi commenti a dir poco superficiali che sono state scritti in occasione della morte di Ugo Di Girolamo – non si superino i limiti della decenza. Non voglio criticare nessuno; vorrei invece provare a tratteggiare la figura di Ugo, per vedere se dalla sua vicenda pubblica si possano trarre elementi capaci di stimolare la nostra capacità di apprendimento.
Non è vero che Ugo era funzionario del Pci negli anni ottanta, come è stato scritto su questo social. Non lo era più dal novembre del 1978 e a febbraio dell’anno successivo lavorava già all’ATI (una consociata dell’Alitalia). Questa circostanza è di fondamentale importanza per comprendere la vita di un uomo che aveva progettato la sua esistenza essenzialmente in termini politici. Smettere di fare il “rivoluzionario di professione” (come allora si diceva) alla fine degli anni settanta aveva un significato incomparabile rispetto alla stessa scelta compiuta dieci anni dopo. Alla fine degli anni settanta il Pci aveva raggiunto il culmine della sua forza e della sua influenza politica nel paese; alla fine degli anni ottanta questa forza si era dileguata e il Pci era prossimo a diventare un altro partito. Alla fine degli anni ottanta il Pci non era più in grado di mantenere il suo imponente apparato organizzativo, sicché la figura stessa del funzionario di partito stava scomparendo. Molti cambiarono lavoro, molti… se lo fecero cambiare! Ma questo è un altro discorso. Chi invece, come Ugo Di Girolamo, ha compiuto questo passo alla fine degli anni settanta lo ha fatto perché aveva maturato un’idea diversa della politica, più laica, più libera, non costretta in una "linea" che ne prescriveva ogni movimento. Il discorso che mi fece in quel momento fu grosso modo il seguente: non ho intenzione di lasciare il Pci, ma non voglio dipendere dal partito, perché mi trovo costretto ad essere d’accordo anche quando non lo sono e perché voglio avere un ruolo nella società che mi permetta di autodeterminare la mia presenza politica. Un discorso duro, disincantato, che metteva radicalmente in discussione alcuni cardini essenziali dell’organizzazione politica del Pci e del pensiero politico che ci aveva accomunati a partire dal movimento studentesco, per un intero decennio. Non mi riuscì di dargli ragione in quel momento. Certo è che quanto è accaduto nel decennio successivo lascia pensare che Ugo aveva intuito qualcosa che a molti di noi sfuggiva, per lo meno in quel momento.
D’altra parte, questo passaggio non gli impedì di dare il meglio di sé nella vita pubblica per tutti gli anni ottanta e novanta. Si trovò a combattere contro il blocco di potere clientelare della Democrazia Cristiana, il cui unico programma consisteva nel rifiuto della modernità e nella sistematica depredazione del territorio. Subito dopo, quasi per una germinazione da questo modo di governare, arrivò la camorra: a Mondragone, come nell’intera regione, le istituzioni democratiche si ritrovarono un po’ alla volta assoggettate alle organizzazioni criminali che si erano impadronite dell’economia e avevano asservito il tessuto sociale. Contro questo fenomeno condusse una lotta senza quartiere: non solo come capo dell’opposizione in consiglio comunale, ma con contributi di approfondimento che cercavano di individuare le origini economiche, culturali e politiche che avevano generato un fenomeno che stava portando al disfacimento delle istituzioni democratiche e del senso stesso della politica.
Nel 1995 lasciò il consiglio comunale, ma non smise di dedicarsi ad affrontare i problemi della sua città. Nello stesso anno pubblicò "Analisi della struttura economica di Mondragone dal'50 ad oggi" e nel 1999 "Ipotesi per un piano di sviluppo territoriale", lavori nei quali metteva a fuoco le caratteristiche dell’economia del nostro territorio, provando ad immaginarne le vie per un futuro di sviluppo e modernizzazione. Nel 2003, la rivista quadrimestrale diretta dal prof. Roberto d’Agostino “Le Radici e il Futuro” ospitò il suo articolo (scritto in collaborazione con Filippa De Gennaro) "Mondragone tra passato e futuro". Nel 2009 pubblicò "Mafie, politica, pubblica amministrazione. È possibile sradicare il fenomeno mafioso in Italia?"
Penso che la rilettura di questi testi potrebbe essere utile a qualche amministratore del nostro tempo che voglia sinceramente applicarsi ad affrontare i problemi di questo territorio, al tempo stesso ricco di risorse e povero di conoscenze. Credo anche che la rilettura farebbe bene a qualche giovane di belle speranze della sinistra mondragonese, che immagina che la storia dell’opposizione al feudalesimo che vige in questa città incominci con loro e finirà con loro, evitando con questo atteggiamento di fare i conti con le proprie sconfitte.
Parallelamente una vicenda culturale decisiva segnò la vita politica di Ugo Di Girolamo: la critica del comunismo. Non solo dell’esperienza storica, ma dell’ideologia che vi era alla base. Non posso certo dimenticare le discussioni furibonde che hanno animato i nostri rapporti per tutti gli anni ottanta e novanta. Ora, non posso non riconoscere che anche in quella fase aveva visto qualcosa che io non riuscivo ancora a vedere: restituiamo a Cesare quello che gli appartiene. La nostalgia è un sentimento nobile, quindi penso che chiamarlo “compagno”, in occasione della sua morte, sia stato un gesto affettuoso e commovente. Ma, se pensiamo che il pensiero e l’opera di Ugo possa costituire una qualche forma di stimolo culturale per i giovani e i vecchi di questo nostro piccolo paese, dobbiamo ricostruire per intero la sua traiettoria.
Riporto qui una citazione tratta da un suo intervento (forse le ultime cose che ha scritto) su alcune considerazioni critiche che avevo fatto sull’approccio ideologico dei comunisti nell’osservazione degli eventi storici. L’occasione era data dalla guerra in Ucraina e dalle posizioni “neutraliste” di buona parte della sinistra italiana.
In merito io avevo scritto: “Alla base dell’ideologia che fa da sfondo alla concezione comunista della pace ci sono 4 assiomi: a) la storia degli umani ha dei fini da realizzare e che prima o poi si realizzeranno, la pace è uno di questi (Aristotele, Hegel, Marx); b) la guerra è sempre l’espressione della lotta di classe, del conflitto tra i ceti dominanti e quelli meno abbienti, soprattutto nelle società capitalistiche; sicché la pace può ottenersi solo con l’abolizione del capitalismo (Marx); c) l’imperialismo è un fenomeno tipico e necessario del capitalismo nella sua fase matura (Lenin): d) l’internazionalismo proletario, l’unione globale delle classi subalterne e il fattore che può sconfiggere il capitalismo e generare la pace (Marx, Lenin, Stalin). Tutto ciò che non coincide con la verità espressa da questa filosofia della storia non è vero. Ora, qui sarebbe troppo complesso discutere, uno per uno, questi argomenti. Basti dire che la storia del XX secolo si è incaricata di dimostrare che nessuno dei quattro regge al confronto con la realtà dei fatti”. Questo è il commento di Ugo: “Non è poi così lungo e complesso analizzare i 4 assiomi della concezione ‘comunista’ della pace (e della guerra). Il primo, la finalità che Marx assegnava alla storia, e il quarto, il ruolo salvifico dell’internazionalismo proletario, semplicemente sono ‘morti’ con il 1991 e il crollo dell’URSS. A meno che non si voglia sostenere che sarà la Cina a realizzare il sogno (anche bello) di Marx. Per il secondo, la guerra espressione della lotta di classe, si può solo scusare Marx e Engels perché nel 1800 le conoscenze sulla preistoria umana erano pressoché insignificanti. La ricerca etologica ha dimostrato che la guerra (intesa come aggressione volontaria e organizzata di un gruppo verso un altro) la fanno anche gli scimpanzé ed è finalizzata a impossessarsi del territorio di caccia e raccolta di altri gruppi. Ci sono prove archeologiche che dimostrano la pratica della guerra tra gruppi umani nel paleolitico superiore e persino dei Neanderthal (grotta di el Sindron Spagna). Infine il punto terzo, l’imperialismo non è né tipico né necessario del capitalismo. Nasce più o meno 7000 anni fa e si evolve in forme diverse nel corso della storia. I primi imperi coloniali europei (Portogallo, Spagna) nascono ben prima dell’inizio della rivoluzione industriale (seconda metà XVIII secolo) e finiscono dopo la seconda guerra mondiale (ultimo quello portoghese (1968) sostituiti da due nuovi imperi ‘ideologici’, quello sovietico e quello americano. Nella nuova condizione della rivoluzione dell’intelligenza artificiale il confronto è tra gli USA, in crisi democratica come l’Occidente europeo, e l’orrenda dittatura cinese. Chi tra i due vincerà disegnerà il nuovo ordine mondiale con relative strutture istituzionali. Ai comunisti giovani e vecchi e ai ‘criptocomunisti’ rivolgo solo un appello: finitela di guardare sempre e solo al vecchio nemico numero uno del ‘socialismo sovietico’, gli USA. Sforzatevi di guardare avanti e nel nuovo conflitto tra Occidente e Cina fate la vostra scelta, decidete da che parte stare, perché questi sono i termini reali del prossimo futuro”.
Non penso che occorrano molti commenti, se non quello di constatare che la critica del comunismo da parte di Ugo Di Girolamo è sempre stata incardinata sul pensiero scientifico, sulla conoscenza della storia, sull’affermazione dei valori di libertà e democrazia tipici dell’occidente. La scienza, la storia, la democrazia e la libertà: queste erano le sue passioni. La mia convinzione è che questi aspetti che lo riguardano siano quelli che dobbiamo coltivare affinché il suo insegnamento rappresenti qualcosa per le nuove generazioni di Mondragone.
**Adelchi Scarano, già Segretario Federazione PCI Caserta

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Compagni e compagne protagonisti in Terra di Lavoro
 

Compagni e compagne protagonisti in Terra di Lavoro

 
100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Compagni e compagne protagonisti in Terra di Lavoro
 

Presentazione
• Parte prima: Dalle origini alla Resistenza
• Parte seconda: Gli anni giovanili a Capua
• Parte terza: Gli anni del PCI
• Parte quarta: Gli anni del sindacato
• Parte quinta: Cultura e coesione sociale
• Parte sesta: Lotta alla camorra
Bibliografia

 

Presentazione
Giovanna Abbate è una delle ultime amiche e compagne che ci ha lasciato in questi giorni, dopo un delicato intervento chirurgico. Nel ricostruire la sua figura e la sua storia della donna sempre attiva sui temi dei diritti – che inserisco all’inizio del volume – sono riandato con la memoria a rievocare tanti e altri compagni/e di viaggio. E mi sono accorto che la lista di quelli che non ci sono più è diventata veramente lunga. Dagli anni giovanili a Capua sono riemerse le figure di giovani ed intellettuali come Enzo Ligas ed Andrea Vinciguerra, ma anche di operai e militanti sindacali, come Sandro Ammirato, Giancarlo La Peruta e Mario Ventriglia. Sono tutte figure che come me hanno dedicato la vita alle lotte per i diritti (così come è intitolato un mio volume autobiografico).
Sulla base dei miei ricordi e delle mie ricerche ho provato a ricostruire una mappa sui protagonisti uomini e donne della vita democratica e delle lotte (oramai tutti/e scomparsi) per i diritti dalla fase di nascita del PCdI fino ai nostri giorni. A seguire ho ricostruito l’elenco di donne e di uomini (più i meno giovani) che ho conosciuto e frequentato durante la mia lunga militanza politica di giovane comunista, prima impegnato a Capua e poi nella Federazione di Caserta ed a lungo nel sindacato come dirigente confederale della CGIL provinciale e campana. Con loro sono stato protagonista di tante battaglie per affermare i diritti dei soggetti più deboli o emarginati (giovani, donne, immigrati ed anziani). Dall’inizio degli anni duemila ho avuto modo di raccogliere, ricordare e narrare gli episodi e le vicende più significative: a partire da quelle ricostruite nel volume “Il Sud che resiste” edito da Ediesse nel 2009, passando poi per i saggi raccolti in “Diritti e lotte sociali”, edito da Guida nel 2020 fino ai racconti autobiografici di “Una vita per i diritti” edito da Rubbettino nel 2018.
Emerge un quadro molto ricco e variegato di militanti e di personalità che si sono dedicati ad affermare i valori della democrazia, della cittadinanza e della partecipazione attiva, per affermare in una provincia difficile (definita come terra dei fuochi e dei veleni) la cultura dell’accoglienza e della solidarietà. In tutte queste storie emerge un filo rosso, una via maestra: quella di ripartire con la cultura come fattore di coesione sociale e di apprendimento permanente, a cui abbiamo improntato le attività delle Piazze del Sapere come luogo e rete di iniziative, con tanti incontri ed eventi per la presentazione di libri, per discutere temi attuali ed emergenti come quelli dell’ambiente e del cibo (letture di gusto), per contrastare la violenza criminale della camorra, in particolar modo denunciando alcune piaghe sociali come l’azzardo, la droga e l’usura fino alla tratta delle donne e dei bambini (vedi la recensione al libro della giudice Marta Correggia “Il mio nome è Aoise” sulla mafia nera dei nigeriani a Castel Volturno).
Nel sito www.pcicaserta.it abbiamo raccolto tanti documenti e testimonianze per ricostruire la cronistoria dei suoi cento anni dalla nascita fino all’estinzione in Terra di Lavoro. Inoltre abbiamo una sezione dedicata ai protagonisti/e della vita politica e sociale di quegli anni. Molto ricca è anche la parte dedicata alle Sezioni nei vari comuni della provincia, con il ricordo di tanti segretari e militanti (per lo più deceduti/e). Infine appare molto interessante la sezione multimedia con foto, filmati e documenti riferiti ad eventi ed attività del partito.

 

Dalle origini alla Resistenza
Uomini e donne illustri delle prime lotte contadine ed operaie in Terra di Lavoro
Per incamminarci nel nostro itinerario storico e politico nel XIX secolo in Terra di Lavoro, ci aiuta l’ottimo lavoro di ricostruzione biografica e di documentazione raccolto nel blog Pignataro News da Angelo Martino, docente e bibliotecario dell’istituto comprensivo della sua cittadina. A tal fine abbiamo ripreso e utilizzato alcune sue biografie dedicate a uomini e donne “illustri”, protagonisti di quella fase storica. Bisogna partire dall’assunto che allora per chi rappresentava il movimento operaio e contadino in Terra di Lavoro essere comunisti coincideva con la lotta per cambiare un assetto sociale fortemente ingiusto. Tali uomini e donne furono sempre rispettati dagli avversari politici, i quali riconoscevano in loro la forza di un impegno politico, che seppure non condiviso, era caratterizzato da una forte impronta civile di sacrificio e di passione ideale. Di seguito riprendiamo le note biografiche curate da Angelo Martino, dedicate a Corrado Graziadei, Gori Lombardi, A. Iannone, Michele Izzo, A. Marasco ed Ernesto Rossi. Quella su Maria Lombardi è frutto di Silvano Franco.
Corrado Graziadei
Corrado Graziadei giunse al Partito Comunista Italiano dalle fila socialiste dove aveva militato fin da giovanissimo prima come segretario cittadino e poi come segretario della federazione giovanile socialista. La sua iscrizione alla Federazione Giovanile Socialista Italiana risale al 1907, quando aveva appena 14 anni. Graziadei era nato l’11 agosto 1893 a Sparanise, patria di Leopoldo Ranucci, divenuto assessore al Comune di Napoli nella giunta del Cln. A 16 anni fu denunciato e condannato dalla pretura di Pignataro Maggiore a pagare cinque lire di ammenda “quale promotore di processione civile senza licenza e per disturbo della quiete pubblica”. Ricorda Giuseppe Capobianco nel suo testo “Sulle ali della democrazia” che Terra di Lavoro fu presente al primo congresso regionale socialista del 14 gennaio 1900 con il gruppo di Sparanise che già dai primi anni del socialismo partecipa con il suo contributo rilevante alla costruzione del Partito Nuovo. Ricordiamo che il Partito Socialista era nato durante il Congresso di Reggio Emilia nel 1895. Graziadei rimase nel PSI anche dopo la scissione di Livorno, essendo sulla posizione della corrente di Serrati. Fu nel 1923 che confluì nel Partito Comunista d’Italia, due anni dopo la scissione di Livorno. Fu in questo periodo decisivo per le sorti del movimento socialista e comunista in Terra di Lavoro che Corrado Graziadei di Sparanise divenne segretario della Federazione di Caserta del PCd’I. Ebbe dal partito l’incarico di accompagnare, nei primi giorni di ottobre del 1924, il fondatore del Partito Comunista d’Italia per un congresso clandestino che doveva tenersi a Castellamare di Stabia. Antonio Gramsci doveva presiedere il Congresso della Federazione Napoletana in un delicato momento storico, dato che pochi mesi prima era stato assassinato Giacomo Matteotti, e le forze di opposizioni discutevano della maniera di reagire al Fascismo.
Dopo l’assassinio di Matteotti sembrò che il fascismo stesse per crollare per l’indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così: l’opposizione parlamentare scelse la linea di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell’Aventino, in quanto ogni forza politica aveva delle aspettative con i liberali che speravano in un appoggio della corona, i cattolici che erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e con questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici» – il nucleo dirigente dei gruppi aventiniani – la proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire.
Nell’ottobre 1924 Antonio Gramsci avanzava la proposta che l’opposizione aventiniana si costituisse in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti. In tale contesto storico Graziadei ebbe l’incarico di accompagnare Gramsci nel suo viaggio da Roma a Castellamare. Rimase affascinato dalla figura di Antonio Gramsci, ospitandolo nella sua casa di Sparanise. L’episodio è ricordato con parole di ammirazione e di nostalgia durante il primo Congresso di ricostruzione del Partito Comunista Italiano nel 1945: “Nella mia vita di militante spesso ho intrecciato fatti ed esperienze che ho fermato nella mente per trarne da essi ammaestramenti e consiglio. Uno, però, più di ogni altro mi ha lasciato il segno, che il tempo non cancellerà mai. Pochi mesi prima che cadesse nelle mani dei suoi carnefici, Antonio Gramsci, che avevo avuto incarico di accompagnare ad un convegno clandestino, fu mio ospite. In quella indimenticabile veglia notturna, il maestro si Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 29 30 Parte prima - I pionieri dell’inizio del Novecento affacciò al balcone e, respirando ampiamente, mi disse col suo eterno sorriso: Non basta camminare sulla via giusta, occorre che si abbia la capacità di farvi camminare anche gli altri”. E aggiunge: “Noi camminiamo sulla via giusta, ma occorre far leva sulla nostra onestà, sulla nostra capacità, sul nostro spirito di sacrificio, per trascinare tutto il popolo su questa stessa via alla conquista dell’avvenire”. Al congresso provinciale del 1924, che si svolse clandestinamente in un casolare di Riardo, Graziadei fu confermato segretario della Federazione di Terra di Lavoro e delegato alla conferenza nazionale a Como. Il gruppo che Graziadei diresse dal 1924 al 1929 era formato da Benedetto D’Innocenzo di Calvi, Domenico Schiavo ferroviere di Caserta, Antonio Marasco di Piedimonte d’Alife, A. Leoncavallo di Tora e Piccilli, Ambrogio Ursillo di Marzano Appio e Antonio Barbato di Sparanise. Graziadei era stato già cacciato dalle ferrovie nel 1923 per aver organizzato gli scioperi nel 1921-22 e aveva ripreso gli studi laureandosi in legge e iniziando l’attività di procuratore legale. In particolare, tra i compagni, D’Innocenzo diventa uno dei collaboratori più fidati di Graziadei nella propaganda politica nelle campagne e contrade dell’Alto Casertano, entrambi sono accomunati anche dall’arresto e dal confino per un anno nel 1937 nelle Isole Tremiti. Nel prosieguo Graziadei riesce ad intessere una rete clandestina di resistenza con i compagni di Santa Maria Capua Vetere, con quelli di Capua e di Piedimonte, dando vita all’unico giornale clandestino durante il Fascismo “Il Proletario”.
Questo giornale fu il primo stampato clandestinamente nel Mezzogiorno d’Italia negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, dal 1942 all’agosto del 1943. Fu fondato da Aniello Tucci, ferroviere di Afragola e da Michele Semeraro, giovane universitario di Taranto che prestava il servizio militare a Capua. Tra i primi collaboratori de “Il proletario” fu proprio Graziadei, che, entrato in redazione ne promosse la diffusione nell’Agro Caleno, nel Matese e nella zona di Cassino insieme a Benedetto D’Innocenzo. Infatti la diffusione del quotidiano era divisa in zone con ciascun responsabile che era coadiuvato da addetti alla diffusione nelle sottozone. In particolare Graziadei consegnava le copie da diffondere nella zona di Cassino a Benedetto D’Innocenzo. La sua diffusione, oltre che in Campania, si estendeva anche Calabria e Puglia grazie all’attivismo dei ferrovieri che riuscivano a divulgarlo con prudenza e coraggio, anche se episodi cruenti sono da annoverare, come ricorda lo stesso fondatore Aniello Tucci: “A San Tammaro un contadino viene preso. È disarmato. Grida che non ha partecipato agli scontri armati e che è estraneo alle squadre partigiane. Viene creduto e liberato. Ma mentre sta per allontanarsi, un soldato tedesco lo richiama: ha notato uscire dalla tasca posteriore dei pantaloni un foglio di giornale: è “Il proletario” ed è la sua condanna a morte. Il numero più famoso de “Il proletario” è quello del 26 luglio 1943 che annunciava e commentava la caduta di Mussolini. Aniello Tucci ricorda che “il lavoro del giornale era così suddiviso: per gli articoli ideologici e di politica estera redattore era il comunista Michele Semeraro; per gli articoli di fondo, il socialista Antonio Iannone, per bollettini e notizie lo stesso Tucci, collaboratori Corrado Graziadei e Vittorio La Rocca. Graziadei provvedeva a portare le copie ad un compagno di Piedimonte d’Alife, questi divideva le copie tra i componenti del gruppo della zona del Matese… per la zona di Cassino, sempre Graziadei al compagno D’Innocenzo di Calvi Risorta… per la zona di Caserta c’era Raffaele Parretta, macchinista delle Ferrovie dello Stato. Per Portici c’era Agostino Buono, ferroviere, per Napoli periferia c’era il tipografo Iazzett, per Napoli provincia e zona nolana, La Rocca. Altri corrieri provvedevano a portare le copie in tutto il Mezzogiorno”. Il “Il Proletario” fu il giornale che negli ultimi anni del regime fascista consentì un’informazione “fuorilegge” e clandestina dal 1942 fino all’agosto 1943 preziosa e coraggiosa, se consideriamo che lo stesso giornale “L’Unità” riprese le sue pubblicazioni il 27 luglio 1943 a Milano il giorno successivo alla caduta di Mussolini.
Negli anni del dopoguerra le parole d’ordine “le terre ai contadini” già erano ben presenti in maniera rilevante dopo la prima guerra mondiale in tutta Italia grazie ai grandi partiti di massa che le stavano diffondendo. Graziadei diede il suo primario contributo alle lotte contadine in Terra di Lavoro dal 1945 al 1950. Le occupazioni iniziarono a Nocelleto di Carinola e proseguirono negli anni successivi in altre zone, avendo il loro momento più rilevante nel 1949. Andando a ritroso, in relazione a Terra di Lavoro la prima lega contadina della Provincia nasceva a Sparanise nel 1901, con dei tentativi di lotta che a Nocelleto e a Carinola erano iniziate già negli anni venti. Nell’inverno del 1944 la cooperativa “La terra” di Nocelleto di Carinola, non avendo avuto risposta ad una richiesta di concessione di terre incolte, il 18 febbraio 1945 occupa 1000 moggi di terreno. La commissione di Napoli si vede costretta a concedere i primi ettari di terreno alla Cooperativa di Nocelleto e tale concessione è festeggiata dalla Federterra il primo maggio con tutta la popolazione. Ricorda Libero Graziadei, figlio di Corrado, che “i contadini, guidati dal compagno Sciorio, organizzarono un grande corteo con alla testa la bandiera rossa e il crocifisso”. Memorabile è il comizio che tenne in quella occasione Corrado Graziadei insieme a Gori Lombardi e Paolo Fissore. Dopo Nocelleto le proteste si estesero a Villa Literno, ove era attiva la cooperativa “l’Agricola” che si fece promotrice dell’occupazione della tenuta di “Torre del Monaco” e della tenuta di Gargiulo. Ciò diede coraggio alle sezioni della Federterra le quali, secondo un’inchiesta del 15 novembre del 1946, avevano raggiunto il numero di 41 sezioni, tra cui annoveriamo quelle di Calvi Risorta con 86 iscritti, di Pignataro Maggiore con 121, di Nocelleto con ben 272 iscritti, di Teano con 129, di Falciano di Carinola con ben 170 iscritti, di Vitulazio con 80 iscritti, di Santa Maria C. V. con un migliaio di iscritti.
Da allora le lotte si estendono, le manifestazioni diventano man mano imponenti e il 16 maggio 1947 si festeggiò “La giornata del contadino” con diecimila contadini che manifestarono a Caserta e in centri minori quali Grazzanise, Pignataro Maggiore e Teano ove parlarono Graziadei, Ferrante e Picardi. I tempi erano maturi per la grande occupazione delle terre incolte del 22 novembre 1949, che fu preparata nei minimi dettagli con tanti attivisti che agivano in maniera sinergica. Vi parteciparono 12 mila braccianti e un trionfante Graziadei scrisse: “La provincia viene divisa in quattro zone principali ed in altre marginali, nel primo giorno nel Carinolese, che aveva una vera e propria tradizione in questo genere, e sul Sammaritano in precedenza ‘saggiati’. Nel contempo si prepara l’intervento delle altre due zone: l’Aversana con centro a Lusciano, la Sessana con centro a Fasani. L’occupazione delle terre continuò per ben 25 giorni fino a quando gli occupanti ottennero la concessione di 1300 moggi di terra distribuita nel territorio provinciale”. Questi 25 giorni di lotte sono descritti in tutta la loro determinazione, sottolineando altresì la sofferenza, da parte di Corrado Graziadei, soprattutto nei primi giorni di occupazione delle terre. Il 22 novembre lo stesso Graziadei, con altri attivisti, guida 2000 braccianti ad occupare 5 tenute dell’agro di Carinola. La serata del 22 i carabinieri fecero sgombrare i terreni occupati, ma in seguito alle tempestive riunioni tenute nella Camera del Lavoro di Sparanise da Antonio Romeo e in quella di Sant’Andrea del Pizzone da Michele Zona, i manifestanti trovano il coraggio di occupare altre tenute con i primi inevitabili arresti da parte dei carabinieri, tra cui il primo sarà proprio Graziadei. Occupazioni e arresti si fermano nei giorni successivi nella zona di Capua, a Brezza. Ormai è un evento che contagia l’intera provincia casertana da Recale a Casagiove, da Curti a San Prisco, da Santa Maria a san Tammaro, a Sessa Aurunca, Vitulazio, Lusciano. Ogni giorno si registrano nuove occupazioni di terra a Pietramelara, a Baia e Latina. Ricorda Mario Pignataro che in quei giorni venivano distribuiti dei giornalini ciclostilati che aggiornavano i contadini sull’andamento delle occupazioni. Scrive Giuseppe Capobianco nel testo “La questione meridionale”: Ogni giorno si formavano sette colonne di lavoratori dal Casertano che puntavano sul Demanio di Calvi dove confluiva un’altra colonna proveniente da Sparanise-Calvi-Sant’Andrea del Pizzone; due colonne si formavano nella zona aversana ed occupavano le terre a sud del Volturno, mentre quelle della frazione di Carinola, casale di Nocelleto e Falciano, occupavano le terre a sud del Volturno. Le popolazioni della zona aversana occupavano le terre a sud del Volturno, mentre quelle delle frazioni di Carinola invadevano le terre a nord del Volturno. Nella piana del Sessano gli occupanti provenivano da tre diversi punti in cui confluivano Carano, Cellole, Fasani, le frazioni delle Torraglie”.
Un popolo di contadini che si muovono guidati da uomini in cui credevano, credibili negli anni fino ad ottenere una legge molto importante: la Legge Stralcio del 1950 che conteneva norme per l’espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini e prevedeva l’esproprio di una quota di possesso superiore ai 750 ettari per i comuni di Cancello e Arnone, Capua, Castel Volturno, Grazzanise, S. Maria La Fossa, Villa Literno, Vitulazio, Carinola, Francolise, Mondragone e Sessa Aurunca. Nel 1953 Graziadei fu eletto deputato del Pci e il suo impegno politico fu tutto dedicato ad una politica sociale per il miglioramento delle condizioni di lavoro dei ferrovieri, facendo parte della Commissione Trasporti. Il suo discorso alla Camera dei Deputati del 26 ottobre 1953 rappresenta uno dei più appassionati interventi, che risente di tutta una concezione ben precisa e mirata della funzione sociale dei trasporti. La realtà lavorativa dei ferrovieri era ben conosciuta da Graziadei, che come lui ricorda erano stati uno dei presidi della libertà nell’agosto del 1922 e di cui si sentiva onorato di averne fatto parte. L’intervento di Graziadei alla Camera quel 26 ottobre del 1953, è diretto a denunciare le forme di sfruttamento a cui l’Amministrazione Ferroviaria ricorreva da sempre: “È infame, più che ingiusto attendere che questi vecchi muoiano prima che si veda corrisposto quanto è loro sacrosanto dovuto. Si faccia quindi giustizia a questi vecchi lavoratori dei trasporti”. Vogliamo rimarcare che Graziadei non ne fa solo un giusto interesse di categoria, dato che di questo si occupa alla Camera dei Deputati, ma estende la sua forte richiesta di giustizia sociale alle varie collettività che vivono situazioni di sfruttamento. “Funzione sociale – dice Graziadei – significa sensibilità verso gli interessi di una estesa collettività… una mano che si porge a chi ha più bisogno”.
Graziadei denuncia la mancanza di personale che costringe i ferrovieri a pesanti turni, alla mancata concessione di ferie e all’essere impiegati in mansioni di carattere superiore senza avere un riconoscimento economico dignitoso. Il 30 marzo del 1953 le proteste dei ferrovieri e gli scioperi portano ad una “punizione con dieci, venti fino ad arrivare a trenta giorni di sospensione dal lavoro, a seconda della presunta gravità dei casi segnalati dall’Amministrazione Ferroviaria”. Graziadei continua a denunciare abusi, con forme di vero e proprio sfruttamento, termine più ricorrente nei suoi interventi. Nel suo ultimo discorso alla Camera dei Deputati del 1956 si parla ancora di “sfruttamento del personale nelle Ferrovie dello Stato, già denunciati negli anni precedenti con turni di lavoro superiori alle 48 ore settimanali, centinaia di migliaia di giornate di ferie, che vengono negate a dispetto delle norme della Costituzione”.
Tuttavia il discorso di Graziadei, che rimase per tanto tempo impresso nelle menti e nei cuori di tutti i lavoratori, anche per la liricità di alcuni passi, fu quello del 12 novembre 1954 a favore dei dipendenti statali nel corso del quale si esplicita: “Desidero ricordarvi che quando parlate di futuri miglioramenti vi è una categoria di interessati per i quali il futuro è, per legge di vita, soltanto una possibilità che col tempo si allontana inesorabilmente, sempre di più… Non è che non lo sia per tutti, ma per i pensionati ogni mese, ogni giorno, ogni ora che fugge, più si avvicinano le ore del tramonto. E per migliaia e migliaia, il miraggio di una vecchiaia meno triste, meno penosa, con minore sofferenza e minore miseria, è svanito in una delusione che non ha possibilità di compenso”.
Anche nel suo impegno politico di deputato Graziadei tenne fede alla sua coerente visione di vita di stare sempre con i più umili e con quelli che soffrivano condizioni sociali inaccettabili e a dir poco ingiuste. Egli continuò la sua lotta per l’emancipazione delle classi subalterne fino alla morte, avvenuta il 13 luglio 1960. Fu proprio Giorgio Napolitano a ricordare il militante, il partigiano, il politico, il leader delle lotte contadine alla Camera dei Deputati nella seduta pomeridiana del 14 luglio 1960 con le seguenti parole: “Signor Presidente, è deceduto ieri sera a Roma Corrado Graziadei, già consultore nazionale e deputato al Parlamento per la seconda legislatura. Con lui scompare un vecchio, fedele e ardente combattente della causa della libertà e del socialismo. Al movimento socialista Graziadei aderì, infatti, giovanissimo nel lontano 1917 e ne fu per lunghi decenni instancabile e appassionato pioniere, in una provincia che, per le condizioni di pesante arretratezza sociale e politica, opponeva allora le più gravi difficoltà alla penetrazione dell’idea e dell’organizzazione socialista”.
Graziadei entrò a far parte del Partito Comunista Italiano fin dalla sua formazione nel 1921, proprio perché convinto assertore della causa dell’emancipazione del lavoro, della democrazia e del progresso; e proprio perché comunista, fu per vent’anni un tenace combattente dell’antifascismo, affrontando carcere e confino. Fu fiero e animoso esponente della Resistenza. Uomo di sommo disinteresse e probità nella vita politica e in quella professionale, Graziadei seppe guadagnarsi, anche al di là della cerchia del suo partito e del movimento operaio, universale stima e rispetto. E aggiunge: “Noi siamo certi che, nel cordoglio per la sua scomparsa e nella commossa solidarietà con la sua famiglia, vorranno associarsi al nostro gruppo, al nostro partito che lo ebbe fedele e combattivo militante per quasi quarant’anni, tutti i settori della Camera e tutto il Parlamento”. Parole mirate ed incisive quelle di Giorgio Napolitano a memoria di un uomo, che in una memorabile lettera aveva scritto al figlio Libero: “Nella vita cerca di stare sempre con i più umili e con quelli che soffrono: sarà poco utile ma in quella poesia troverai la più alta ricompensa e ti sentirai ricco per sempre”.
Gori Lombardi
La sezione comunista di Sessa Aurunca venne ricostruita il 19 febbraio 1944 da Gori Lombardi, insieme con altri militanti comunisti che avevano combattuto clandestinamente nella zona sessana, come Corrado Graziadei e Benedetto D’Innocenzo avevano fatto nell’agro caleno, così come il professore Alberto Iannone e i compagni di Capua, Antonio Marasco fu fondatore del movimento operaio a Piedimonte Matese e Leopoldo Cappabianca a Santa Maria Capua Vetere. Nella riunione del 19 febbraio, Gori Lombardi fu eletto all’unanimità segretario della sezione comunista di Sessa Aurunca e partecipò alla svolta di Salerno, diventando altresì delegato al primo congresso della federazione comunista campana del 27 febbraio 1944. Sotto la sua guida la sezione del Pci di Sessa raggiunse, dopo un anno, 252 iscritti dai diciotto che ne aveva quando era stato eletto segretario. Egli ebbe un ruolo importante nella costruzione e nel funzionamento del Comitato di Liberazione Nazionale in Terra di Lavoro. Partecipò, insieme a Corrado Graziadei, alle lotte contadine, organizzando marce per l’occupazione delle terre incolte di Carinola. Insieme con Graziadei si occupò della questione agraria. “Per tale sensibilità e capacità – scrive Giuseppe Capobianco – venne chiamato, dopo il 2 giugno 1946, a dirigere la sezione agraria della Federazione di Caserta”. Infatti Gori Lombardi è l’uomo nel quale la Federazione pone fiducia e lui non delude le attese. Nel suo intervento nel giorno dell’incarico, tiene un discorso in cui esplicita che “per la richiesta di terre incolte è necessario precisare il luogo ove esistono, se sono veramente incolte, quali sono i confini, il moggiatico”. Come si vede il suo fu un approccio pragmatico alla questione del latifondo. Oltre alle grandi lotte contadine, non disdegnò l’impegno politico nel partito con la volontà di svolgere un ruolo di dirigente, e in questo sogno era sostenuto da Corrado Graziadei e da Enzo Raucci. Come evidenzia Adolfo Villani, era il periodo in cui “i dirigenti del Pci erano convinti che solo affrontando il tema della riforma agraria, del rapporto tra agricoltura e industria, solo considerando centrale il ruolo dei contadini meridionali nella rivoluzione italiana, si potevano davvero superare gli equilibri politici, economici e sociali su cui si era retto il regime fascista”. Dopo tale impegno e militanza, Gori Lombardi, che era nato a Sessa Aurunca l’8 luglio 1916, riuscì ad entrare in consiglio provinciale nel 1964, tentando senza successo di diventare parlamentare della Repubblica come Corrado Graziadei nel cui collegio fu candidato nel 1958 e nel 1963. Poteva ancora dare un contributo rilevante all’emancipazione delle lavoratrici, ma mancò a soli 49 anni il 23 marzo 1966.
Michele Izzo
Giuseppe Capobianco, nel ricordare Michele Izzo di Carano di Sessa, usa parole che tendono al lirismo al fine di comunicare quanto questo uomo, semplice lavoratore, abbia inteso dedicare la sua vita al riscatto delle classi subalterne di Terra di Lavoro, profondendo il suo costante impegno nel territorio sessano già dal 1920. Izzo seppe far intendere agli “intellettuali per vocazione” che non bisognava cullarsi su un passato di lotta alla resistenza e vivere di rendita su di esso. Per lui anche la lotta resistenziale era stata un grande momento di sofferenza, ma essa costituiva il preludio per le grandi lotte contadine, già iniziate nel 1920, da intraprendere dopo gli anni del fascismo ancora con maggiore vigore, spirito di sacrificio ed abnegazione “per intaccare nelle campagne i rapporti di proprietà e di produzione e conquistare così una nuova coscienza e una maggiore autonomia delle masse contadine”.
Pertanto Izzo, insieme ai compagni Giovanni Gentile e Vincenzo Girone di Cellole, a Coronato Sessa di Piedimonte di Sessa, operò fattivamente per una scelta decisa e determinata, una scelta di vita per il riscatto delle classi subalterne negli anni delle prime lotte contadine del 1920 e delle grandi lotte del 1949. Le parole di Giuseppe Capobianco non lasciano adito ad alcun dubbio o interpretazione: “Essi non furono i depositari di una storia del passato, di una resistenza tenace alla dittatura, ma gli animatori di una storia vivente combattuta con lo stesso slancio e la stessa passione di quelle condotte negli anni della loro giovinezza”. Furono amati dai contadini del territorio sessano i quali saranno sempre grati di essere stati vicini a loro, guidandoli nelle battaglie per la riforma agraria e le occupazioni delle terre. Nel proseguire il suo omaggio a Michele Izzo e ai suoi compagni Capobianco esplicita: “Il loro merito sta nel fatto che essi non si chiusero in un aristocratico isolamento, ma continuarono con grande modestia e passione il loro impegno di combattenti, il loro insegnamento”.
Capobianco considerava Michele Izzo e gli altri compagni dei “maestri”, quelli che furono i pionieri già nel 1920, i grandi “iniziatori, le avanguardie del movimento operaio e contadino in Terra di Lavoro”. Infatti nel 1920 la sezione socialista di Sessa Aurunca aveva già la forza di 26 iscritti, un anno in cui ebbero inizio le prime lotte per la terra nei territori di Carano di Sessa, Cellole e Piedimonte, con l’occupazione di ben 1200 moggi di terre demaniali. Anche l’anno successivo, precisamente nell’estate del 1921, il territorio interessato alla lotta contadina per la terra è quello di Cellole e del territorio sessano. È l’Ordine Nuovo del 3 luglio che riporta: “I contadini del piano di Sessa sono in agitazione. Essi hanno rifiutato di pagare al Comune un canone che si vuole loro imporre per il possesso delle quote delle terre demaniali. Intanto il movimento si era già precedentemente organizzato con strumenti nuovi, quali le cooperative e il 17 febbraio 1921 la cooperativa di Carinola, La Massicana, aveva ottenuto una concessione di 360 moggi della Tenuta di Torre Vecchia, mentre solo l’11 marzo dell’anno successivo la cooperativa di Sessa Aurunca Agostino Nifo riceverà dal Ministero dell’Agricoltura l’assegnazione di 350 moggi della tenuta San Vito, pur dovendo subire il parere contrario della prefettura di Caserta”.
Capobianco dedica parole di grande affetto e riconoscimento a Michele Izzo, in quanto egli stesso, da giovanissimo, fu guidato da lui e dagli altri compagni. Esse sono piene di un’immensa gratitudine in quanto il muratore lasciò la sua famiglia e i suoi affetti per dedicarsi ai suoi amati contadini. Riguardo alla stagione di lotte del 1949 di cui da giovane lui stesso fu protagonista, Capobianco rimarca come il grande successo di quell’anno fu dovuto ad uomini credibili, uomini in cui i contadini riponevano fiducia per la coerenza e l’ alto senso dell’empatia per la loro causa e così avvenne che “ogni giorno si formavano sette colonne di lavoratori: dal Casertano che puntava sul Demanio di Calvi dove confluiva un’altra colonna proveniente da Sparanise-Calvi-S’Andrea del Pizzone; due colonne si formavano nella zona aversana ed occupavano le terre a sud del Volturno, mentre quelle della frazione di Carinola, casale di Nocelleto e Falciano, occupavano le terre a sud del Volturno. Le popolazioni della zona aversana occupavano le terre a sud del Volturno, mentre quelle delle frazioni di Carinola invadevano le terre a nord del Volturno. Nella piana del Sessano gli occupanti provenivano da tre diversi punti in cui confluivano Carano, Cellole, Fasani, le frazioni delle Torraglie”. Era un popolo di contadini che si muoveva guidato da uomini in cui credevano, credibili negli anni fino ad ottenere una legge molto importante: la legge stralcio del 1950 che conteneva norme per l’espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini e prevedeva l’esproprio di una quota di possesso superiore ai 750 ettari per i comuni di Cancello e Arnone, Capua, Castel Volturno, Grazzanise, S. Maria La Fossa, Villa Literno, Vitulazio, Carinola, Francolise, Mondragone e Sessa Aurunca. Agli inizi del Novecento una cittadina di Terra di Lavoro dove erano giunte le idee emancipatrici del socialismo fu Piedimonte Matese.
E dato che le idee camminano se a rappresentarle sono uomini credibili e coerenti, tale fu Antonio Marasco. Di lui si hanno notizie frammentarie grazie alla ricerca costante e attiva di Giuseppe Capobianco che le ha rinvenute consultando l’archivio di Caserta.
Antonio Marasco
Antonio Marasco fu il fondatore nel 1919 della Camera del Lavoro di Piedimonte Matese insieme agli operai elettrici della centrale, ove lavorò fino al pensionamento. Tale Camera del Lavoro diede impulso alla sezione massimalista del Partito Socialista Italiano, la quale aderirà con la forza dei suoi 200 iscritti al Partito Comunista d’Italia, dopo la scissione di Livorno. Negli anni del Fascismo Marasco fu presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Piedimonte, mentre si organizzava il Movimento Operaio di Terra di Lavoro con segretario provinciale Corrado Graziadei, delegato alla conferenza di Capanna Mara presso Como nel 1924, anno in cui Graziadei avrà il compito di accompagnare Antonio Gramsci e di ospitarlo nella sua abitazione di Sparanise. Di Antonio Marasco abbiamo altre notizie solo nel dopoguerra, allorché si organizzeranno i primi movimenti contadini e la sezione comunista di Piedimonte Matese diventerà punto di riferimento importante per le classi subalterne. Ciò che evidenzia Giuseppe Capobianco è la bellezza di tale realtà in Piedimonte ove negli anni cinquanta “ognuno, indipendentemente dalle sue idee politiche, si recava per un consiglio, per denunciare un sopruso, per rivendicare un diritto”. “In quell’attività – prosegue Capobianco – non c’era ombra di paternalismo, ma il riconoscimento di un’autorità alternativa a quella predominante, un’autorità conquistata sul campo, con testarda coerenza”. Ed è per questo che nel territorio di Piedimonte la sinistra potrà competere con la Democrazia Cristiana e con le Destre in quegli anni, per la coerenza “testarda” degli uomini che esprimeva, uomini credibili che la gente seguiva, se rapportiamo i risultati ottenuti a quelli delle altre realtà del Casertano ove le sinistre erano decisamente e prevalentemente minoritarie.
In tale contesto Capobianco con orgoglio ci comunica il risultato delle elezioni amministrative del 1956 con la sinistra che a Piedimonte ottenne un 39,2% di consensi, riuscendo a competere quasi alla pari con la Democrazia Cristiana che raggiunse il 42,6%, mentre le Destre il 18,2%. Tale successo fu dovuto preminentemente ad Antonio Marasco, alla sua credibilità e alla sua coerenza nel guidare il Partito Comunista Italiano nel territorio di Piedimonte, uomo a cui anche gli avversari riconoscevano le sue idealità rapportandosi con lui con gran rispetto e stima.
A conferma di ciò, quando morì poco tempo dopo le elezioni, il 15 luglio 1956, all’età di 62 anni, anche la chiesa locale non fece alcuna opposizione ai funerali religiosi di Antonio Marasco, data la volontà dei familiari di “portarlo in Chiesa”. Allora vi fu l’accordo per un funerale misto, un funerale organizzato dal Partito e uno dalla chiesa per ricordare l’uomo che aveva inalberato la bandiera rossa sul Monte Cila il primo maggio 1943, avvenimento che lo stesso Capobianco definisce “clamoroso”.
Ernesto Rossi, un democratico ribelle
Nato a Caserta il 25 agosto 1897, morto a Roma il 9 febbraio 1967, politico, giornalista, antifascista e professore d’economia. Si era formato negli ambienti democratico-liberali fiorentini ed aveva partecipato da volontario alla Prima guerra mondiale, comportandosi valorosamente. Tra il 1919 il 1922, in polemica con le posizioni che i socialisti avevano verso i reduci di guerra, il giovane economista ebbe a collaborare con il mussoliniano Popolo d’Italia. Ma non gli ci volle molto tempo per ricredersi. Nel 1924 Ernesto Rossi aderì all’Unione Nazionale Democratica fondata da Giovanni Amendola e, sempre nello stesso anno, fu tra i fondatori a Firenze dell’associazione segreta L’Italia Libera e, dal gennaio all’ottobre 1925, tra i redattori del periodico antifascista Non mollare!
Per questo venne processato e costretto a riparare in Francia. Nel 1926 tornò in Italia e partecipò, vincendolo, ad un concorso statale per l’insegnamento dell’Economia. Insegna a Bergamo, ma prosegue l’attività cospirativa e nel 1929 è tra i fondatori, con Carlo Rosselli, del movimento “Giustizia e Libertà”. Arrestato sul finire del 1929 per una delazione, Rossi – con altri dirigenti di “Giustizia e Libertà” - finisce in carcere e nel 1931 il Tribunale speciale lo condanna a venti anni di reclusione. Ne sconta nove, poi viene mandato a Ventotene, dove ha modo di concorrere con i suoi compagni alla stesura del federalista Manifesto di Ventotene. Alla caduta del fascismo Ernesto Rossi raggiunse Milano, dove, il 27 agosto 1943, partecipò alla riunione di fondazione del Movimento Federalista Europeo ed entrò poi nell’Esecutivo del Partito d’Azione. Dopo l’8 settembre passò in Svizzera, dove continua l’attività resistenziale e da dove rientra a Milano nei giorni della Liberazione.
Designato membro della Consulta nazionale, Rossi venne anche chiamato a far parte del governo Parri come sottosegretario alla Ricostruzione. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, svolse prevalentemente una fittissima attività pubblicistica famosissimi i suoi articoli, raccolti nei volumi Aria fritta e I padroni del vapore, per non dire dei libri Settimo non rubare, Il malgoverno, Il manganello e l’aspersorio, Le baronie elettriche. Anche se nel 1955 fu tra i fondatori del Partito Radicale che, in origine, si chiamò Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani. Dopo la sua morte, ad Ernesto Rossi sono state intitolate una Fondazione, Circoli radicali e strade in molte città italiane. Il «democratico ribelle», come lo definisce Giuseppe Armani nel testo dedicato alla sua figura di politico ed intellettuale, ha sempre manifestato un’indole polemica e intransigente, dedito all’invettiva contro i vizi del potere, impegnato nel combattere gli interessi corporativi e clientelari dei “padroni del vapore”. Attivo nei confronti dei grandi assetti monopolistici, testimone esemplare di un pensiero laico e liberale che, inevitabilmente, si è esplicitato in un’aperta dichiarazione di anticlericalismo in nome della difesa di un mondo libero dalle costrizioni ideologiche delle gerarchie ecclesiastiche e del regime fascista con cui la chiesa non mancava d’intessere relazioni, a partire dagli anni venti.
Maria Lombardi. L’impegno politico e sociale
Come emerge dalla biografia che gli ha dedicato Silvano Franco, Maria Lombardi fu una “protagonista al femminile” nel contesto difficile di Terra di Lavoro all’indomani della prima guerra mondiale. Era dotata di una straordinaria forza che balza in primissimo piano al Congresso di Livorno del 1921, decisa a fondare anch’essa il “partito socialista nuovo”, ossia la costola comunista che darà frutti al vecchio albero, con una influenza molto importante nel futuro della storia del nostro Paese.
Fu una donna forte, molto emancipata per i suoi tempi, un vero capo. Di professione medico, e nonostante gli impegni quotidiani imposti dalla sua professione in una terra difficile, svolse una attività politica intensa, schierandosi sempre dalla parte delle classi più deboli. La questione contadina costituisce la bandiera attorno a cui si ritrovano tutti gli oppressi. La lotta per la conquista delle terre è il filo rosso che lega le speranze rivoluzionarie che segnano il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920) al movimento democratico, che nel dopoguerra si organizza nel Sud e dà vita ad epiche battaglie per dare la terra a chi la lavora.
Maria fu una donna irrequieta, una militante della sinistra che non subì le logiche degli apparati di partito contro i quali spesso si ribellava. Partecipò al congresso di Livorno da socialista ma poi seguì gli scissionisti. Da quel momento diventa in Terra di Lavoro (che allora era delle province più grandi del Paese) uno dei massimi dirigenti del Partito comunista d’Italia. Dopo la liberazione dal fascismo tornò alla politica partecipando alla costituzione del PCI. Sia nella fase socialista che poi in quella comunista, la sua azione politica è stata sempre legata all’idea di una “sinistra rivoluzionaria”. Infatti, operai e contadini costituirono sempre il centro dell’attenzione e dell’impegno di Maria Lombardi fino al declino della questione contadina negli anni ’60, non solo nella zona aurunca ma in tutto il Mezzogiorno.
Bisogna riconoscere che grande è stato il fascino esercitato dalla figura di Maria Lombardi anche sulle nuove generazioni e sulla popolazione della zona sessana, che scaturisce soprattutto dalla singolarità del personaggio e dalla sua attività svolta sempre nelle lotte a difesa dei lavoratori e delle classi meno abbienti. Dai documenti emerge la dimensione sociale del suo profilo, del suo impegno costante su tematiche e questioni di carattere storico e politico di portata nazionale. In quel periodo la zona aurunca all’interno della allora provincia di Terra di Lavoro fece registrare eventi di grande spessore economico-sociale: la lotta per la conquista delle terre del Pantano, che la vide sempre in prima file a fianco di figure storiche del movimento operaio, come C. Graziadei, Peppino Capobianco, Mario Pignataro per la diffusione dei valori e delle idee socialiste; la nascita ed organizzazione del nuovo partito comunista.
E questo è l’aspetto che colpisce di più della sua personalità, anche se va detto che si può parlare di due o più fasi della sua vita politica: fu molto “determinata” nella prima fase della sua militanza, mentre si rivelò più “docile” in quella successiva durante gli anni del regima fascista. In quegli anni la sua forza fu tale che riuscì come donna ad affermarsi come leader, diventando nel 1921 la prima segretaria della Federazione Provinciale del Partito Comunista d’Italia. Ciò avvenne in una fase storica in cui le donne non avevano ancora diritto al voto. Nello stesso tempo si rivelò anche “indisciplinata” al punto di essere espulsa dal partito alla fine dello stesso anno.
Della personalità forte di Maria Lombardi, nata a Sessa nel 1887 e scomparsa nel 1963, va rimarcata la particolare tempra, segnata da una “vis” prima civile e successivamente politica di tonalità unanime. Di certo fu profondamente difforme in assoluto rispetto al contesto borghese ed ai luoghi comuni della sua epoca, già nella coraggiosa scelta lavorativa di laurearsi in medicina, nel 1915: ed operare, lei donna, in una professione allora esclusiva del sesso maschile, da medico di base, «di condotta», come si diceva allora, fra le Toraglie, Carano e Cellole.
Fu protagonista di una lotta convinta a fianco dei bisognosi e dei meno abbienti: i braccianti del malsano «Pantano», ad esempio, contro i sontuosi padroni del latifondo. Nasceva così, spontaneamente, da una opzione sociale, la sua parabola politica, da “pasionaria”, delegata casertana per il Partito Socialista Italiano, al Congresso di Livorno del 1921. E da lì uscì fuori su posizioni ancor più radicali a fianco di Bordiga e Gramsci, come co-fondatrice del Partito Comunista d’Italia assumendo il ruolo di segretaria della Federazione di Terra di Lavoro. Per partecipare tanti anni più in là, dopo il blackout del fascismo e della Seconda Guerra, alle battaglie sindacali ed alle vicende operaie dei primi anni ’50.
Fu un personaggio affascinante, complesso ed anche scontroso, difficile da domare. Di questi avvenimenti Maria fu testimone e protagonista impegnata sia sul piano sociale, che politico e culturale, come ha ben raccontato il suo biografo Silvano Franco, il quale nella introduzione scrive: “il suo impegno a favore delle classi meno abbienti (braccianti, contadini, operai e la massa di senza lavoro) non conobbe alcuna limitazione di sorta, sempre convinta che esso andava manifestato in maniera concreta e tangibile. Nell’attuazione delle sue idee e dei suoi principi fu determinata, dimostrando una forte personalità, ma nel contempo incontrollabile, poco incline ad accettare imposizioni, da qualsiasi parte esse venissero”.
Alberto Iannone
Dopo circa trent’anni di impegno a favore delle classi subalterne, anni vissuti con la coerenza dei grandi uomini che sanno ove è presente la sofferenza e il dolore di chi subisce condizioni ingiuste ed inique, il professore Alberto Iannone di Capua, a soli quarantasei anni, rimase vittima il 5 gennaio 1945, con altri cinque operai del Pirotecnico, del crollo del solaio del collocamento, sito in Corso Appio a Capua, ove lavorava e che aveva subìto danni rilevanti dal bombardamento e dalle infiltrazioni di acqua piovana. Iannone lasciava l’inseparabile compagna Margherita Troili, ed inoltre un vuoto nel Partito Comunista, nella sua città e nell’intera provincia di Terra di Lavoro. Il professore Iannone, dopo il rifiuto di prendere la tessera del Partito Nazionale Fascista, era stato isolato e gli era stato precluso l’ingresso nel mondo della scuola quale insegnante e la cancellazione dall’albo dei pubblicisti. Fu con le lezioni private che Iannone si procurò da vivere per sé e per la sua famiglia. “Tuttavia – come scrive Adolfo Villani – con le sue lezioni private, l’unico lavoro che gli era consentito, aveva saputo tenere vive le idee di libertà e di democrazia. La sua scuola era stata un grande crogiolo di antifascismo, di umanesimo, di socialismo, un luogo privilegiato di formazione di una parte importante della classe dirigente del dopoguerra di Terra di Lavoro”.
Egli proveniva da una famiglia di grandi ideali risorgimentali in quanto il nonno Alberto Bellentani fu, insieme a Salvatore Pizzi, originario di Procida e protagonista delle grandi conquiste civili del Risorgimento con l’innovativa esperienza della Normale Femminile di Capua, che fu luogo di incontro delle migliori, seppur diverse, scuole di pensiero della stagione risorgimentale. Quindi Iannone, anche in tempi di oscurantismo e di oppressione delle classi subalterne di Terra di Lavoro, seppe tenere alti gli ideali di libertà, di giustizia sociale, di riscatto per gli operai e i contadini di Terra di Lavoro.
Il suo nome è noto anche per la stampa clandestina dell’unico giornale diffuso in tutto il Mezzogiorno da un gruppo di compagni. Il giornale “Il Proletario” fu, infatti, il primo stampato clandestinamente nel Mezzogiorno d’Italia negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, dal 1942 all’agosto del 1943. Fu fondato da Aniello Tucci, ferroviere di Afragola e a Michele Semeraro, giovane universitario di Taranto che prestava il servizio militare a Capua. Tra i primi collaboratori de “Il Proletario” furono Alberto Iannone e Corrado Graziadei di Sparanise, il quale entrato nella redazione ne promosse la diffusione nell’Agro Caleno, nel Matese e nella zona di Cassino insieme a Benedetto D’Innocenzo. La sua diffusione, oltre che in Campania, fu promossa anche Calabria e Puglia grazie all’attivismo dei ferrovieri che riuscivano a divulgarlo con prudenza e coraggio.
Nella testimonianza di Aniello Tucci, Iannone è indicato quale socialista. In effetti, pur provenendo dal Pcd’I, dopo la costituzione del Comitato di Liberazione di Capua, a lui fu chiesto di entrare come socialista. In precedenza era stato protagonista delle lotte per la libertà e per la resistenza che andavano di pari passo con la militanza politica, che ebbe inizio nei primi anni giovanili, allorché da educatore aveva rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista.
Inoltre, fu un grande protagonista degli ideali resistenziali e politici per l’emancipazione delle classi subalterne, facendo riferimento alla stagione risorgimentale. La sua azione politica e sociale fu in collegamento con Corrado Graziadei di Sparanise, con Benedetto D’Innocenzo, con Gori Lombardi di Sessa Aurunca, con Antonio Marasco di Piedimonte Matese e con altri militanti comunisti e socialisti che, durante il periodo fascista, tennero vivi gli ideali di libertà, di democrazia e di giustizia sociale.
Tali ideali saranno raccolti e rilanciati dai suoi “ragazzi”, coloro che, dopo la sua prematura e tragica morte, raccolsero la sua eredità culturale e politica e parteciperanno al processo di ricostruzione della democrazia e del paese. Tra questi vi furono tre futuri parlamentari della Repubblica: Enzo Raucci, deputato dal 1960 al 1976; Antonio Bellocchio, prima consigliere regionale e deputato dal 1976 al 1992; Pompeo Rendina, senatore dal 1963 al 1968. Tali uomini daranno vita alla rinascita democratica di Terra di Lavoro – con la ricostituzione della Provincia, soppressa nel 1926, con la costruzione del Partito Comunista e della CGIL. Saranno, inoltre, i protagonisti del movimento di lotte contadine per la conquista delle terre nell’ immediato dopoguerra, poi sfociate in quelle operaie intorno ai poli industriali e dell’elettronica civile che segnarono il tentativo di una fase di modernizzazione per l’intera provincia di Caserta.
Margherita Troili
Per molti anni la Resistenza è stata considerata come una storia che ha riguardato solo il centro-nord del nostro paese. Sono stati ignorati tanti fatti di violenza e di sangue avvenuti nella nostra regione, in particolare in Terra di Lavoro. Negli ultimi anni alcuni studi e ricerche storiche hanno fatto piena luce e hanno ridato dignità a tanti protagonisti (donne e uomini) delle lotte antifasciste. In particolare ci aiutano gli studi, i documenti e le testimonianze raccolti da Corrado Graziadei, da Paolo Mesolella nel suo saggio sulla resistenza, le ferrovie e le lotte contadine in Terra di Lavoro, nonché da Peppino Capobianco nel suo volume “La memoria tradita”). Di recente lo hanno fatto anche lo storico Giovanni Cerchia e il prof. Felicio Corvese (insieme con Guido D’Agostino dell’Istituto Campano della Resistenza).
Tra le figure più significative va ricordata Margherita Troili, che in un suo libro di memorie “Una donna racconta” (pubblicato nel 1987, ora difficilmente reperibile) ci ha fatto rivivere la sua storia di lotta e di emancipazione democratica, che va conosciuta e raccontata, soprattutto alle nuove generazioni. Infatti dalla sua narrazione emerge un quadro molto vivo ed impegnato dei vari gruppi antifascisti attivi sul nostro territorio, con particolare riferimento a quelli capuani intorno a figure emblematiche come Alberto Iannone ed “Il Proletario” fondato a Capua nel 1942 nel Pirotecnico, che come ha sottolineato Franco Pezone nel suo opuscolo “Un giornale fuorilegge” in quel periodo fu “il solo giornale di opposizione di tutta l’Italia meridionale”. Di queste vicende si dà conto anche in un altro saggio curato da Adolfo Villani “I ragazzi del professore. Il filo rosso delle lotte per la democrazia in Terra di lavoro e nel Mezzogiorno”.
Il 25 novembre 2020 il comune di Capua ha conferito un premio intitolato alla Prof.ssa Margherita Troili. Nell’ambito della settimana che dal 23 al 30 novembre celebra la Giornata Internazionale dell’eliminazione della violenza contro le donne, l’assessorato alle politiche sociali del Comune di Capua ha promosso la prima edizione del Premio “Margherita Troili – una Donna per le Donne”, presso il cinema teatro Ricciardi. L’evento ha avuto inizio con il conferimento del premio a una donna che si è distinta tra le altre per il suo profilo professionale, umano, per l’impegno sociale, di rilevanza nazionale e internazionale. A consegnare il premio sono state Mariateresa Iannone e Giovanna Galeone, figlie della prof.ssa Margherita Troili, politica del PCI di Capua, partigiana antifascista e presidentessa dell’UDI distintasi per l’impegno politico come militante di sinistra e per la difesa dei diritti delle donne. A seguire vi è stata la proiezione del film L’affido per la regia di Xavier Legrand, vincitore del Leone d’oro per la regia e del Leone del futuro – Premio opera prima “Luigi De Laurentiis”, alla74esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Per il 76esimo anniversario della Liberazione, la Cgil di Caserta, aderendo all’iniziativa “Strade di Liberazione” lanciata da ANPI Nazionale, domenica 25-04-2021 a Capua è stata ricordata la figura di Margherita Troili, nella piazza a lei dedicata nella città di Capua. Partigiana, antifascista, insegnante e dirigente politica e dell’Unione Donne Italiane, Troili è stata in prima fila per le lotte per i diritti e per la rinascita democratica della sua città, della Provincia di Caserta e della Campania. “Margherita Troili è stata ricordata nella piazzale davanti la stazione a lei dedicato a Capua - dichiara la segreteria della Cgil di Caserta - e con lei tutte le donne e gli uomini che si sono battuti per la libertà e contro il regime fascista.” Ricordare Troili, inoltre, ci consente di sottolineare anche l’impegno troppo spesso sottovalutato delle donne protagoniste durante i difficili anni della lotta partigiana e il loro contributo alla liberazione del nostro Paese.
Il 25 aprile non è solo una data per ricordare il passato e la grande lotta che ha consentito al paese di rifondarsi su basi democratiche e di libertà. Il 25 Aprile è anche l’occasione per rinnovare l’impegno di noi tutti come antifascisti e antifasciste, contro qualsiasi tentativo di revisionismo e negazionismo degli enormi crimini, delle persecuzioni politiche e razziali, stragi, deportazioni, perpetuati dal fascismo e dal nazismo nel nostro Paese e per la difesa della Costituzione nata dal sacrificio di migliaia di uomini e donne in difesa della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza e dei diritti”.
Sono proprio i temi dell’eguaglianza, della coesione sociale e dei diritti per tutte e tutti alla base della nostra Costituzione antifascista - conclude Matteo Coppola, Segretario Generale della Camera del Lavoro di Caserta. Quell’eguaglianza negata alle migliaia di giovani migranti nati o cresciuti nel nostro paese a cui oggi è negata la cittadinanza e i diritti ad essa connessa. Giovani e giovanissimi che hanno conosciuto solo il nostro Paese, che si sentono italiani ma che non lo sono di fronte alla legge. Per rilanciare quella che è ormai una necessaria battaglia di civiltà, per la dignità e per la riaffermazione dell’integrazione, dell’unità e della solidarietà daremo vita - proprio il 25 aprile - ad una tavola rotonda online sullo Ius Soli promossa insieme al Comitato Provinciale ANPI di Caserta e in diretta streaming sulle nostre pagine Facebook”. Nella storia dell’antifascismo e della Resistenza non sempre trovano il giusto rilievo i protagonisti del Sud, in particolare alcune donne che vanno ricordate per il loro ruolo politico e sociale. Questo dato emerge con chiarezza dalla fondamentale ricerca di Giuseppe Capobianco – “Il recupero della memoria”, ESI – che mette in evidenza il contributo di sangue e di lotta offerto dalle donne nella resistenza al nazifascismo, con decine di presenze nelle liste delle persone confinate e perseguitate in Terra di Lavoro. Ancora più numeroso risulta il contributo di sangue di donne trucidate nelle stragi (in particolare a Caiazzo, a Sparanise): circa 80 casalinghe vittime. Nella storia politica e sociale di Terra di Lavoro in primo luogo spicca la figura di Maria Lombardi, medico di Sessa Aurunca, nel 1921 fu con Gramsci e Bordiga a Livorno quando nacque il PCdI dalla scissione del PSI. Venne eletta prima segretaria della Federazione di Terra di Lavoro, in un periodo in cui le donne non avevano nemmeno il diritto di voto. Nel 1952 venne eletta consigliere comunale del PSI a Sessa Aurunca, svolgendo una intensa attività politica sui temi di carattere locale e internazionale, in primo luogo per le battaglie sull’emancipazione femminile. Ora ci preme sottolineare la figura di Margherita Troili, nata a Capua nel 1913, che fu dirigente del PCI a Napoli e Caserta, partigiana, di professione insegnante nelle scuole secondarie. Subito dopo la liberazione si dedicò ad organizzare la sede dell’UDI (Unione Donne Italiane) e venne nominata responsabile della commissione Femminile del PCI, diretto da Corrado Graziadei. Fu anche delegata al V congresso Nazionale del PCI.
Per ricostruire la sua autobiografia ci aiuta il volume da lei scritto “Una donna ricorda” edito da Il Ventaglio nel 1987, con una presentazione di Lidia Menapace. Con parole semplici ed appassionate racconta la sua storia, la sua intensa vita di partigiana e di militante politica di sinistra, in prima fila nelle lotte per la rinascita democratica nella sua città ma anche a livello provinciale e campano. Fra le attività principali di Margherita va ricordato l’impegno nella diffusione de "Il Proletario", che fu l'unico giornale clandestino della Resistenza al sud, stampato a Capua tra la primavera del 1942 e l'agosto 1943, fondato da Aniello Tucci e Michele Semeraro, veniva distribuito in tutta la Campania. "Il Proletario" è anche la storia dei GP (Gruppi Proletari), le formazioni partigiane che organizzarono la resistenza contro i nazifascisti in Terra di Lavoro nell'autunno del 1943. Una storia dimenticata, ricostruita a partire dal lavoro di Franco Pezone, in un libro che contiene documenti inediti recuperati dall'archivio della famiglia Garofano Venosta. La sua figura è stata ricordata da altri studiosi della resistenza in Terra di Lavoro, come Peppino Capobianco, Giovanni Cerchia ed Adolfo Villani in un libro di memorie “I ragazzi del professore”.
Insieme con il marito Alberto Iannone aveva animato gli ambienti antifascisti clandestini di Terra di Lavoro, il cui territorio era stato in gran parte ricompreso nella provincia di Napoli, dopo la soppressione della provincia di Caserta operata dal fascismo nel 1927 (vedi Giuseppe Capobianco, Fascismo e modernizzazione. La scomparsa di Terra di Lavoro nel 1927, Centro studi «Corrado Graziadei», 1991). Al suo fianco aveva attraversato il drammatico autunno di lotta partigiana, vissuto da protagonista in azioni di sabotaggio e nell’uccisione di un soldato tedesco. Sempre si era lasciata guidare da lui. Era molto legata agli impegni pubblici e politici del marito Alberto Iannone, ma sentiva fortemente la responsabilità che le è stata assegnata di coordinare i circoli dell’Unione donne italiane (Udi) nella zona, che le imponeva di imparare a fare da sola, di decidere in piena autonomia.

 

Gli anni giovanili a Capua
Vincenzo Galeone, Enzo Ligas, Sandro Ammirato, Giancarlo Laperuta
I protagonisti capuani del movimento operaio e democratico

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Capua
Il libro curato da Paola Broccoli “Quegli istanti a ridosso del futuro” – Edito da L’Arca e l’Arco (con prefazione di Roberto Saviano, testi di Felicio Corvese ed Andrea Sparaco) – offre un importante contributo di ricerca storica e di documentazione fotografica su un periodo cruciale della vita politica e democratica di Terra di lavoro. È con emozione che si possono scorrere le pagine del libro e ripercorrere tanti momenti salienti delle lotte operaie e sindacali (dal secondo dopoguerra fino agli anni ’80) per riaffermare i valori della vita democratica, nuove condizioni di partecipazione consapevole alla vita politica, sociale ed istituzionale in tante occasioni del dopoguerra.
L’interesse del volume si arricchisce per la sua visione “policentrica”: non si ferma a registrare i momenti salienti nella città capoluogo, ma ripropone alla nostra memoria tante iniziative e manifestazioni in varie città della nostra provincia. È bello ed intensamente emotivo vedere scorrere tanti protagonisti (oggi scomparsi) delle manifestazioni contadine della fine degli anni ‘40 per la conquista delle terre incolte; delle lotte operaie e giovanili della fine degli anni ’60 fino al boom industriale, che caratterizzò Terra di Lavoro come uno dei poli manifatturieri ed elettronici più importanti d’Italia.
La presentazione che si tenne venerdì 16 dicembre a Capua nella sala della Libreria Guida di Palazzo Lanza fu un’occasione per ricordare i tanti protagonisti del movimento operaio e di sinistra. La vivacità cultura e politica di queste figure si contrappone alla fase attuale in cui le forze democratiche sono lacerate da fratture interne, che hanno portato alla perdita del ricco patrimonio costruito nei decenni scorsi. Oggi la rappresentanza della sinistra nel consiglio comunale è ridotta ai mini storici. E pensare che in diverse occasioni la sinistra è stata al governo della città sul Volturno, con figure prestigiose come l’avv. Pompeo Rendinar l’ing. Minieri e l’ex consigliere regionale Adolfo Villani. Ma ancora di più va ricordato il contributo offerto alla vita democratica e culturale nelle vaie fasi storiche, a partire dalle lotte antifasciste in pieno regime, come rimarca l’esperienza de “Il Proletario”, un periodico diffuso in clandestinità, con personalità rimaste indimenticate: da Aniello Tucci (ferroviere) a Margherita Troili (insegnante). Nel dopoguerra la lista delle figure da ricordare è molto ricca. Proverò a farlo (nella speranza di non dimenticarne nessuno).Mi piace partire da quegli operai e lavoratori che hanno speso una vita per dare un contributo al riscatto civile e sociale della nostra comunità: come il ferroviere Sandro Ammirato, i fratelli Mario e Pompeo Ragozzino, gli operai della Pierrel e del Pirotecnico (militanti della CGIL, come Faenza, Montagna e Monaco), il contadino Antonio Chiocchio (trapiantato nel Basso Volturno all’epoca delle bonifiche mussoliniane) insieme a Giovanni Cerasoli e Natale, i socialisti Antonio Affinito e Bruno Giordano (consigliere provinciale).
Poi spiccano le personalità che hanno ricoperto ruoli istituzionali di rilievo: come l’onorevole Enzo Raucci (uno dei massimi esperti di finanza ed economia nel parlamento italiano), l’avvocato penalista sen. Pompeo Rendina (affascinante oratore e trascinatore delle masse), Gaetano Volpe (dirigente nazionale del PCI e delle associazioni contadine). E come dimenticare alcune figure del mondo giovanile e sindacale, come Vincenzo Ligas (da poco laureato in filosofia scomparve prematuramente nel corso di una campagna elettorale che lo vide eletto nel consiglio comunale), come Giancarlo Laperuta (dirigente di spicco della CGIL a livello provinciale e nazionale). Infine, ricordiamo quelle personalità che hanno dato lustro alla vita culturale nella città, come il napoletano Vincenzo Galeone – animatore delle attività artistiche e della Cooperativa Culturale Capuanova, che fino a pochi anni fa è stato uno dei principali luoghi di animazione delle attività artistiche, culturale e della lotta per affermare la legalità democratica, con il prestigioso premio “Follaro d’Oro”.
Pasquale Iorio, Rete Etica dei Valori, Caserta, 13 dicembre 2011
Pompeo Rendina
Classe 1922, proveniva da una famiglia antifascista, con il padre che partecipò in modo attivo agli incontri culturali che si tenevano nel Museo Campano. È stato senatore della Repubblica dal 1963 al 1968, poi sindaco di Capua dal 1975-76. Antonino Pompeo Rendina è stato un protagonista di primo piano della resistenza antifascista, della ricostruzione della provincia di Caserta, delle lotte per l’emancipazione delle classi lavoratrici e della costruzione della democrazia nel Mezzogiorno e nel Paese. Avvocato autorevole del foro di Santa Maria Capua Vetere, dotato di una cultura giuridica non comune, come scrisse Giorgio Napolitano nel telegramma inviato alla famiglia in occasione della sua morte. Con Napolitano, Pompeo e la famiglia della moglie Antonietta Volpe, sono stati legati da rapporti di amicizia fin dai tempi in cui Giorgio, inviato da Amendola a dirigere la Federazione comunista di Caserta dal 1951 al 1956, si trasferì da Napoli a Santa Maria Capua Vetere, dove Pompeo si era trasferito per esercitare la sua professione. Gaetano Volpe, cognato di Pompeo, fu il successore di Napolitano alla guida della federazione del PCI. Pompeo Rendina è stato, inoltre, Senatore della Repubblica nella IV legislatura, con l’incarico di segretario della II Commissione permanente Giustizia e autorizzazioni a procedere, dal 5 luglio del 1963 al 4 giugno del 1968; poi primo Sindaco comunista della città di Capua nel 1975.Sia nell’attività professionale che nell’impegno politico Pompeo si distingueva per i suoi modi gentili – a volte persino eccessivi – che aveva ereditato dalla madre, Anna La Monaca, impegnata per passione a dare lezioni di galateo alle signore di Capua nella sua casa di via Ottavio Rinaldi, insieme alle altre due figlie Mena e Antonietta. Modi gentili che riusciva a fare convivere con un carattere ribelle che prendeva il sopravvento ogni qual volta si trovava di fronte ad una ingiustizia, ad un sopruso, a un atteggiamento di arroganza o di prevaricazione.
Pompeo nacque a Capua il 22 febbraio del 1922, nell’anno della marcia su Roma, che inaugurò il terribile ventennio fascista culminato nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Il padre aveva vinto un concorso nelle Ferrovie dello Stato come capostazione, dopo aver abbandonato gli studi in medicina a causa della morte prematura dei genitori. L’abbandono degli studi Universitari impedì a Giovanni Rendina di coltivare la sua grande passione per gli studi umanistici. Era un uomo di cultura e un antifascista convinto, legato a un gruppo di intellettuali che riuscì, nel corso del ventennio fascista, a mantenere vivo un confronto politico e culturale su una idea della politica e dello Stato diversa da quella che il regime imponeva con ogni mezzo e con un controllo autoritario e pervasivo della società. Il gruppo si ritrovava presso il Museo Campano, anche per l’interesse che i suoi membri nutrivano per la storia e la tutela dei beni culturali. Si riuniva nelle stanze di Palazzo Antignano, con il direttore del Museo Luigi Garofano Venosta, discendente di una famiglia della borghesia Capuana che aveva avuto una comunanza d’interessi professionali e di ideali rivoluzionari con Domenico Cirillo, il grande medico napoletano, incarcerato e condannato a morte dai Borbone, a causa delle sue idee illuministiche e giacobine e al ruolo di rilievo che aveva assunto nella rivoluzione partenopea del 1799. Giovanni Rendina esprimeva apertamente le sue posizioni critiche nei confronti del regime mussoliniano, suscitando spesso preoccupazioni nella famiglia, preoccupata di possibili ritorsioni sul lavoro.
Pompeo ereditò dal padre non solo l’interesse per gli studi umanistici, nei quali eccelse già da brillante studente del Liceo Classico di Santa Maria Capua Vetere, ma anche le idee socialiste, tanto da partecipare giovanissimo all’attività dei gruppi antifascisti che operavano in città ed in particolare quello che aveva come riferimento Alberto Iannone, intellettuale marxista, cui il regime mussoliniano aveva negato sia l’attività di giornalista che l’insegnamento pubblico, ma che riuscì, attraverso le sue lezioni private e soprattutto con il suo esempio, a trasmettere a molti giovani i valori socialisti, democratici e liberali, tanto che con le sue lezioni private, tenendo vive le idee che si volevano cancellare, formò una parte importante di quella che fu la classe politica e dirigente dei partiti della sinistra e del movimento operaio nella Terra di Lavoro liberata. Tra questi, oltre a Pompeo, anche Antonio Bellocchio (prima dirigente provinciale della Federterra e della federazione comunista di Caserta, poi consigliere regionale in Campania dal 1970 al 1976 e deputato della Repubblica dal 1976 al 2002) ed Enzo Raucci (prima dirigente provinciale della CGIL e poi deputato dal 1960 al 1976, infine dirigente nazionale della Confcoltivatori). Tre parlamentari della Repubblica che hanno avuto un ruolo rilievo nazionale per la loro capacità di contribuire all’attività legislativa del Parlamento in settori di rilievo come quelli della giustizia (Pompeo Rendina), delle politiche fiscali e di bilancio (Vincenzo Raucci), delle indagini parlamentari sulle stragi che hanno segnato la storia repubblicana italiana (Antonio Bellocchio).
Negli anni della seconda guerra mondiale, che lo vide partecipe da ufficiale dell’aeronautica di stanza a Bari, Pompeo fu costretto a sospendere gli studi universitari. Rientrato in città dopo l’armistizio ed il terribile bombardamento della città del 9 settembre del 1943 partecipò all’attività di gruppi di partigiani e, dopo la liberazione di Capua, avvenuta il 6 ottobre del 1943, entrò a fare parte del Comitato nazionale di liberazione cittadino, come rappresentante del PCI e poi della prima giunta municipale di Capua dopo le libere elezioni amministrative del 1946. La ripresa degli studi universitari, il conseguimento della laurea in giurisprudenza e, subito dopo, l’inizio della professione di avvocato limitò per una fase il suo impegno politico al ruolo di consigliere comunale a Capua, a differenza di Antonio Bellocchio e di Vincenzo Raucci, con i quali fu sempre legato da rapporti di profonda stima e di amicizia, che invece si dedicarono a tempo pieno prima all’attività sindacale e poi a quella di funzionari del PCI. A Capua ebbe anche una breve esperienza di assessore comunale quando nel 1946 la lista “Torre Normanna e Ponte Romano”, costituita da PCI, PSI, Partito d’azione e indipendenti, aveva conquistato la maggioranza assoluta.
Nel corso delle lotte per la terra, che segnarono gran parte degli anni dal 1944 al 1949, e poi durante gli anni Cinquanta – caratterizzati dai movimenti per il lavoro, dagli scioperi a rovescio, dalle lotte per il salario e per i patti agrari – Pompeo fece parte da avvocato dei collegi di difesa dei dirigenti politici e sindacali arrestati e processati a causa della feroce repressione scatenata dagli agrari e dai primi governi centristi. Nel 1954 fece parte insieme con Lelio Basso, a Francesco Lugnano e all’avvocato Simoncelli del collegio di difesa di Vincenzo Raucci e dei braccianti che erano stati arrestati nel corso di una manifestazione – organizzata a Casal di Principe nell’ambito di una giornata di mobilitazione nazionale indetta dalle organizzazioni sindacali, per la difesa dell’iscrizione dei braccianti negli elenchi anagrafici, il riconoscimento delle malattie professionali, l’indennità di malattia e infortunio, l’aumento degli assegni familiari, il sussidio di disoccupazione. Erano le lotte che con i loro strascico di processi e condanne consentirono ai braccianti di conquistare il sussidio di disoccupazione e ai lavoratori di affermare i primi diritti salariali e sindacali che saranno poi estesi con la stagione dell’autunno caldo del 1969.
Insomma fu quella una fase nella quale Pompeo partecipò allo scontro sociale e politico sia da dirigente della sezione del PCI sia come avvocato “militante”, difendendo quasi tutti i numerosi lavoratori, dirigenti politici e sindacali della provincia di Caserta che subirono denunce, arresti e processi. In quegli stessi anni fu anche avvocato di parte civile nel processo per l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, avvenuto a Sciara, in provincia di Palermo, il 16 maggio del 1955. Una vicenda molto nota perché raccontata nel libro “Le parole sono pietre” di Carlo Levi. Benché il fatto fosse avvenuto in Sicilia la Cassazione trasferì il processo presso la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per motivi di ordine pubblico. Salvatore Carnevale, sindacalista socialista, fu ucciso con due colpi alla testa ed uno in bocca perché si era ribellato alle minacce della mafia, prima organizzando i contadini nell’occupazione delle terre incolte e poi uno sciopero dei lavoratori in una cava dove si lavorava senza tutele per undici ore al giorno. Pompeo rappresentò nel processo la madre della vittima, Francesca Serio. Fu quello uno dei pochi delitti di mafia che in quegli anni riuscì ad arrivare fin nell’aula di un tribunale.
Le elezioni politiche del 1963 videro l’elezione di ben tre parlamentari del PCI in provincia di Caserta: la conferma di Enzo Raucci e l’elezione di Angelo Iacazzi alla Camera dei Deputati e l’elezione al Senato, nel collegio di Aversa, di Pompeo Rendina. Si trattò di una legislatura nella quale l’indirizzo costruttivo che caratterizzò l’opposizione comunista, nonostante le difficoltà nel dialogo con il governo (segnato dallo svuotamento dei propositi riformatori impresso dalla DC al centrosinistra) consentì a Pompeo Rendina di mettere al servizio del Senato della Repubblica le sue competenze sulle Le elezioni politiche del 1963 videro l’elezione di ben tre parlamentari del PCI in provincia di Caserta: la conferma di Enzo Raucci e l’elezione di Angelo Iacazzi alla Camera dei Deputati e l’elezione al Senato, nel collegio di Aversa, di Pompeo Rendina. Si trattò di una legislatura nella quale l’indirizzo costruttivo che caratterizzò l’opposizione comunista, nonostante le difficoltà nel dialogo con il governo (segnato dallo svuotamento dei propositi riformatori impresso dalla DC al centrosinistra) consentì a Pompeo Rendina di mettere al servizio del Senato della Repubblica le sue competenze sulle questioni della giustizia e di esaltare il carattere propositivo del suo approccio e della sua azione politica. È emblematico in tal senso il discorso pronunciato nella seduta del 26 novembre del 1964 sulla “Legge per la prevenzione e repressione della delinquenza organizzata” che appariva inadeguata di fronte alla gravità e alla forma moderna che il fenomeno mafioso aveva assunto in quegli anni. Basta pensare che la maggioranza di governo si opponeva persino all’uso della parola mafia che il PCI aveva proposto di inserire nel titolo e nel corpo delle della legge. Nel suo intervento Pompeo Rendina illustra concetti che oggi appaiono scontati ma che allora non lo erano affatto: “Noi diciamo che l’associazione mafiosa è un’associazione a delinquere. Ma noi non vogliamo definire il delitto di mafia, vogliamo bensì reprimere, combattere, contenere un’organizzazione reale, che è antisociale. Vogliamo dire con questa legge che chiunque appartenga alla mafia è per questo fatto colpevole di fronte alla società e passibile di misure preventive; questo è lo scopo che intendiamo raggiungere, non quello di creare il delitto di mafia, che non potrebbe essere configurato neanche dalla più ardita fantasia. Non esistono infatti che singoli delitti di rapina, di omicidio, di incendio, di strage, di associazione per delinquere. La mafia, noi diciamo, è una reale organizzazione che agisce obiettivamente contro la società e coloro i quali si schierano con la mafia, la sostengono, l’appoggiano, coloro i quali agiscono come mafiosi, sono dei soggetti a cui debbono essere applicate misure di prevenzione ai sensi della legge del 1956 modificata, per gli aspetti peculiari già indicati, dalla presente legge. Questo è lo spirito delle norme che noi stiamo esaminando: vogliamo, cioè colpire il mafioso per la sua pericolosità sociale … Noi, ripeto, abbiamo tutta la volontà di dare il nostro appoggio a questa legge, ma non potremmo farlo assolutamente se essa venisse snaturata”.
Un carattere propositivo e di alto profilo dell’opposizione che emerge anche quando nella seduta del 3 febbraio del 1965 illustra la mozione, di cui era primo firmatario Umberto Terracini, che impegnava il governo a presentare alle Camere gli elaborati in ordine alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Egli, infatti non si limitava a denunciare lo stanziamento di bilancio squallidamente inadeguato per la giustizia ma avanzava precise proposte ispirate da valori autenticamente di sinistra: “Non crediamo che la crisi della giustizia sia tutto nel cattivo funzionamento degli uffici, nell’insufficienza degli organici dei magistrati, nella pendenza pesante dei processi, nella carenza degli edifici … La crisi più profonda e reale è nella sfiducia che il cittadino medio italiano ha verso lo stato … nella sua capacità di rendere giustizia … di dar vita ad una società fatta a livello e sulla dimensione dell’uomo … una società dalla quale sia bandito lo spettacolo della corruzione e delle facili fortune, del disordine e delle spaventose disuguaglianze … bisogna prendere le mosse dalla Costituzione per eliminare tutta la legislazione che fosse incompatibile con il suo spirito e con l’ordinamento giuridico che ne scaturiva. Ma ciò non è stato fatto, e il vecchio che è rimasto, si è inserito nel nuovo con la sua forza di sopravvivenza e la sua capacità di corrosione”.
Pompeo Rendina dopo l’esperienza al Senato si era dedicato prevalentemente all’attività professionale, alla sua famiglia, ai suoi tre figli – Giovanni, Massimiliano ed Ivo – ma a metà degli anni Settanta decise di accogliere un pressante invito del partito che comportò un suo breve ritorno all’impegno politico attivo sul piano istituzionale, con la sua elezione a sindaco di Capua nel 1975. Fu quella una bella anche se parziale vittoria, tra l’altro resa amara dall’improvvisa morte di Enzo Ligas, cui Pompeo era molto legato, colpito da un aneurisma mentre era al seggio elettorale. Enzo era un giovane dirigente della sezione, proveniente da una famiglia di forte cultura conservatrice, arrivato al partito sull’onda delle lotte studentesche, e certamente quello più dotato sul piano culturale tra i tanti studenti che, all’inizio degli anni settanta, sull’onda della contestazione giovanile del 1968, si iscrissero alla federazione giovanile comunista e al PCI in Terra di Lavoro.
La proposta della candidatura di Pompeo a capolista del Pci fu avanzata dalla sezione del PCI di Capua, di cui era allora segretario Sandro Ammirato, un ferroviere proveniente da una famiglia di comunisti fin dai tempi della clandestinità. Serviva una candidatura in grado di rispondere all’esigenza – nata dal fallimento dell’amministrazione guidata dal 1970 dall’onorevole Manfredi Bosco, figlio dell’ex ministro Giacinto Bosco – di dare credibilità alla proposta di un’alternativa di governo alla democrazia Cristiana. La speranza che il figlio del ministro Giacinto Bosco, che aveva gestito la fase dell’industrializzazione dell’area casertana, riuscisse a riempire di industrie i due nuclei Asi di Capua Nord e Capua Sud, era clamorosamente svanita con la chiusura, dopo solo due anni di attività, dell’Italcolor, l’unica fabbrica arrivata in città nel corso della gestione amministrativa del sindaco Manfredi Bosco.
Il Pci contrappose alla proposta democristiana di proseguire un modello di industrializzazione del quale – come dimostrò il processo di deindustrializzazione degli anni successivi – erano venute meno le condizioni, un progetto politico e programmatico innovativo, anticipatore dell’idea, che si sarebbe affermata più avanti, di uno sviluppo integrato, capace di rivalutare le vocazioni e le risorse del territorio. Uno sviluppo che doveva far leva innanzitutto sulla valorizzazione dello straordinario patrimonio storico e culturale di Capua, da riusare non solo in rapporto alle potenzialità turistiche, ma anche in funzione della promozione delle risorse produttive della zona del basso e del medio Volturno, nella quale spiccava la presenza delle partecipazioni statali – con aziende zootecniche e industrie di trasformazione –, dell’imprenditoria locale legata alla filiera della mozzarella di bufala, dell’ortofrutta, della media impresa industriale, che si era sviluppata nel polo industriale del Volturno nord. Un centro, insomma, finalmente in proiettato sull’obiettivo di ritrovare le funzioni proprie di una città. Un progetto – nato da una discussione molto impegnata e molto vivace che si era sviluppata in quegli anni nella sezione, rinnovata da una forte adesione di giovani e di operai – su cui si ritrovarono anche Psi e Psdi, cui la figura di Pompeo Rendina conferiva un forte connotato di credibilità. La Dc perse la maggioranza assoluta e ciò consentì alla sinistra di dar vita ad un’amministrazione minoritaria che si reggeva sull’astensione del gruppo della Dc. Fu un’esperienza breve, che durò solo quattordici mesi. Nonostante una situazione finanziaria gravissima, che richiedeva sforzi notevoli anche per il solo pagamento degli stipendi ai dipendenti comunali, l’amministrazione Rendina riuscì ad impostare un buon lavoro. Per la prima volta si mise mano ad un piano di recupero del centro storico fondato sul concetto nuovo della valorizzazione dei beni culturali e architettonici; alla riorganizzazione degli uffici e dei servizi; alla municipalizzazione del servizio della nettezza urbana; ad un piano di risanamento della periferia e delle scuole. Si trattava di un lavoro che fu concretamente avviato ma che richiedeva tempi medio lunghi. La Dc seppe approfittare della difficile situazione della finanza locale per logorare l’amministrazione e passare dall’astensione all’opposizione al momento opportuno.
Nelle elezioni amministrative anticipate del giugno del 1977, nonostante una significativa avanzata in seggi e voti del Pci, la spaccatura interna al Psi, tra la sezione del centro e quella di Sant’Angelo in Formis – che si concluse con la rinuncia alle candidature di esponenti della frazione, consentì alla Dc di riconquistare la maggioranza assoluta. Con quella esperienza si chiuse l’impegno attivo di Pompeo in politica, anche se egli non rinunciò mai a dare il suo contributo al dibattito politico negli organismi provinciali del Pci e poi del Pds e dei Ds, nonostante avesse subito anche qualche torto personale nel corso della sua militanza politica nel PCI. Tanto che con la fine del PCI e la nascita del Partito Democratico della Sinistra Pompeo accettò di presiedere il comitato federale della Federazione di Caserta, per contribuire con la sua storia personale, il suo attaccamento al partito, la sua autorevolezza a tenere insieme il nucleo fondamentale della forza politica e sociale a cui aveva dedicato buona parte delle sue energie e che non aveva retto alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alle conseguenze che quell’evento di portata mondiale era destinato ad avere sul sistema politico italiano.
Ricordo il lungo colloquio che ebbi con Pompeo nel corso dell’ultima visita presso la sua abitazione, pochi mesi prima della morte avvenuta nel giugno del 2012 a causa di una malattia che lo aveva colpito subito dopo la scomparsa della moglie Antonietta, con cui aveva avuto un legame molto forte di amore, passione e anche di condivisione degli ideali politici. In lui c’era una lucida consapevolezza della crisi politica italiana e una forte preoccupazione per l’indebolimento dei partiti, la crisi profonda di tutti i corpi intermedi, come strumenti indispensabili per la partecipazione consapevole dei cittadini alla vita pubblica. Più che l’amarezza nel constatare la fine dei suoi ideali di gioventù, che pure era in lui molto forte, prevaleva l’apprensione per gli effetti che la frammentazione politica e sociale, l’avanzare inarrestabile della cultura individualista, esercitavano sulla tenuta del tessuto connettivo della società e sulle prospettive del sistema democratico che lui e la sua generazione, uscita dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, avevano contribuito a costruire attraverso la disponibilità a qualsiasi sacrificio personale da tanti compagni con cui aveva condiviso le battaglie di una vita – compagni di cui richiamò spesso l’esempio ed il ricordo commosso. Il valore di un esempio da considerare come preziosa risorsa di cui conservare memoria da utilizzare come un ancora cui aggrapparsi per evitare la deriva delle conquiste sociali e democratiche, di quel processo di emancipazione delle classi lavoratrici affermatosi nei decenni successi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, grazie a quel senso forte di comunità, di comune destino, maturato nell’opinione pubblica nel corso della tragedia di una guerra che abbiamo il dovere di non far ritornare. Considerazioni profetiche se analizziamo a quale livello di gravita le crisi della politica, della democrazia e della civile connivenza sono giunte oggi.
Adolfo Villani, Blog 26 febbraio 2022
Addio a Mario Ventriglia
Da poco Adolfo mi ha informato che è scomparso Mario Ventriglia, certamente uno dei protagonisti delle lotte sociali e democratiche a Capua ed in Terra di Lavoro, come ho avuto modo di ricordare nel mio volume sui diritti.
Era un operaio che si formò nella scuola del movimento comunista e sindacale, un militante sempre in prima fila nelle lotte, come quelle che nella fine degli anni 60 si svilupparono intorno alla vertenza St Gobain, la grande vetreria di Caserta che allora segnò una fase di transizione dei processi di industrializzazione e modernizzazione della nostra provincia. Dopo ha lavorato nell’azienda dei trasporti (autoferrotranviere).
Nello stesso tempo la vita di Mario è stata segnata sempre da una forte ed appassionata militanza politica nel PCI, ricoprendo ruoli di direzione nel Comitato Federale e nella Sezione capuana. Per diverse legislature è stato anche consigliere comunale. Negli anni della contestazione studentesca del '68 - insieme ad altri dirigenti storici di estrazione operaista, come Sandro Ammirato - seppe confrontarsi e dialogò anche con quei movimenti. Ricordo le interminabili passeggiate nel corso della città in cui discutevamo in modo animato ma franco, che poi sono continuate con la nascita della coop sociale Capuanova, uno dei centri vitali della vita culturale ed artistica, animata da altre figure prestigiose come Vincenzo Galeone, Andrea Vinciguerra. Con Mario se ne va un altro protagonista, un simbolo della cultura di sinistra e democratica che aveva come valore primario il riscatto sociale delle classi deboli e la tutela del bene comune. La sua vita rimane come un valore ed un esempio fulgido di militanza e di cittadinanza attiva, di grande umanità, una testimonianza anche per le nuove generazioni.
Pasquale Iorio, 30 gennaio 2020
In data 30-01-2020 è venuto a mancare Mario Ventriglia. La notizia mi ha raggiunto mentre partecipavo ad un corso di formazione obbligatoria ed è stato il corso più tormentato della mia vita professionale. Con Mario mi lega una antica militanza politica e una straordinaria amicizia. La prima volta ci incontrammo sulla cavalcaferrovia che porta a via Roma a Caserta. Ero al secondo anno del Geometra Buonarroti e stavo partecipando, insieme a tanti studenti, ad una manifestazione di protesta per chiedere un istituto scolastico decente. Il corteo si muoveva dalla zona di viale Lincoln verso il centro della città e Mario ci venne incontro alla guida di una delegazione dei lavoratori della Saint Gobain, in lotta contro un piano di ristrutturazione selvaggia della fabbrica. Era il 1969, l'anno che vide saldare le lotte studentesche e quelle operaie anche a Caserta e nel Mezzogiorno. La lotta dei lavoratori della Saint Gobain fu la prima lotta operaia che riuscì a mobilitare l'intera città di Caserta, che viveva la crisi di quella fabbrica come un pericolo per l'economia cittadina. Da allora non ci siamo mai persi di vista. Ero giovanissimo quando mi salvò da una aggressione fascista con modalità incredibili che lo resero ai miei occhi un personaggio mitico. Mario univa un intuito politico non comune ad uno spiccato senso dell'ironia. Con una battuta riusciva a rendere il senso di importanti passaggi politici o l'essenza di una personalità. Insieme abbiamo vissuto i passaggi più tormentati della storia della sinistra del secolo scorso, l'esperienza di consiglieri comunali a Capua e tanto altro. Mario è stato innanzitutto un gran lavoratore fin da ragazzo. Ha lottato - pagando sulla propria pelle - per i diritti di tutti i lavoratori. Un sindacalista coraggioso e tenace, un dirigente del PCI. Insomma una bandiera della CGIL e della sinistra. Il simbolo di una classe operaia che negli anni 70 ha lottato, ha sofferto, ha pagato ma ha anche vinto. Ha affermato i diritti sociali e politici di tutti, ha difeso la democrazia contro l'eversione e il terrorismo. Tutti i diritti che ancora abbiamo - e che ormai non riusciamo più a difendere in modo efficace - li dobbiamo a quella classe operaia che in quegli anni è stata protagonista di una lotta di classe che, a differenza di ciò che vogliono farci credere, continua a muovere il Mondo. Ciò che è cambiato è che allora la lotta di classe la guidavano gli operai che imponevano la redistribuzione della ricchezza, oggi lavoratori e cedi medi subiscono il dominio delle multinazionali e della grande finanza e la ricchezza non è mai stata così concentrata come oggi in un pugno di miliardari. Di quella classe operaia Mario Ventriglia è stato un vero dirigente, stimato e rispettato. Per me anche un maestro di vita e un punto di riferimento. Oggi non mi sento di dirgli ciao. Siamo stati parte di una storia importante che è più forte della morte. In quella storia ha lasciato un segno indelebile. Per me Mario non è morto e continua a vivere nelle lotte sociali e politiche del mondo del lavoro.
Adolfo Villani
Il deputato Vincenzo Raucci, protagonista delle lotte contadine
Vincenzo Raucci (amichevolmente chiamato Pappone) iniziò il suo impegno di attivista comunista nel 1944, a 20 anni. Infatti nacque a Capua nel 1924 e visse i suoi anni di fanciullezza ed adolescenza in un ambiente familiare di forte impronta fascista. Ricordiamo solo che il nonno Vincenzo era stato nel 1921 segretario della sezione del Fascio di Capua e suo padre Attilio aveva partecipato alla marcia su Roma e accusato dell’aggressione del deputato socialista Vittorio Lollini.
La famiglia era una famiglia molto benestante di commercianti e proprietari di immobili. Fu allievo del professore Alberto Iannone, nonostante il professore fosse un noto antifascista, e da quegli insegnamenti Enzo Raucci trasse l’ispirazione di una scelta di vita al servizio delle classi subalterne di Terra di Lavoro.
Raucci si iscrisse al Partito Comunista Italiano nel 1944 e già il 22 ottobre fu tra i sei delegati della sezione di Capua, insieme a Aniello Tucci, De Cecio, Antonio Perrotta, Pasquale di Rienzo e Vittorio Castellano, alla conferenza di organizzazioni delle sezioni del Pci dell’Oltre Volturno che si tenne a Sparanise. Da allora il suo impegno fu mirato a costruire e dare forza al “Partito nuovo” con incarichi di responsabilità.
Enzo Raucci rischiò il primo arresto nel corso di un comizio per una manifestazione non autorizzata, dopo la notizia dell’attentato a Togliatti. Riuscì a sfuggire ai carabinieri, rifugiandosi nella casa di Benedetto D’Innocenzo a Calvi Risorta, mentre veniva condotte al fermo le sorelle Maria e Velia. Raucci entrò a far parte del comitato federale del Pci nel 1946, dopo che la provincia di Caserta ottenne di nuovo il suo status, e successivamente nella segreteria della Federazione.
rappresentante della Camera del Lavoro e consigliere comunale di Capua, nel 1948, avrà il suo ruolo rilevante nel corso delle lotte dei braccianti del 1954. Le lotte bracciantili del 1954, in provincia di Caserta, segnarono, infatti, un momento altrettanto importante con una nuova ondata di occupazioni, che portò a conquiste rilevanti in relazione al salario e ai primi diritti sindacali per i contadini. Siamo in un momento storico in cui il movimento contadino assume la valenza di movimento organizzato con una consapevolezza politica delle proprie ragioni sociali, anche economiche e di partito. Nel 1954 i braccianti conquistarono il primo contatto provinciale che portava i salari minimi a 800 lire giornaliere.
Inoltre fu l’anno degli scioperi per il sussidio di disoccupazione, di cui resta memorabile la giornata del 12 giugno 1954 con la Camera del Lavoro che decise di organizzare due grandi manifestazioni a Trentola e a Casal di Principe. In tale giornata, alle ore 6 del mattino, i dirigenti della Camera del Lavoro di Caserta, insieme ai braccianti, erano già sul posto, ma vi trovarono anche i Carabinieri che trassero in arresto sia i funzionari che gli stessi braccianti per blocco stradale. Tra di essi ritroviamo Vincenzo Raucci, che diede tutto il suo apporto generoso a quelle lotte per i primari diritti sindacali. Con Pietro Bove e Mariano Vegliante, Enzo Raucci sarà condannato a tre anni di carcere, condanna che in appello si ridurrà ad un anno di carcere. È grazie a quelle lotte che nell’inverno del 1954 i contadini conquistano il sussidio di disoccupazione, l’assegno familiare per il figlio e per il genitore, l’assistenza sanitaria. A tal riguardo, infatti, il 22 novembre 1954 il Parlamento approva la legge n° 1136 Bonomi con alcune aggiunte della proposta Longhi - Pertini che prevede l’assistenza sanitaria completa ed il contributo statale di 1500 lire per assistito.
quel momento ben 2 milioni di contadini usufruiranno per loro stessi e per i familiari dell’assistenza medica; il che significa che la conquista dell’assistenza sanitaria riguarderà ben 5 milioni di persone. Quindi Enzo Raucci diede un apporto determinante per un futuro migliore dei contadini in quell’anno. Belle le parole che dedicherà all’esperienza in carcere di Enzo Raucci la moglie del professore Alberto Iannone, Margherita Troili, nel momento in cui scrive: “Il compagno Raucci, in carcere, con il suo atteggiamento e con il suo rifiuto di stare in cella se non con i braccianti, riuscì a tenere uniti i compagni”.
Sarà gran festa per tutti i compagni della provincia quando Enzo Raucci ritroverà la libertà nel 1956. Nell’anno 1959 Raucci sarà con Gerardo Chiaramonte testimone alle nozze di Giorgio Napolitano e Clio Bittoni. Nel dicembre del 1960 entra a far parte della Camera del Deputati. Siamo in un momento storico in cui, dopo la caduta del governo Tambroni, la Democrazia Cristiana apre al Partito Socialista e ciò provocherà un dibattito nel Pci sulle posizioni da tenere. Enzo Raucci nei suoi interventi farà prevalere la tesi dell’opposizione costruttiva in attesa di una svolta in senso ancora più progressista della società italiana. Dal 1961 al 1962 proporrà un pacchetto di proposte per una riforma tributaria che, basandosi sui principi fondamentali della Costituzione, sarà incentrato su imposte progressive per un fisco più giusto, equo e solidale. Nel contempo non viene meno il suo impegno di consigliere comunale di Capua, che aveva conservato. A ridosso degli anni settanta si consumò la devastazione del litorale Domizio con la rivolta di Castel Volturno del 1969 e Raucci dedicò alla questione interrogazioni in cui denunciava gli intrecci di interessi fra politici e speculatori.
Enzo Raucci fu deputato fino al 1976, allorché vi fu un ricambio nella rappresentanza parlamentare del Pci della provincia e a Raucci e Iacazzi subentrarono Antonio Bellocchio e Paolo Broccoli. Raucci entrò nella direzione nazionale della Confcoltivatori e successivamente fu chiamato a dirigere la Confcoltivaltori campana. Agli inizi degli anni ottanta si adoperò quale collaboratore di Giorgio Napolitano, allorché fu eletto capogruppo dei deputati del Pci fino alla morte che lo colse prematuramente nel 1986.
Tratto da Adolfo Villani, I ragazzi del Professore
In memoria di Andrea Vinciguerra
Sono passati 3 anni che ci hai lasciati, il suo ricordo, però, è vivo, si avverte, soprattutto quando si varca quel portone di palazzo Fazio, sede dell'Associazione Capuanova, di cu egli è stato tra i protagonisti. I discorsi con Livio Marino e Paolo Sacchetti, inesorabilmente, parlano di lui, dei progetti rimasti tali, e per i quali si dovrà, necessariamente, affrontarne la realizzazione. Uno per tutti, la mostra internazionale di arte contemporanea.
La nostra città è più povera di idee, e non me ne voglia nessuno, perché il concetto è in generale. Capua è più povera, anche, politicamente, senza le sue capacità di ascolto, la sua disponibilità, gli approfondimenti e le analisi che esprimeva, apertamente, senza remore, sia in pubblico che in privato. Sono passati 3 anni che Andrea Vinciguerra, ma più amichevolmente, Deo, ha lasciato questa vita terrena. Il suo sguardo fiero, semplice, autorevole, ma non autoritario, è sempre lì, scolpito nel cuore di quanti gli hanno voluto bene, ed apprezzato le sue doti di profonda umanità, per tutti, senza distinzione di fede, colore politico, ceto sociale. Andrea Vinciguerra è stato un punto di riferimento del socialismo, quello del garofano rosso. Ha ricoperto incarichi nel consiglio comunale della nostra città, dove si è dimostrato, sempre, strenue difensore della capuanità. È stato vice sindaco, ma soprattutto sostenitore attento ed accanito di quella Giunta di "Progresso" presieduta dal sindaco Nicola Lacerenza.

100 anni PCI in Terra di Lavoro 1921-2021: Andrea Vinciguerra

Diede l'impronta nazionale al premio "Follaro d'oro", promosso ed organizzato dalla cooperativa culturale Capuanova, di cui è stato vice del Professor Vincenzo Galeone, e, poi, presidente.
Andrea, Deo Vinciguerra, era, anche, esperto d'arte, la capacità interpretativa delle opere, la critica ed il linguaggio dei lavori, erano diventate raffinate doti personali, riconosciute in tutti gli ambienti del settore.
Le presenze architettoniche del nostro centro storico, la loro salvaguardia e rivalutazione, furono le sue maggiori preoccupazioni, non ultima quella per il rilancio del Museo Campano, per cui, si rese promotore, con altri, del progetto "adottiamo una madre", testimonianza reale e concreta in difesa delle Matres Matutae. Il progetto riscosse, e continua ad attirare l'attenzione di uomini e donne dell'arte e della cultura.
Le foto principale è di Franco Cucciardi, le altre nei ricordi di Livio Marino, al quale affidiamo il suo pensiero, in qualità di presidente dell’associazione Capuanova. Il mio rapporto con Andrea era intenso, non solo per la scelta politica di essere socialisti da sempre e per sempre.
La cosa che davvero ci legava - sottolinea Marino - era l'amore per l'arte contemporanea.

Entrambi, abbiamo condiviso progetti di mostre d'arte, importanti; Calligrafie, ovvero "La Scrittura Dipinta". Mancherà anche per questo impegno culturale alla città di Capua. Ricordare Andrea. Lo faremo a Capuanova, appena possibile, quando le condizioni di tranquillità ambientale, ci daranno l’opportunità di omaggiare, degnamente, l'amico, il politico, il critico d'arte.
Luigi di Lauro, luglio 2022

 

Gli anni del PCI
Giuseppe Capobianco (1926 - 1994) – Un rivoluzionario di professione, costruttore di democrazia
1. Per una nuova dimensione di vita civile, sociale e politica. Guido D’Agostino
Ho conosciuto Peppino Capobianco e quindi frequentato per anni, in amicizia e in collaborazione di studio e lavoro, conservandone il ricordo pieno di stima e di affetto, in maniera viva e profonda. A pensarci ancora, o soprattutto oggi, mi incuriosivano ed animavano il profilo politico-partitico dell’uomo, il suo radicamento nella militanza comunista già di lunga data, il rigore e la fermezza del carattere, lo stile di vita, la scala dei valori cui conformava la propria esistenza, e su cui fondava le relazioni umane e sociali. Dal canto suo, e nei miei confronti, rivelava attenzione, simpatia, affetto e grande fiducia. Ha voluto, nel tempo, che fossi io ad occuparmi dei suoi lavori storici e che ne scrivessi qualche pagina di prefazione o di introduzione. E così è stato in diverse occasioni, in particolare in quelle legate a quel suo filo rosso interpretativo del più complessivo itinerario di scavo nella memoria rimossa di cosa è stato per Terra di Lavoro il momento dello scontro più duro e crudele tra nazifascisti da un lato e le popolazioni locali dall’altro.
Opere come “La giustizia negata”, “La barbarie e il coraggio”, “Il recupero della memoria”, pubblicate tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso, mettono in luce la tragedia delle stragi naziste nel Casertano – si pensi all’efferato massacro sul Monte Carmignano a Caiazzo – attraverso la ricostruzione ineccepibile per accuratezza e competenza delle vicende.
Ma ancora più significativa risulta la denuncia insistita e appassionata, e piena di sdegno, che Capobianco faceva della rimozione di quegli avvenimenti operata dalle autorità alleate, tedesche, italiane, nonché dalle stesse classi dirigenti locali strutturalmente interessate a lasciare nell’ombra fatti di inaudita gravità compiuti ai danni delle comunità da essi amministrate. In sostanza, per Peppino il punto era che il cruciale periodo, tra gli ultimi anni del fascismo, la guerra, la resistenza e la lotta di liberazione, l’arrivo degli Alleati ha rappresentato per le comunità locali meridionali altrettante occasioni di crescita, di maturazione democratica e di passaggio da una solidarietà tutta interna a un universo di subalternità e di rassegnazione, verso una embrionale coscienza di lotta di classe e di riscatto.
Ed è proprio un tale tipo di processo a venire intenzionalmente colpito dalla rivoltante alleanza a livello locale, nazionale e internazionale, fatta di omertà e di fuga da ogni responsabilità, non meno che di timori per la perdita del controllo sociale e politico di masse povere e sfruttate.
In pratica vi fu un doppio inganno e un altrettanto irrimediabile torto patito dalla gente di Terra di Lavoro: avere subito tante e inaudite atrocità e al tempo stesso non avere avuto la possibilità di costruire di ciò e da ciò una memoria come attributo di futuro, come costruzione di un nuovo progetto di vita. In definitiva vi fu una resistenza compiuta e sancita nel sangue dei suoi eroi e martiri, ma restata inerte, perché misconosciuta e rimossa. Questo il ‘rovello’ mentale e politico che ha reso Peppino Capobianco così tenace, così reattivo, tutto dedito a fare breccia in quel muro, a riaprire un discorso politico e sociale brutalmente interrotto e ridotto all’inerzia e al silenzio. Recuperare con e attraverso la memoria, una nuova dimensione di vita civile, politica e sociale per i suoi conterranei: per questo egli ha vissuto e operato, e per questo merita da parte di tutti noi, ricordo imperituro e gratitudine perenne. Personalmente, chiudo queste poche note avendo ben presente davanti ai miei occhi l’ultima visita di Peppino Capobianco nella sede dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Antifascismo, quando la malattia si era ormai palesata come foriera della vicina morte, rivolgendo lui a noi parole di affetto e di incoraggiamento! Allo stesso modo, la commozione intensa, fino alle lacrime, di tutti i presenti intervenuti, qualche tempo dopo alla cerimonia funebre con la partecipazione del Comune di Napoli e del Sindaco Bassolino, all’epoca da meno di un anno alla guida della città.
2. Tra politica e ricerca storica
Ricordare oggi la figura di un uomo politico e storico della Resistenza come Peppino Capobianco scomparso del 1994 (lo stesso anno in cui venne trucidato dalla camorra don Peppe Diana) – non deve sembrare un nostalgico ritorno al passato. Serve invece a far conoscere (soprattutto ai giovani) il rigore morale ed i valori della sua personalità nei vari campi in cui è stato protagonista (dalla politica al sociale fino alla cultura), che nei nostri tempi risulta quasi impossibile ritrovare nei politici e governanti non solo a livello locale, ma anche nazionale. Già negli anni giovanili come studente manifestò la sua scelta di campo in pieno regima fascista: di combattente contro ogni forma di tirannia e di sopraffazione, in difesa dei principi di libertà, di eguaglianza sociale e di solidarietà (come è stato ben ricordato da Adolfo Villani nel suo volume “L’ufficiale e il comunista”, Ediesse, 2018).
Nel secondo dopoguerra fu protagonista delle lotte contadine per la conquista delle terre incolte (insieme con Mario Pignataro, Salvatore Pellegrino, Ninotto Bellocchio ed altri esponenti della sinistra politica e sindacale), come emerge dalla raccolta di “Scritti su Corrado Graziadei. Le lotte nelle campagne di Terra di Lavoro. 1945-50” (Spartaco Ed.). È stato anche dirigente sindacale nella Federbraccianti CGIL, nella Federterra e nell’Alleanza Contadini. La sua militanza nelle fila del partito comunista si è manifestata con coerenza fino agli ultimi giorni della sua vita, passando dal PCI – di cui è stato autorevole dirigente a livello regionale e provinciale – nella fase di trasformazione. In fatti, non aderì al PDS ma fu uno dei fondatori di Rifondazione Comunista. Dopo aver passato una vita dedicata alla politica e alle lotte per l’emancipazione, per lui fu molto amara e dolorosa la decisione di non passare nel nuovo partito.
I suoi punti di riferimento teorico sono stati Carlo Marx, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, insieme con le figure prestigiose del “meridionalismo”. Nell’ultima stagione della sua vita si è dedicato con passione alla storia locale e sociale, con un lavoro certosino di ricerca e di documentazione delle fonti. Da qui sono scaturite molte pubblicazioni e tanti contributi fondamentali per la conoscenza di Terra di Lavoro, delle sue trasformazioni politiche, economiche e sociali. A partire dalla rievocazione della scelta scellerata di Mussolini di sopprimere nel 1927 l’allora Terra Laboris, la terza provincia italiana per dimensioni (di cui si trova documentazione nel saggio “Sulla classe dirigente casertana dell’età prefascista”). Ancora più rilevante è stato il suo apporto sui temi del “Recupero della memoria” (un saggio pubblicato con ESI, introdotto da Guido D’Agostino), nel quale finalmente viene ricostruita la storia della Resistenza in Campania, con particolare riferimento a Terra di Lavoro. Nello stesso tempo si dedicò a documentare le stragi naziste con altri saggi raccolti nel volume “La giustizia negata” (Centro C. Graziadei), che dopo tanti anni di oblio hanno fatto piena luce sull’apporto delle popolazioni casertane ad una rinascita democratica, con tante vittime e stragi finora dimenticate. Su questi materiali hanno poi sviluppato una ricerca importante Gianni Cerchia, Felicio Corvese ed altri storici, con la produzione di un docufilm dal titolo sintomatico di “Terra bruciata”.
Altrettanto significativo è stato il suo contributo sui temi del primo socialismo con il saggio su “Antonio Indaco ed il sindacalismo rivoluzionario” con prefazione dello storico Franco Barbagallo; con quello su Errico Leone a Napoli, fino a “La costruzione del Partito Nuovo in una Provincia del Sud” introdotto da Aurelio Lepre. Da non dimenticare sono anche le raccolte di suoi scritti “Sulle ali della democrazia. il Pci in una Provincia del Sud 1944- 47” a cura di Paolo Broccoli e quelli su “Una nuova questione meridionale scritti scelti 1979-92” con introduzione di Aldo Tortorella.
A fronte dello spessore della personalità di Capobianco, con un gruppo di amici e compagni (d’intesa con il figlio Franco) abbiamo deciso di raccogliere documenti e materiali per ricostruire la sua biografia politica e culturale, con saggi e contributi dedicati alla sua figura di “rivoluzionario di professione” (come si diceva una volta). Infatti, mentre da un lato emerge che la bibliografia delle sue opere e scritti è di notevole mole (come si può vedere dall’allegato), dall’altro abbiamo riscontato che dopo la sua scomparsa ci sono poche opere in suo ricordo, come il saggio di Adolfo Villani e quello di Paolo Broccoli sul suo “impegno civile” in Civiltà Aurunca. Ci sono stati altri momenti con alcuni eventi in sua memoria in occasione del decimo e del 25° anniversario a Caserta e Caiazzo. Nel suo comune natio S. Maria a Vico gli è stata dedicata una strada. In tal senso non sarebbe male una iniziativa analoga anche da parte del Comune di Caserta da inserire nelle celebrazioni in occasione del Bicentenario della sua elevazione a capoluogo di Provincia. Di recente va segnalata anche una tesi di laurea a lui dedicato da Giulia Negro, una studentessa Dilbec Università L. Vanvitelli, seguita dal prof. Paolo De Marco.
Tutto ciò può fare giustizia del lungo periodo di disattenzione su una delle figure più eminenti della nostra vita politica, sociale e culturale. Anche grazie alla consistente mole dei documenti e dei suoi appunti, consegnati dai familiari per sua espressa volontà in apposito fondi conservati nella Biblioteca Diocesana e nell’Archivio di Stato, una parte dei quali ora purtroppo non sono accessibili e consultabili a causa dei modi dilettanteschi ed incompetenti con cui gli organi del Ministero della Cultura con il processo di delocalizzazione ancora in corso nei nuovi uffici della Reggia Vanvitelliana. Una vicenda assurda e scandalosa, che si trascina da decenni e che sta mettendo a rischio di frantumazione e dispersione dei pezzi fondamentali della nostra identità e memoria storica.
Come ha scritto Anglo Martino, Capobianco è stato uno dei rappresentanti più nobili della vita politica e culturale di Terra di Lavoro. Il suo fu un impegno civile di primo piano sia come un rivoluzionario di professione comunista, coerente nella visione di una società in cui brillassero giustizia, uguaglianza sociale, progresso civile ed umano delle classi sociali sfruttate, ma anche in relazione al suo ruolo di storico, di autore di ricerche storiche sulla Resistenza, sulle lotte agrarie, sull’impegno sindacale nella provincia di Caserta.
Nato a Santa Maria a Vico il 27 luglio 1926, scelse l’impegno politico in giovane età in quanto rimase profondamente colpito dalla violenza e dall’assurdità della guerra. La Resistenza era stata per Capobianco una guerra contro nemici interni e contro l’occupazione nazista nel Mezzogiorno. La nostra provincia, pur non avendo conosciuto il senso di una consapevole e rilevante partecipazione di lotta di liberazione come nel Nord, in ogni caso ha dato contributi di sangue che Peppino documentò nel testo “Il recupero della memoria”. Va rimarcato il suo apporto determinante, con l’italo-americano Joseph Agnone, nel far luce sulle responsabilità della terribile strage nazista di Caiazzo. Mentre si dedicava a tale impegno – come ha scritto Adelchi Scarano – “Era solito intrattenersi con gruppi di giovani caiatini, in un ambiente essenzialmente anticomunista, con passione, raccontando le sue esperienze e i giovani provavano ammirazione per la coerenza e il rigore etico che comunicava ai suoi attenti ascoltatori”.
L’esperienza dolorosissima della guerra - vissuta “con gli sbandati e gli sfollati” - lo portò all’impegno civile e in breve tempo divenne un dirigente del Partito Comunista casertano, un dirigente sindacale, un uomo delle istituzioni pubbliche al servizio della giustizia e dell’uguaglianza. Pur essendo un uomo di parte, venne stimato da tutte le persone di buona volontà della provincia di Caserta e non solo, in quanto tutti gli riconoscevano l’essere una figura straordinaria di democratico. Peppino dedicò la sua vita a servire il partito in quanto per lui significava porsi al servizio dei lavoratori e della loro emancipazione. Sulla sua tomba c’è solo una semplice scritta: “Giuseppe Capobianco 1926-1994, Comunista”. Che significava essere “comunista” per Giuseppe Capobianco? Semplicemente lottare per un assetto sociale giusto in maniera fattiva, senza considerare il partito un fine per raggiungere un carrierismo personale o qualsiasi altro “particolare” guicciardiniano. Per lui il partito comunista era uno strumento funzionale alla costruzione di un sistema politico e sociale più giusto e compiutamente democratico, tenendo presente l’articolo 3 della Costituzione che invita ad operare nella società per la rimozione delle disuguaglianze. Tale era il concetto nobile della politica per Capobianco: un agire al servizio degli altri con una consapevolezza dell’eticità con cui esso deve sapersi proporre.
Tutto ciò emerge chiaramente dai suoi tanti scritti. “La politica – egli scriveva - non è una cosa repellente, ma l’unico strumento che le vittime di un sistema di cose ingiuste hanno a disposizione per cambiare tale situazione”. In tale senso nell’esistenza degli esseri umani – era solito osservare – non esiste nulla di più nobile dell’agire politico. Quando aveva un minimo dubbio passeggero al riguardo, si concentrava sulle sue ricerche storiche con passione. Egli dedicò molte pagine a Corrado Graziadei, ripercorrendo il suo impegno quale antifascista e successivamente protagonista delle tante lotte per l’emancipazione delle classi subalterne della provincia di Caserta. Gli scritti di Capobianco su Graziadei sono tra le più belle e appassionanti pagine di storia sulla provincia di Caserta che egli amava in tutto il suo percorso storico dal fascismo agli anni del dopoguerra, della costituente, delle lotte operaie e contadine. Tra le altre cose Capobianco si concentrò sullo smembramento di Terra di Lavoro operata dal Fascismo nel 1927. Vi ha dedicato pagine di alta analisi storica per comprendere le motivazioni di quella decisione assurda, cercando di comprendere in quale maniera essa si potesse rapportare alla debolezza di una classe dirigente dall’ età prefascista fino al Regime.
Peppino non seguì i compagni nella svolta dal Pci al Pds. Al XVII congresso della federazione del Pci di Caserta nel 1990 con il suo intervento “Io non vi seguirò” (che abbiamo riportato), al di là della condivisione o meno del contenuto, dimostrò ancora una volta una testimonianza per gli alti valori umani, politici e sociali di chi aveva incarnato davvero la politica quale nobile servizio per il riscatto delle classi subalterne meridionali. Militò per poco tempo in Rifondazione Comunista, ma morì pochi anni dopo il 27 settembre del 1994.
La sua scelta fu drammatica e travagliata – come ci ricorda Adelchi Scarano – in quanto negli ultimi anni di vita si trovò nella posizione di essere scambiato per un nostalgico del passato. Il dubbio che lasciò come riflessione ai suoi compagni fu: “Dove finiremo se, invece di cambiar le cose che vanno cambiate, non sappiano far altro che liquidare il soggetto portatore del cambiamento”. Furono le ultime considerazioni di chi aveva testimoniato una nobiltà della politica con la sua forte carica di eticità. Per il contributo che ha dato agli studi ed alle ricerche sulla storia locale, sull’antifascismo e sulla Resistenza, Peppino Capobianco oggi meriterebbe maggiore attenzione, anche per ricostruire la sua biografia in modo organico, per poter rendere pieno merito al suo impegno sociale e politico in anni difficili. Un primo contributo è stato offerto di recente da Adolfo Villani con il volume fortemente rievocativo “L’ufficiale ed il comunista”, Ediesse, nel quale sono stati ricostruiti i suoi anni giovanili, la sua formazione e ribellione contro il regime fascista – in un rapporto duro, aspro e conflittuale con il padre, portatore di valori e di una diversa tradizione. Negli ultimi anni ci sono state anche alcune iniziative per commemorare la sua figura. In particolare segnaliamo un ritratto sintetico ma essenziale che gli ha dedicato il prof. Gianni Cerchia, memore dei suoi anni nella FGCI, cioè la federazione dei giovani comunisti, una vera scuola politica e di cittadinanza democratica. Nello stesso tempo il giornalista Giacinto Di Patre ha rimarcato la caratura politica e morale dell’ex segretario provinciale PCI.
Sul versante più economico e sociale negli studi universitari e nei saggi di Paola Broccoli ritroviamo il ruolo trainante che ebbe Peppino nella fase di grande trasformazione degli anni ’70, di cambiamento e riassetto produttivo a seguito della industrializzazione e ristrutturazione, con l’entrata in campo di un nuovo protagonista come il movimento operaio e sindacale. Infine, va detto che ad oggi la ricostruzione più vicina alla personalità complessa e poliedrica di Peppino è quella fatta da Paolo P. Broccoli in un ampio saggio sull’impegno politico e civile, pubblicato da Caramanica. In occasione del centenario della sua nascita, insieme con Umberto Riccio, in questi mesi abbiamo realizzato il sito: www.pcicaserta.it per ricostruire la storia di questo partito in Terra di Lavoro, come contributo per la sua conoscenza e per tramandarla anche alle nuove generazioni. Abbiamo raccolto tanti materiali e documenti utili, alcuni dei quali ancora sconosciuti. In modo particolare è stato interessante ricostruire e riproporre le biografie di alcuni protagonisti, uomini e donne (come Maria Lombardi, Margherita Troili, Corrado Graziadei, Peppino Capobianco, Mimi Ianniello e Mario Pignataro).
Come è emerso dalle tante testimonianze che abbiamo raccolto, la figura di Peppino Capobianco assume un rilievo particolare per la conoscenza di un periodo storico tra gli anni della lotta antifascista e quelli della rinascita democratica della nostra provincia. In particolare emergono fatti ed episodi anche eroici come quelli delle lotte di resistenza al nazifascismo e a seguire delle lotte contadine per l’occupazione delle terre e della nuova classe operai per i diritti e l’eguaglianza. Come ho avuto modo già di sottolineare nell’opuscolo preparato in occasione del 25° della sua scomparsa, già negli anni giovanili come studente egli manifestò in pieno regime fascista la sua scelta di campo di combattente contro ogni forma di tirannia e di sopraffazione, in difesa dei valori e dei principi di libertà, di eguaglianza sociale e di solidarietà (anche verso i popoli oppressi). Infatti nel secondo dopoguerra fu in prima fila nelle lotte contadine per la conquista delle terre incolte. La sua militanza nelle file del partito comunista si è manifestata con coerenza fino agli ultimi giorni della sua vita.
Lo testimonia il suo intervento in occasione del congresso di scioglimento del PCI, al quale non aderì con un discorso molto appassionato che iniziava con la seguente frase “Cari compagni io non vi seguirò”. Anche in quei momenti di amarezza Peppino non cessò il suo impegno e la sua militanza politica. Infatti si dedicò alla nascita del nuovo partito di sinistra di RIFONDAZIONE COMUNISTA. Per lui che aveva passato una vita dedicata alla politica, alle lotte per l’emancipazione (ed anche allo studio e ricerche storiche) fu molto dura, amara e dolorosa la decisione di non passare alla nuova “cosa”, come Achielle Occhetto definì il PDS. In ogni occasione ci ricordava che i suoi punti di riferimento teorico e culturale erano soprattutto il marxismo, insieme con figure prestigiose del meridionalismo. Per questo oggi è molto utile poter far conoscere, in primo luogo tra i giovani, il rigore morale ed i valori della sua personalità sia nella vita politica che in quella sociale e culturale.
La sua storia e la sua biografia è stata bene ricostruita da una tesi di laurea a lui dedicata da Giulia Negro, nipote del figlio di Peppino Giovanni Capobianco, nell’ateneo casertano Luigi Vanvitelli nel 1921. Nella sua introduzione sottolinea che “la sua tesi è dedicata all’originale personalità di Giuseppe Capobianco, in particolare al suo impegno civile e politico in Terra di Lavoro”. Inoltre precisa che i materiali utilizzati sono stati quelli del Fondo Capobianco, oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Caserta.
Da questo elaborato emerge il percorso politico di Capobianco, che fu “caratterizzato dal senso della strategia per le riforme di struttura per rendere possibile uno sviluppo economico democratico e dal rifiuto della razionalizzazione capitalistica”. Infatti Peppino era assillato dalla volontà “di capire ciò che cambiava e quello che segnava la continuità con il vecchio regime e con la società che aveva dato vita al fascismo e, a tale proposito, pur non trascurando di valorizzare gli elementi di innovazione del fascismo, egli non dimenticava mai di ricordarci che gli agrari che avevano bloccato ogni riforma nelle campagne nel ventennio erano gli stessi, anche fisicamente, che nel dopoguerra si opponevano con successo ad ogni azione rinnovatrice in agricoltura”.
Ed aggiunge anche l’osservazione secondo cui un elemento ulteriore di difficoltà per una vera riforma, oltre alla forza ritardatrice del grande latifondo, “era costituito dal fatto che la questione agraria non divenne mai un punto di rilievo nell’azione del sindacato unitario in quanto la questione meridionale si avviava a diventare una questione urbana e il miracolo economico italiano cominciava a manifestare i suoi benefici dando vita alla politica di industrializzazione della nostra economia”. La crescita che creava occupazione e la comparsa della nuova classe operaia frutto di un intenso processo di industrializzazione della nostra provincia - che ad un certo punto divenne il secondo polo dell’elettronica civile in Italia dopo Milano, per cui venne definita come una “Brianza del sud”) - dettero vita a nuove gerarchie e a nuovi assetti di potere. Infatti la fabbrica organizzava la società determinando numerosi cambiamenti: nuovi tempi della famiglia e della scuola, con un’occupazione femminile che in alcuni comparti era in prevalenza rispetto a quella maschile, con nuovi orari di lavoro e di organizzazione sociale. Peppino studiò nel profondo questi processi (anche con apposite iniziative e convegni) per rilevare le nuove problematiche di fronte alle quali la struttura politica e culturale del Pci manifestava la sua inadeguatezza, lasciando alla Dc la possibilità di gestire le fasi del processo di sviluppo della Cassa del Mezzogiorno e successivamente dell’industrializzazione della provincia di Caserta.
Una fase particolarmente interessante si ebbe dopo le regionali del 1970, allorché Antonio Bellocchio lascia la direzione della federazione, Capobianco tornò a Caserta per sostituirlo. È pienamente da condividere l’annotazione che “la nomina di Peppino fu decisa, probabilmente, per dare un segnale contro l’industrialismo che si riteneva responsabile delle disgregazioni sociali e culturali esistenti nella società”, ben sapendo che questa cultura per la verità è stata sempre presente e lo è tutt'ora nelle fila della sinistra casertana. Ma Capobianco non aderì mai a tali posizioni; al contrario, l’elezione di Antonio Reccia (operaio Olivetti) al Comitato Centrale del Pci, la sua sostituzione fortemente voluta con il giovane Adelchi Scarano nonché l’elezione del segretario della Camera del Lavoro Paolo Broccoli al parlamento nazionale dimostrano che l'operaismo per lui era decisivo per il rinnovamento del Pci e della politica meridionalistica.
Capobianco lasciò Caserta dopo le elezioni del 1976: si era chiuso un ciclo politico, quello segnato dalla presenza e dall’azione del movimento operaio ed aveva inizio il lungo processo della ristrutturazione i cui effetti sono ancora oggi operanti nel tessuto sociale della nostra provincia. Continuò il suo lavoro come coordinatore della segreteria campana del partito.
La Direzione del Pci nel fare un bilancio di venti anni di industrializzazione del Mezzogiorno e nel presentare specifiche proposte per la reindustrializzazione riteneva che a Caserta esistessero elementi di sviluppo potenzialmente in grado di fare dell’area casertana un fattore propulsivo per l’economia del Mezzogiorno e per la ristrutturazione produttiva e industriale dell'intero paese. In questo contesto egli maturò la decisione di lasciare la politica attiva e di lì a qualche anno si mise in pensione. E’ utile cercare di capire per quale motivo Capobianco, dopo circa quaranta anni, cambiò forma al suo impegno politico ed inoltre sostituì l’osservazione del passato alla quotidianità. Egli già ripetutamente aveva tentato di approfondire il socialismo e le lotte sociali nel Mezzogiorno prima e dopo la Grande guerra, soprattutto con la biografia di Indaco: «La diffusione del socialismo nella Terra di Lavoro, il suo difficile procedere è storia di scelte difficili e di dure lotte, di conquiste lente e faticose, mentre il processo di aggregazione degli intellettuali al movimento socialista e alle lotte proletarie nel Mezzogiorno del primo Novecento era solo agli inizi e si sviluppa tra difficoltà enormi».
In questi termini lo storico Francesco Barbagallo commenta il lavoro di Peppino. “Per guarire la città dai suoi mali è necessario saperne il passato»: era il suggerimento di Platone a guidare Capobianco nel suo percorso attraverso la memoria. Ma questo suo spostarsi lateralmente rispetto agli esiti effettuali della storia, a fianco delle singole ed individuali persone vittime dei rapporti di forza della politica o della violenza organizzata dell’occupazione nazista continuava il suo impegno iniziale della scelta di campo a fianco di coloro che non avevano capacità di rappresentarsi”.

In ricordo di Mario Pignataro, homo civicus
Il 17 settembre 2022 decorre il decennale della scomparsa di Mario Pignataro, una delle personalità di spicco del movimento operaio e democratico, delle lotte per la rinascita della nostra provincia. Come ha ricordato in una sua nota il prof. Achille Flora, alla soglia dei novanta anni Mario ci ha lasciato dopo aver attraversato l’intero ‘900 con tutti i suoi orrori e le sue speranze, ma anche le sue conquiste e sconfitte per il mondo del lavoro. Mario s’iscrisse al PCI all’età di vent’anni e, dopo l’esperienza di organizzatore degli operai serici, entrò a far parte della Segreteria della Camera del Lavoro di Caserta di cui fu segretario dal 1958 al 1961.
Più volte incarcerato e processato per aver organizzato le lotte sociali degli anni ’50, s’impegnò anche nell’attività politico istituzionale come consigliere comunale a Caserta dal 1947 al 1950 e poi dal 1960 al 1980. Già questo basterebbe a delinearne la figura di alto profilo di uomo e dirigente politico-sindacale, impegnato nell’attività sociale a fianco delle categorie più deboli. Insieme a Peppino Capobianco, a Mimì Ianniello, ad Andrea Sparaco ed altre personalità della sua generazione, può essere ricordato come un “costruttore di democrazia”, come uno dei protagonisti più impegnati per la rinascita di Terra di Lavoro nel secondo dopoguerra: come operaio, militante e dirigente sindacale, in prima fila nelle lotte per la conquista delle terre incolte; sempre a fianco degli operai tessili delle seterie della sua borgata S. Leucio e delle tante vertenze che segnarono gli anni della industrializzazione (come quella emblematica della Saint Gobain), in difesa dei fondamentali diritti sociali ed umani. Giovanissimo si iscrisse al PCI all’età di vent’anni e fu tra fondatori della Camera del Lavoro di Caserta, di cui fece parte come segretario dal 1958 al 1961. Più volte incarcerato e processato per aver organizzato le lotte sociali degli anni ’50, s’impegnò anche nell’attività politico istituzionale come consigliere comunale a Caserta dal 1947 al 1950 e poi dal 1960 al 1980. Negli ultimi anni della sua vita prese parte attiva alle iniziative del mondo del volontariato dedicate ai temi della memoria storica ed economica, in particolare dell’Auser.
Sicuramente va annoverato tra gli intellettuali meridionali più attivi ed impegnati, dimostrando molta tenacia anche negli studi, conseguendo a quarant’anni la laurea in Economia e Commercio. Poi si è specializzato nelle ricerche storiche e politiche. Era molto orgoglioso di alcuni riconoscimenti, come quello ricevuto nel 1981 con una borsa di studio ISVEIMER per una ricerca sul “modello di sviluppo casertano e la questione meridionale”.
Particolarmente intensa fu la collaborazione con varie testate giornalistiche e riviste specializzate (a partire da Il Mattino). Ancora più rilevante è stato il contributo alla ricostruzione della storia economica di Terra di Lavoro, con alcune opere che rimangono fondamentali per chiunque voglia approfondire la nostra realtà: a partire dalle monografie di storia del movimento operaio, come “La situazione nelle campagne e le lotte contadine nel secondo dopoguerra” (L’Aperia, 1999); “Quando S. Leucio era la città della seta” (CGIL, 2004), per citarne solo alcuni. Così come le pubblicazioni sull’economia casertana: dalla “Storia economica della provincia di Caserta 1945-2005” suddivisa in quattro volumi, a “L’economia casertana 1993-1997” che riceverà il premio Alberto Beneduce, fino all’ultimo volume con la presentazione del prof. Achille Flora, della Facoltà di Economia della SUN.
Di lui va ricordato il forte senso civico ed impegno sociale (come dice Franco Cassano in un suo bel libro, si potrebbe definire un vero “homo civicus”, l’emblema del vero cittadino attivo da proporre alle nuove generazioni).
La sua vita fu caratterizzata da una costante tensione civile e culturale, capace di coniugare insieme la partecipazione, passione umana e riflessione critica. Fin negli ultimi momenti in cui le forze gli consentivano di uscire era partecipe alle attività delle “Piazze del Sapere” e della vita socio-culturale della città, in cui portava sempre il suo contributo di uomo colto e curioso, di profonda umiltà e disponibilità al confronto – doti sempre più difficili a ritrovare nei nostri tempi. Per questo ha sempre mantenuto bei rapporti con alcune personalità ed enti, a partire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fino a quello della Camera di Commercio in carica Tommaso De Simone, con il quale aveva messo a disposizione le sue competenze per rilanciare la Biblioteca del sapere economico di Terra di Lavoro). Con lui abbiamo avuto modo di collaborare mettendo a disposizione tanti materiali e documenti della nostra realtà sociale e culturale. Negli ultimi tempi stava lavorando ad una rielaborazione delle sue ricerche di storia dell’economia locale. Speriamo che questi materiali siano tra sue carte per poterli consultare e diffondere. A tal fine la rete delle Piazze del Sapere intende organizzare un incontro per ricordare degnamente la sua memoria, concordando con i familiari data e modalità.
*Pasquale Iorio, le Piazze del Sapere, Caserta, maggio 2022
Con la sua scomparsa Mario Pignataro lascia un vuoto profondo nella vita sociale, politica e culturale della nostra provincia. Insieme a Peppino Capobianco, Andrea Ianniello, Andrea Sparaco ed altre personalità della sua generazione, può essere ricordato come un "costruttore di democrazia", come uno dei protagonisti più impegnati per la rinascita di Terra di Lavoro nel secondo dopoguerra: come operaio, militante e dirigente sindacale, in prima fila nelle lotte per la conquista delle terre incolte; sempre a fianco degli operai tessili delle seterie della sua borgata S. Leucio e delle tante vertenze che segnarono gli anni della industrializzazione (come quella emblematica della Saint Gobain), in difesa dei fondamentali diritti sociali ed umani.
Giovanissimo si iscrisse al PCI all'età di vent'anni e fu tra fondatori della Camera del Lavoro di Caserta, di cui fece parte come segretario dal 1958 al 1961. Più volte incarcerato e processato per aver organizzato le lotte sociali degli anni '50, s'impegnò anche nell'attività politico istituzionale come consigliere comunale a Caserta dal 1947 al 1950 e poi dal 1960 al 1980. Negli ultimi anni della sua vita prese parte attiva alle iniziative del mondo del volontariato dedicate ai temi della memoria storica ed economica, in particolare dell'Auser.
Sicuramente va annoverato tra gli intellettuali meridionali più attivi ed impegnati, dimostrando molta tenacia anche negli studi, conseguendo a quarant'anni la laurea in Economia e Commercio. Poi si è specializzato nelle ricerche storiche e politiche. Era molto orgoglioso di alcuni riconoscimenti, come quello ricevuto nel 1981 con una borsa di studio ISVEIMER per una ricerca sul "modello di sviluppo casertano e la questione meridionale". Particolarmente intensa fu la collaborazione con varie testate giornalistiche e riviste specializzate (a partire da Il Mattino).
Ancora più rilevante è stato il contributo alla ricostruzione della storia economica di Terra di Lavoro, con alcune opere che rimangono fondamentali per chiunque voglia approfondire la nostra realtà: a partire dalle monografie di storia del movimento operaio, come "La situazione nelle campagne e le lotte contadine nel secondo dopoguerra" (L'Aperia, 1999); "Quando S. Leucio era la città della seta" (CGIL, 2004), per citarne solo alcuni. Così come le pubblicazioni sull'economia casertana: dalla "Storia economica della provincia di Caserta 1945-2005" suddivisa in quattro volumi, a "L'economia casertana 1993-1997" che riceverà il premio Alberto Beneduce, fino all'ultimo volume con la presentazione del prof. Achille Flora, della Facoltà di Economia della SUN. Di lui va ricordato il forte senso civico ed impegno sociale (come dice Franco Cassano in un suo bel libro, si potrebbe definire un vero "homo civicus", l'emblema del vero cittadino attivo da proporre alle nuove generazioni). La sua vita era caratterizzata da una costante tensione civile e culturale, capace di coniugare insieme la partecipazione, passione umana e riflessione critica. Fin negli ultimi momenti in cui le forze gli consentivano di uscire era partecipe alle attività delle "Piazze del sapere" e della vita socio-culturale della città, in cui portava sempre il suo contributo di uomo colto e curioso, di profonda umiltà e disponibilità al confronto – doti sempre più difficili a ritrovare nei nostri tempi. Per questo ha sempre mantenuto bei rapporti con alcune personalità ed enti, a partire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fino a quello della Camera di Commercio in carica Tommaso De Simone, con il quale aveva messo a disposizione le sue competenze per rilanciare la Biblioteca del sapere economico di Terra di Lavoro). Con lui ho avuto modo di collaborare mettendo a disposizione tanti materiali e documenti della nostra realtà sociale e culturale. Di recente mi aveva chiamato per dirmi che stava lavorando ad una rielaborazione delle sue ricerche di storia dell'economia locale. Spero che questi materiali siano tra sue carte per poterli consultare e diffondere. A tal fine la rete delle Piazze del Sapere intende organizzare un incontro per ricordare degnamente la sua memoria in un luogo come la libreria Feltrinelli (di cui era assiduo frequentatore), concordando con i familiari data e modalità.
Biografia ed opere. Nasce a San Leucio di Caserta nel 1923. Aderisce al PCI alla fine del 1945. Nell’autunno del 1945 in quanto organizzatore sindacale degli operai serici entra a far parte della Segreteria della Camera del Lavoro di Caserta, di cui diventa segretario responsabile dal 1958 al 1961. Fu tra i dirigenti in prima fila nelle lotte sociali del dopoguerra e degli anni ’50 in Terra di Lavoro; più volte venne incarcerato e processato. Poi divenne consigliere comunale di Caserta dal 1947 al 1950 e venne rieletto dal 1960 al 1980. Fu tra i fondatori e promotori della Confesercenti, di cui è stato presidente dal 1975 al 1980. Si laureò in Economia e Commercio presso l’Università di Napoli con una tesi su “La rendita fondiaria”. Nel 1981 vince una borsa di studio dell’ISVEIMER con una ricerca sul tema: “Il modello di sviluppo casertano e la questione meridionale”. Divenne esperto di pianificazione commerciale, acquisì la qualifica di giornalista pubblicista con tanti articoli e saggi, fu studioso di problemi economici apprezzato dai vari enti (in particolare collaborò con la Camera di/Commercio).
Tra le sue opere e ricerche ricordiamo in particolare: “L’economia di Terra di Lavoro dal 1945 al 1985”, a cui seguì la raccolta di saggi: “Una Provincia che vuole risorgere: l’economia casertana dal 1986 al 1992 vista da vicino”. Con la sua scomparsa Pignataro ha lasciato un vuoto profondo nella vita sociale, politica e culturale della nostra Provincia. Insieme con Peppino Capobianco, Mimì Ianniello, Andrea Sparaco ed altre personalità della sua generazione, può essere ricordato come un “costruttore di democrazia”, come uno dei protagonisti più impegnati per la rinascita di Terra di Lavoro nel secondo dopoguerra: come operaio, militante e dirigente sindacale, in prima fila nelle lotte per la conquista delle terre incolte; sempre a fianco degli operai tessili delle seterie della sua borgata S. Leucio e delle tante vertenze che segnarono gli anni della industrializzazione (come quella emblematica della Saint Gobain), in difesa dei fondamentali diritti sociali ed umani. Giovanissimo si iscrisse al PCI all’età di vent’anni e fu tra fondatori della Camera del Lavoro di Caserta, di cui fece parte come segretario dal 1958 al 1961. Più volte incarcerato e processato per aver organizzato le lotte sociali degli anni ’50, s’impegnò anche nell’attività politico istituzionale come consigliere comunale a Caserta dal 1947 al 1950 e poi dal 1960 al 1980.
Negli ultimi anni della sua vita prese parte attiva alle iniziative del mondo del volontariato dedicate ai temi della memoria storica ed economica, in particolare dell’Auser. Sicuramente va annoverato tra gli intellettuali meridionali più attivi ed impegnati, dimostrando molta tenacia anche negli studi, conseguendo a quarant’anni la laurea in Economia e Commercio. Poi si è specializzato nelle ricerche storiche e politiche. Era molto orgoglioso di alcuni riconoscimenti, come quello ricevuto nel 1981 con una borsa di studio ISVEIMER per una ricerca sul “modello di sviluppo casertano e la questione meridionale”. Particolarmente intensa fu la collaborazione con varie testate giornalistiche e riviste specializzate (a partire da Il Mattino).
Ancora più rilevante è stato il contributo alla ricostruzione della storia economica di Terra di Lavoro, con alcune opere che rimangono fondamentali per chiunque voglia approfondire la nostra realtà: a partire dalle monografie di storia del movimento operaio, come “La situazione nelle campagne e le lotte contadine nel secondo dopoguerra” (L’Aperia, 1999); “Quando S. Leucio era la città della seta” (CGIL, 2004), per citarne solo alcuni. Così come le pubblicazioni sull’economia casertana: dalla “Storia economica della provincia di Caserta 1945-2005” suddivisa in quattro volumi, a “L’economia casertana 1993-1997” che riceverà il premio Alberto Beneduce, fino all’ultimo volume con la presentazione del prof. Achille Flora, della Facoltà di Economia della SUN Di lui va ricordato il forte senso civico ed impegno sociale (come dice Franco Cassano in un suo bel libro), si potrebbe definire un vero “homo civicus”, l’emblema del vero cittadino attivo da proporre alle nuove generazioni.
La sua vita era caratterizzata da una costante tensione civile e culturale, capace di coniugare insieme la partecipazione con la passione umana e riflessione critica. Fin negli ultimi momenti in cui le forze gli consentivano di uscire era partecipe alle attività delle “Piazze del sapere” e della vita socio-culturale della città, in cui portava sempre il suo contributo di uomo colto e curioso, di profonda umiltà e disponibilità al confronto – doti sempre più difficili a ritrovare nei nostri tempi. Per questo ha sempre mantenuto bei rapporti con alcune personalità ed enti, a partire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fino a quello della Camera di Commercio in carica Tommaso De Simone, con il quale aveva messo a disposizione le sue competenze per rilanciare la Biblioteca del sapere economico di Terra di Lavoro. Con lui ho avuto modo di collaborare mettendo a disposizione tanti materiali e documenti della nostra realtà sociale e culturale. Di recente mi aveva chiamato per dirmi che stava lavorando ad una rielaborazione delle sue ricerche di storia dell’economia locale. Spero che questi materiali siano tra sue carte per poterli consultare e diffondere. A tal fine la rete delle Piazze del Sapere ha organizzato un incontro per ricordare degnamente la sua memoria in un luogo come la libreria Feltrinelli (di cui era assiduo frequentatore), concordando con i familiari data e modalità.
Dario Russo, un chirurgo comunista
Una delle giornate che non dimenticherò mai fu quella vissuta all’inizio di giugno 1980 in occasione dei funerali di Dario Russo. Il chirurgo fu vittima della assurda follia e violenza di una donna che lo accoltellò in modo irreparabile nel suo studio all’ospedale civile di Capua. Era un medico di alta professionalità ed umanità, ed anche un uomo politico, un comunista sempre pronto ad aiutare i compagni e tutte le persone che si rivolgevano a lui (anche nella sua esperienza di consigliere comunale a Caserta). Poche volte, forse solo ai funerali di Enrico Berlinguer, ho visto una intera città stringersi intorno al suo feretro, una folla sterminata, corale e commossa per l’ultimo saluto.
Come ha ben ricordato Francesco De Core (capo redattore de Il Mattino) in uno dei suoi diari dedicati a quegli anni, egli era un medico, un bravissimo medico. Un chirurgo abile, un uomo colto, di poche parole e di silenzi sereni. Una persona mite, con una bella e solida famiglia. Ed era un comunista. Il fatto di essere comunista in una città tendenzialmente democristiana, anzi molto democristiana, non gli precludeva la stima di chi non la pensava come lui. Mai, come nel suo caso, la passione politica non era di alcun peso nella valutazione della persona; di più, ne faceva risaltare gli aspetti umanamente più rilevanti. Che non erano affatto pochi.
Il chirurgo con la moglie e i fratelli d’estate erano soliti villeggiare per un paio di settimane in un albergo sul mare a Capitello, a poca distanza dalla casa di De Core a Scario, Cilento estremo, ruvido e corposo. Era un piacere ascoltarlo, seguirne i suoi ragionamenti, senza peraltro intrometterci in discorsi ai quali potevamo aggiungere poco. E lui pareva dare conforto alle sue inclinazioni semplicemente con il suo stile di vita. Una volta, vedendolo sfogliare alcuni libri nella hall dell’albergo, “mi regalò il resoconto antifascista di Sandro Pertini “Sei condanne, due evasioni”, un Oscar Mondadori che conservo tra le cose a me più care, perché mi aprì la strada a Silone, a Chiaromonte (Nicola), agli eretici di sinistra, ai libertari, a Camus” (ricorda De Core).
Altruista, posato, profondo. Un uomo libero, di etica vissuta per la sua gente e con la sua gente, non d’astratta moralità né di stolta fedeltà ai precetti del partito, che pure serviva con incarichi di prestigio. Dario Russo non aveva perso il proverbiale aplomb neppure quando due anni prima era entrato in sala operatoria per ricucire il pancreas del figlio Danilo, accoltellato da estremisti di destra durante uno di quei cortei che intorbidirono pure il clima di Caserta, già plumbeo nel resto del Paese. Gli salvò la vita, e non fu leggenda. I colleghi dissero di non aver mai assistito a un intervento così delicato e complesso per mano di un congiunto. Dario non parlò mai, chiese solo alla fine, distrutto, un bicchiere d’acqua, gli occhi lucidi di sudore e, forse, qualche lacrima a velarne la vista tra gioia e stanchezza. Erano tempi di pudore, non di sentimenti volgarmente esibiti. Furono ore di vuoto riempito solo da trepidazione e porte che sbattevano. Quando ci dissero che Danilo era fuori pericolo, tornammo a casa con la gioia nel cuore; dentro di noi eravamo certi che il padre avrebbe salvato il suo ragazzo. E così fu.
Ma non ci fu medico che in quell’anno maledetto salvò la vita di Dario Russo. La mattina del 30 maggio, uscito dall’ospedale Palasciano di Capua, dove lavorava, e appena entrato nella sua auto, una 500 celestina, venne affrontato da una donna operata mesi prima per gozzo tiroideo. Già da tempo lei lo importunava, gli stava dietro, chiedendogli insistentemente un posto di lavoro e altre assurdità del genere, sobillata da chissà chi. All’ennesimo diniego, quel giorno esplose la follia: con un trincetto da calzolaio, Agnese Di Giovannantonio colpì il medico alla gola. Dario Russo se ne andò dopo qualche giorno, tra il dolore e l’incredulità generali. Una sofferenza lancinante attraversò Caserta come una scossa violenta e inattesa su un corpo indifeso, e si videro scene mai avvenute prima. Tutti in quei giorni eravamo confusi tra l’agguato e la fine, eravamo attoniti e distrutti, nessuno del resto riusciva a spiegarsi il perché dell’accaduto, un motivo proprio non c’era, e la ricerca si rivelava una inutile tortura che non avrebbe lenito lo strazio; il male non aveva bisogno di una spiegazione, nelle piccole come nelle grandi storie.
De Core ricorda che “prendeva spesso quel libro come un amuleto, ma non servì a nulla. Non c’era un Dario Russo a operare Dario Russo. E comunque quello era il destino: atroce, agghiacciante”. La camera ardente fu allestita nella sede della Federazione del Pci, nella stretta via Maielli. Il via vai fu interminabile, incessante, un fiume composto e composito, che in seguito la calda memoria di Franco Tontoli non smette di rievocare come se quel dramma assurdo fosse avvenuto non più tardi di ieri: c’erano preti e operai, ferrovieri e gente comune, politici e amici, professori e impiegati, militanti comunisti e persone che con il comunismo non volevano avere nulla a che fare, ma con Dario Russo sì, e lo piangevano come fosse scomparso un parente, ‘o dottore. Venivano in tanti da quella che era, a ricordarci di Pasolini e dei suoi versi amari, la Terra di Lavoro che il poeta aveva conosciuto, terra di mani grosse, di schiene spezzate, di corpi deturpati dalla fatica, ognuno con il suo ricordo, il segno di un passaggio, di una parola, di un gesto con Russo all’insegna della gratuità, della generosità.
Pugni chiusi e silenzio, mascelle serrate e silenzio, lacrime e silenzio, rabbia e silenzio. Gli applausi fortunatamente non appartenevano al rito; il silenzio, assordante, era ancora abitabile. Sarebbe diventato deputato, Dario Russo, primo dei non eletti del Pci nella circoscrizione Napoli-Caserta, subentrando a Giorgio Amendola, morto da poche ore. Ma alla Camera il medico gentile non ci arrivò mai. C’era qualcosa di surreale in quanto stava avvenendo. Dietro al feretro, accanto a Peppino Capobianco e Antonio Bellocchio, la mole di Gerardo Chiaromonte sembrava farsi diafana tra la folla, e le parole pronunciate in piazza Vanvitelli avrebbero dovuto confortarci, perché a quei valori che la vita concreta di Dario Russo si rifaceva potevamo attingere, una pacata energia e una naturale compostezza che erano di monito e di esempio. Ma qualcosa si era incrinato dentro ciascuno di noi, e solo il tempo avrebbe messo un velo di polvere sui nostri traumi, senza peraltro curarli affatto, o neppure cancellarli. “Di Dario Russo mi pare di rivedere – così conclude il suo ricordo De Core – quando la malinconia fa il suo effetto, la sagoma in lontananza, con quei suoi occhiali grandi e spessi, lungo la cancellata che costeggia l’esplosione di natura e di verde del parco reale, in via Giannone. Mi piacerebbe, un giorno, tornare a parlarci – oggi che io ho poco più della sua età cristallizzata dalla morte nel ricordo, 52 anni – ma a parlarci per davvero, e chiedergli perché, quella volta a Capitello, volle farmi dono di un libro che parlava di dittatura e di libertà, e di un mondo che, nonostante fosse patrimonio collettivo, a noi ragazzi pareva distante dal nostro angolo di prospettiva, un angolo di ampiezza ancora vaga”.
Domenico Ianniello (detto Mimì)
Ianniello (detto Mimì) è stato certamente una delle figure più emblematiche della sinistra casertana nel secondo dopoguerra. Fu un intellettuale eclettico e rigoroso, di grande simpatia umana e comunicativa, come bene emerge dai due scritti a lui dedicati: il primo curato da Lino Martone su “Mimi Ianniello, un intellettuale ingraiano”, il secondo da Maria Rosaria Iacono (storica dirigente nazionale di Italia Nostra) intitolato “La ragione e la passione nella ricerca storica”. Martone ebbe con Mimì un rapporto fecondo, intenso, un vero e proprio scambio culturale e politico “intergenerazionale” (come si direbbe oggi), fatto di tante battaglie dialettiche negli organismi di partito, nelle sezioni e nelle piazze dei comuni dell’Alto casertano, con tante nottate trascorse insieme a compagni/e (magari con un buon bicchiere di vino delle nostre terre) a discutere del futuro della democrazia e del Mezzogiorno. In questa circostanza mi piace ricordare che nella metà degli anni ’70 la vecchia guardia che dirigeva il PCI (sotto la guida di Peppino Capobianco, a cui Mimì era molto legato, insieme con i funzionari storici come Umberto Barra, Salvatore Martino, Ciccio d’Ambrosio e Salvatore De Cicco), decise di affidare le sorti della Federazione casertana ad una nuova leva di giovani quadri e militanti. Quasi tutti/e provenivano dai movimenti giovanili e studenteschi; molti abbandonarono gli studi e si dedicarono anima e corpo alla vita di “rivoluzionari di professione” (così ci definivamo allora). Alcuni passarono per la FGCI, altri dal sindacato e dalla formazione professionale, altri dall’associazionismo cattolico, prima di assumere incarichi di direzione nelle varie “commissioni di lavoro” in cui si articolava l’organizzazione della Federazione. A memoria cerco di ricordarli: da Peppino Venditto a Luisa Cavaliere, da Adelchi Scarano a Nicola Russo (futuri giovani segretari provinciali del PCI), da Ugo Di Girolamo ad Amedeo Marzaioli, da Franco De Angelis a Tina D’Alessandro), da Michele Colamonici (che è stato Segretario Provinciale CGIL) fino al gruppo dei sindacalisti come Michele Gravano, Giancarlo Bottone, Corrado Cipullo, Adolfo Villani, che iniziarono la loro militanza nella CGIL. Vanno aggiunti anche il pratese Claudio Martini (che è stato Presidente Regione Toscana) e Piero Lapiccirella (Ex Segretario della gioventù comunista, prematuramente scomparso a Napoli). In questo modo possiamo dire che venne favorito un processo di rinnovamento dei gruppi dirigenti a tutti i livelli, anche nelle sezioni e nel sindacato. E i risultati si videro anche sul piano politico ed elettorale con il successo nelle votazioni della seconda metà degli anni ’70.
Un intellettuale ingraiano
Domenico Ianniello, per tutti “Mimì”, venne ricordato in un intervento sul giornale on line Alto Casertano-Matesino nel 2011. Dopo una lunga convalescenza per sofferenze cardiache, ricoverato d’urgenza presso l’unità coronarica del Civile di Caserta, non ha retto ed è deceduto. Nato nel 1928 da famiglia originaria di Sora (sempre Terra di Lavoro) con papà ferroviere; unito da forti legami con la sua compagna di sempre, la moglie Serafina, ha lasciato insieme a lei i suoi tre amati figli Andrea, Pietro e Fania. Soprattutto ha lasciato un altro grande vuoto nella memoria storica del PCI e dell’intera Sinistra di Caserta.
La notizia della sua scomparsa ci ha fortemente addolorato e rattristato, non solo per i grandi legami di amicizia tra la sua e la mia famiglia (Mimì e Serafina sono stati anche i miei testimoni di nozze); ma perché insieme avevamo programmato di dare un nuovo e particolare contributo alla storia del movimento operaio e contadino di Terra di Lavoro, organizzandone la sua memoria con una associazione intitolata a Ingrao e Gramsci, perché entrambe hanno origine da Terra di Lavoro. Avevamo intenzione di organizzare una memoria salvaguardandola da chi l’ha distrutta e abiurata e tenta di farne un uso abusivo e opportunista. Una memoria per dare un aiuto concreto alla ricostruzione della Sinistra Casertana, oggi in grande difficoltà e confusa dal più becero dei trasformismi. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo, avevamo abbozzato anche una proposta di Statuto; ci lavoreremo adesso con più impegno e in suo onore.
Mimì, insieme a Peppino Capobianco, è stato il mio autentico maestro, senza per questo sminuire il ruolo e il contributo dato da tanti altri autorevoli dirigenti. Da sempre ha rappresentato l’ala intellettuale più avanzata del PCI casertano. Ingraiano convinto e coerente, anche dalla parte del gruppo de Il Manifesto, rimase all’interno del PCI con Ingrao per esercitare quella funzione essenziale della sinistra del partito. La sua impostazione, fortemente intellettuale, impregnata nel pensiero e nella ricerca del che fare, capire fino all’ossessione qualche volta, aveva però una caratteristica pregiudiziale e di fondo: il rifiuto dell’ideologismo ripetitivo, un grande senso della libertà del pensiero, partire dalla storia delle realtà sociali che incontrava, capirle e partire da esse per trarne la sintesi. La sua funzione non è mai stata quella del comunista che portava il credo e la verità ma quella di costruire momenti di organizzazione democratica della società e dei lavoratori. Per questo, pur essendo e rappresentando da sempre il capo dei seguaci di Ingrao a Caserta, non ha mai concepito l’ingraismo come sterile ripetizione del primato della classe operaia.
Ha sempre assunto la questione agraria e contadina come la questione centrale di Terra di Lavoro, come di tutto il Mezzogiorno. Per questo, pur ricoprendo un incarico squisitamente politico e di partito, nei massimi organismi della federazione casertana del PCI, collaborava contemporaneamente con la CGIL, insieme con Paolo Broccoli e Pietro Di Sarno, per dare continuità al rafforzamento organizzativo dei braccianti e dare una testa alla storica vertenza dei mezzadri delle tenute ex borboniche di Mastrati e di Torcino.
Con questa peculiare apertura del suo pensiero, insieme con P. Broccoli, allora vice segretario della CGIL, dette il massimo contributo all’allora segretario federale del PCI Peppino Capobianco (stiamo intorno al 1973- 74), per una svolta berlingueriana del Partito; per un profondo rinnovamento teso a ridare al PCI una nuova grande autonoma capacità di dar vita allo sviluppo dell’organizzazione democratica dei Lavoratori, dei contadini e della società. Per questo fu fatta la scelta di fondo di rinnovare e rifondare l’allora segreteria provinciale del PCI basandola sull’ingresso di due nuove esperienze sindacali, quella di Adelchi Scarano, che poi divenne segretario, e quella mia, stiamo all’inizio dell’estate 1974.
Non ci fu alcuna remora di Mimì ad uscire dalla segreteria di allora, puntando tutto il suo impegno nel lavoro e nell’entusiasmo di un giovane ingraiano come me; continuò la sua opera ed è grazie a questa grande simbiosi che nacquero le indimenticabili vertenze come la guerra del pomodoro di Villa Literno e la Vertenza Gezoov nel Matese, che tra l’altro fece nascere la prima esperienza di “compromesso storico” presso la Comunità Montana.
L’altra grande peculiarità e caratteristica di Mimì era quella di un rifiuto ideologico della politica e del partito come occasione di carriera. È memorabile il suo caparbio rifiuto della proposta insistente di Peppino Capobianco e di tutti noi di candidarlo come sicuro eletto in un collegio senatoriale, al momento in cui si pose l’alternanza delle cariche parlamentari nella nostra provincia. Mimì, contemporaneamente al suo forte impegno politico, contrassegnato da una grande aspirazione agli ideali di libertà e giustizia, non ha mai tralasciato la sua passione di lavoro fondato su un grande amore per la matematica e la fisica. Andava fiero nel ricordare a tutti, ai giovani in primo luogo, che lui era stato allievo del grande matematico e rivoluzionario Caccioppoli.
In definitiva la personalità e il contributo di Mimì si possono meglio sintetizzare e descrivere con un esempio che è rimasto scolpito nella mia formazione: stavamo nella sezione PCI di Teano, sezione che frequentavamo spesso per i grandi legami che Mimì aveva con intellettuali come C. Razzino, L. Vernone e un gruppo di giovani fortemente impegnati. Una sera, di fronte alle accentuazioni fortemente ideologiche e un poco settarie di questi giovani, Mimì interruppe facendo la provocatoria domanda: “Ma da che lato sorge il sole qui?”; la sezione stava in un vicolo cieco e buio; ci fu un attimo di smarrimento e a gruppi indicarono il sorgere in tre lati diversi e poi il tutto si concluse con una grande risata con l’affermazione di Mimì: “Come pensate di cambiare le cose del vostro paese se fate fatica a sapere da che lato sorge il sole?”, come per dire “innanzitutto cercate di capire a quale società vi rivolgete e quali sono gli interessi sociali legittimi”. Per questo importante passato e ruolo di Domenico Ianniello, Mimì, fu un atto d’obbligo per tutti noi e per i più giovani di chiedergli di apporre la prima firma alla presentazione al Congresso di Caserta della mozione di Ingrao per il Congresso di Firenze nel 1986 dove fu rieletto Natta segretario. Mozione che a Caserta fu largamente vincente con oltre il 50% ma che poi Ingrao ritirò a Firenze.
**Lino Martone
La passione e la ragione nella ricerca storica Dopo tanti anni dalla sua pubblicazione si riproporne il quaderno di Frammenti “Caserta nell’Ottocento” di Domenico A. Ianniello che focalizza la sua attenzione sui due piani urbanistici ottocenteschi che hanno interessato la città di Caserta, in momenti decisivi della storia locale e nazionale: il primo in epoca preunitaria il secondo datato 1884-86. Le ricerche storico-documentarie e cartografiche alla base della pubblicazione costituiscono un corpus eterogeneo per provenienza e tipologia ma unitario per il metodo critico con cui sono state esaminate e proposte al pubblico.
Attraverso articoli e pubblicazioni, interventi a convegni e pubblici dibattiti Domenico A. Ianniello ha progressivamente rivelato anche ai più scettici la continuità nello sviluppo urbanistico della città che proseguiva di pari passo – secondo un percorso condizionato dalle condizioni economiche e sociali degli abitanti – con il rafforzarsi dell’identità culturale che trova la sua rappresentazione plastica nella città stessa. Studenti, studiosi di storia locale ma anche tecnici, architetti e urbanisti hanno potuto ricostruire lo stretto legame esistente tra storia ed architettura che la città nel suo sviluppo, soprattutto negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, aveva distrutto abbattendo i manufatti architettonici, ridisegnando le piazze, ampliando le strade, disconoscendone il valore di testimonianza del passato. Ianniello ha portato davanti agli occhi di tutti questo percorso con la pazienza certosina e la passione del ricercatore, ma anche con la lucida razionalità che gli veniva dalla sua formazione scientifica.
Il riferimento continuo al documento serve a dare forza e consapevolezza non tanto alla ricerca in sé ma alla “forma” di città così come si era evoluta nel corso dei secoli e a quella che si andava consolidando negli ultimi decenni. Da ciò la ricerca tenace delle “fonti”, la loro trascrizione, l’analisi e la messa in rete della documentazione acquisita come strumento interpretativo del passato e impegno civico dell’oggi, un contributo alla convivenza civile e alla costruzione di una città intesa come patrimonio di tutti, a partire dalle sue testimonianze storiche. Questa “tensione” civica costituisce il filo conduttore della ricerca storica che, secondo la lezione crociana, approfondisce i fatti che osserva, cerca di mettere in armonia le premesse e le conclusioni, sottoponendo il tutto al vaglio della critica senza indulgere in un giudizio preformato.
La scelta di indagare lo sviluppo urbanistico della città ottocentesca era dettata da una forte consapevolezza di come questo periodo storico costituisse uno snodo, una sorta di cerniera tra lo sviluppo della città in pianura, la costruzione della Reggia e la città contemporanea frutto di una pianificazione reale – peraltro spesso negata dagli studiosi come più volte sottolinea lo stesso Ianniello – in continuità con l’ excursus storico del territorio, dall’epoca classica a oggi. La pubblicazione del 1993 fornisce validi apporti per la ricostruzione della storia urbana, con l’ausilio delle inedite fonti documentarie e dei due piani urbanistici ottocenteschi. Il primo ha un periodo di realizzazione abbastanza lungo (1812-1847) e si caratterizza per “un esplicito programma pianificato che, coinvolgendo assieme la città, la Reggia, la grande piazza Ellittica ed il Parco”, prevede la costruzione di due assi stradali quello sulla direttrice Nord-Sud (la Reggia, piazza Ellittica,la Rotonda di S.Nicola la Strada) che riprende l’originario progetto Vanvitelliano, l’altro allineato alla Reggia sulla direttrice Est-Ovest (che originerà il Corso della città, l’elemento fondamentale di questo primo piano ottocentesco della città).
La rappresentazione del territorio casertano precedente a questi interventi è documentata dalla “Pianta topografica delle reali delizie di Caserta, S. Leucio e Sommacco con la città di Caserta stessa, sui casali e territori circonvicini”, realizzata da Ferdinando Patturelli nel 1826 e conservata nella biblioteca della Storia Patria di Napoli. È possibile così confrontare e valutare l’impatto delle successive trasformazioni nel territorio casertano: sullo sfondo si distende la Tenuta di San Leucio, si riconosce la configurazione paesaggistica del Giardino Inglese e il parco con la vegetazione potata in bell’ordine ed i viali che si intersecano geometricamente, la Peschiera grande, la Castelluccia, la Reggia con la grande piazza ellittica. La raffigurazione dei casali e dei “territori circonvicini” alla Reggia e alla città di Caserta evidenzia la ridotta espansione urbanistica e il sistema viario non ancora evoluto nonostante la progettazione vanvitelliana, alla quale Marcello Fagiolo (Funzioni, simboli, valori della Reggia di Caserta. Roma 1963) non esitava a riconoscere un “abbozzo di pianificazione regionale” formato “dalle cinque vie che partono dalla piazza ellittica collegandola a Napoli, Capua, Casertavecchia, i borghi rurali, ponendo la piazza e la Reggia al centro di una popolosa e attiva regione”.
Il secondo piano urbanistico, presentato nel 1884, sancisce l’espansione verso Est della città anche per la collocazione degli impianti ferroviari lungo l’asse meridionale, tagliando per sempre l’asse ideale di tutto il complesso vanvitelliano. Viene restituita l’immagine della Caserta post-unitaria: una città di dimensioni modeste con gli abitanti dediti in buona parte all’agricoltura ed al settore artigianale e commerciale. Si tratta di un assetto urbano in cui realtà contadina e territorio si bilanciano ed il tessuto urbano è costituito essenzialmente dal nucleo corrispondente all’antico villaggio Torre e dall’espansione ottocentesca.
Ma la ricerca di Ianniello si estende anche all’esame dei programmi urbanistici del XX secolo quando si pone il problema di una crescita degna di un capoluogo di provincia, in sintonia con la presenza dei grandi monumenti borbonici e con un loro inserimento vitale della dinamica cittadina: il piano regolatore commissionato dal commissario Bolis all’ing. Vincenzo Memma, durante il 1920 che auspicava un sottopassaggio alla ferrovia per congiungere la piazza allo stradone, poi abbandonato; il piano di ricostruzione del 1945-1946, confluito nel piano regolatore generale del 1954 con relativo regolamento edilizio; il prg del 1974 adottato ma fatto morire per strada; il piano regolatore del 1983, senza dimenticare le numerosissime varianti (cfr. D.A. Ianniello, Con la variante altri 56.000 vani “Frammenti”, dicembre 1991).
Dall’analisi tematica e cronologica dei piani urbanistici discendono alcune considerazioni che ancora oggi possiamo utilizzare come chiave interpretativa: 1) l’individuazione e l’attribuzione del principio di responsabilità per l’attuale “forma” della città non ascrivibile a “confusione e spontaneità” ma frutto di un insieme di decisioni e documenti ben riconosciuti; 2) la necessità di un’ampia e partecipata riflessione sulla città contemporanea, utilizzando come exemplum proprio il progetto vanvitelliano in cui le preesistenze e le innovazioni avevano trovato un giusto equilibrio; 3) la confutazione della “storiella” dell’estraneità della città alla Reggia e alla grande piazza ellittica antistante. Questi tre punti si ritrovano nel suo studio sull’Asse Ferdinandeo e i successivi sviluppi. La strada collega Capua con Caserta, e in particolare lo stradone che da Casapulla conduce al monumento ai Caduti di Caserta, passando per il Corso. L’opera, i cui lavori iniziano nel 1835, è legata alle necessità contingenti di ordine militare e costituisce una grande innovazione rispetto al progetto vanvitelliano oltre che un aspetto importante nella trasformazione della città e delle zone limitrofe.
In una specie di sincretismo storico vengono, infatti, poste le premesse per un collegamento tra la Reggia (sec. XVIII), la città ottocentesca attraversata dal Corso (asse est-ovest), la Piazza d’Armi (XIX sec.) e l’antico palazzo dei Vescovi (se. XVII) a Falciano, poi caserma Sacchi, ai cui margini, verso il corso, sarà poi costruito il monumento ai Caduti (XX sec.). Tale collegamento perfettamente leggibile nella pianta della città di Caserta pubblicata nel 1896 da E. Laracca Ronghi, ancora riconoscibile nella cartolina del 1925 (il Corso visto da Piazza d’Armi) e nella pianta di Caserta del 1965 scompare con la delimitazione dell’area destinata ad usi militari e la città con i suoi abitanti ne perde la memoria. Quando, intorno alla fine degli anni ’90, l’area viene dismessa e restituita alla proprietà, i cittadini casertani riuniti in comitati e associazioni chiedono che venga destinata ad un uso pubblico. L’area (circa 30 ettari di territorio incolto e abbandonato con costruzioni e capannoni) è uno spazio libero anche con alberi di alto fusto quasi al centro di Caserta, città in cui il verde pubblico disponibile per ogni cittadino è ampiamente inferiore agli standard urbanistici.
Qui non si vuole rifare la storia della vicenda ex- MACRICO, dall’acronimo dell’area militare, che per anni ha animato il dibattito cittadino ed è entrata nei programmi elettorali di numerosi candidati a sindaco, ma si vuole sottolineare come le istanze di cittadini, movimenti e associazioni inconsapevolmente si sono ricollegate al percorso urbanistico che storicamente si era formato. La loro proposta di ricollegare quest’area della città alla Reggia, recuperando le destinazioni d’uso originarie (pubbliche) riprendeva il disegno che “… scaturiva dalle condizioni di vita concreta esistenti, dalla tradizione delle città romane di pianura…” e nell’ambito di “…un particolare strato sociale…” per usare le parole di Ianniello. In quest’ottica l’inserimento del Palazzo Reale di Caserta con il Parco, l’Acquedotto Vanvitelliano ed il Complesso di San Leucio nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1997 poteva rappresentare un’occasione per cercare di portare a compimento il percorso di pianificazione territoriale introdotto dal progetto vanvitelliano, in un’area ormai completamente assediata dalla proliferazione dell’edilizia abitativa, da un’industrializzazione caotica, da un’agricoltura squilibrata in un diffuso degrado ambientale.
A tutt’oggi, nonostante la legge n.77 del 20 febbraio 2006, “che prevede Misure specifiche di tutela e di fruizione dei siti di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella lista del patrimonio mondiale, posti sotto la tutela dell’ UNESCO”, nonché le norme di pianificazione regionale e provinciale, non è operativo un “Piano di Gestione” che garantisca la valorizzazione dell’intero contesto territoriale, oltre che del monumento, e segnali le attività intraprese dai soggetti preposti all’amministrazione della città per fornire servizi culturali adeguati ad un flusso turistico qualificato. La sola perimetrazione di una zona “tampone” la cosiddetta buffer zone, e un’adeguata normativa per valorizzare i centri storici, gli edifici, le aree agricole afferenti i beni iscritti nel sito UNESCO di Caserta sarebbe occasione di sviluppo economico e di promozione culturale, in un progetto comune in cui i saperi e le memorie storiche tendano ad integrarsi con i più recenti percorsi di sviluppo, imperniati sull’equilibrio territorio – produzione – società. L’adozione del principio di responsabilità, la capacità di far coesistere tradizione e innovazione, la coesione tra la città e la sua storia secondo la lezione lucida e appassionata di Ianniello, se consapevolmente accolta e condivisa, può contribuire alla formazione di una comunità in cui la bellezza e l’ordine urbanistico coincidano con il buon governo.
**Maria Rosaria Iacono
Michele Senatore, impegno e passione per la vera politica
Prendendo spunto da una lettera aperta inviata da alcuni militanti del PD casertano, lunedì 8 novembre 2010 si terrà nella sala della piazza del sapere alla Feltrinelli di Caserta un incontro sul tema “cultura e politica” con il commissario Ciro Cacciola. L’iniziativa offrirà anche l’occasione per ricordare la figura di Michele Senatore, scomparso da pochi mesi e ricordato da tutti/e come una delle espressioni più impegnate ed appassionate della vita politica casertana. Abbiamo volutamente scelto di legare in un filo rosso del nostro incontro i temi della politica e della cultura, intesa come fattore di coesione sociale e di crescita civile. La testimonianza di Michele ci riporta ai valori forti, al senso di militanza che la politica dovrebbe esprimere e che purtroppo oggi sono smarriti, svuotati dal pensiero unico dominante del neoliberismo, dall’effimero prodotto dal grande fratello e da un sistema di comunicazione dominato dall’immagine scandalosa di Berlusconi.
È l’occasione per ricordarsi che fare politica non vuol dire solo conquista del potere (ad ogni costo, spesso con metodi spregiudicati). Al contrario - come ci ricordano i principi su cui si fonda la nostra Carta costituzionale - vuol dire impegnarsi per il governo del bene pubblico, per affermare i valori e diritti fondamentali umani, civili e sociali, per lottare contro tutte le forme di emarginazione, per l’inclusione sociale e l’accoglienza dei più deboli.
È per questi valori che Michele si è sempre battuto, con passione e rigore. Lo faceva anche negli ultimi anni, in cui ha cercato disperatamente di rilanciare nella città capoluogo i luoghi in cui far vivere la partecipazione responsabile e democratica. Quanta sofferenza gli è costata la chiusura del circolo “Nilde lotti”, certamente tra i più attivi e partecipati della città. Per questo nella lettera aperta abbiamo sottolineato l’esigenza di far radicare anche a Caserta il PD sul territorio, di dare trasparenza al tesseramento e vitalizzare la partecipazione attiva degli iscritti e dei cittadini che ancora vogliono impegnarsi per una politica di cambiamento (dopo il palese fallimento dell’esperienza amministrativa). A fondamento di tutto Michele poneva il ruolo della scuola e dell’istruzione pubblica, come diritto dei giovani per formare le basi culturali del loro sapere di futuri cittadini; ma anche delle persone adulte per poter apprendere sempre, per aggiornare ed adeguare il loro bagaglio di conoscenze e di competenze. Come dimenticare la sua partecipazione assidua (insieme con Angela) alle tante iniziative locali e nazionali promosse su questi temi dall’area tematica oppure nelle feste de L’Unità, dove spesso interveniva per portare il suo contributo competente: di un uomo e maestro di vita per tanti ragazzi e studenti, con i quali si poneva in modo dialogante, di un docente che voleva condividere con curiosità, non solo trasmettere, sapere e conoscenza.
Infine, non possiamo trascurare la sua partecipazione attiva alle lotte sociali e sindacali, in difesa dei diritti primari, a partire da quelli per la scuola pubblica, dell’ambiente, della valorizzazione delle nostre bellezze e del territorio.
** Tratto da Buongiorno Caserta, 6 novembre 2010
Emilia Borgia ricorda l'impegno politico di Michele Senatore
In una assolata ed afosa giornata di agosto tantissime persone hanno sfidato il clima pur di porgere l'ultimo saluto a Michele Senatore. Avendo militato per anni nello stesso Partito, benché non nella medesima Sezione, ed avendo fatto assieme innumerevoli esperienze congressuali, sia provinciali regionali, ma soprattutto avendo assistito ad interventi politici nelle sedi deputate, ho avuto modo di conoscere a fondo la persona che era. Impossibile non apprezzarne le specchiate doti dell'uomo e della persona politicamente impegnata. Michele era la testimonianza vivente del significato più nobile della parola "impegno politico": era lontano dalle poltrone, dal potere e dalle gestioni burocratiche che appassionano solo i politici perversi. Egli aveva un animo indomito della persona che non si piegava di fronte a nessuna ingiustizia e che della lealtà e della trasparenza aveva costituito il suo normale modo di vivere. È stato per me un orgoglio averlo conosciuto, frequentato ed aver condiviso con lui e la sua splendida compagna di vita del tempo prezioso. Con profondo affetto e stima anche a te Angela".
Michele di Maio
E’ morto il 20 febbraio 2017 l’ex sindaco di San Marco Evangelista Michele Di Maio. Lascia la moglie Michela ed i figli Francesco e Giuseppe. Centinaia di cittadini, ex dirigenti del Pci e della Cgil di Caserta, oltre ad amici e parenti, hanno voluto salutare Di Maio. Sulla bara è stata posizionata una foto di Enrico Berlinguer.
Il mondo politico casertano piange la sua scomparsa. Militante convinto prima del Pci, poi dei Ds e infine del Pd, Di Maio è stato sindaco di San Marco Evangelista e per diversi decenni dirigente del suo partito. La notizia della sua morte ha fatto in poche ore il giro del Paese e di tutti gli ambienti politici di Terra di Lavoro, in particolare di quelli di sinistra, lasciando nello sconcerto quanti lo hanno conosciuto, familiari, amici ed avversari politici. In tanti hanno condiviso con lui momenti di impegno e di attivismo ed in tanti lo hanno ricordato sotto varie forme. Sul profilo di Facebook di Di Maio campeggia una lunga sequela di ricordi e di messaggi di affetto alla famiglia. DI MAIO MICHELE nasce a Caserta l’11 luglio 1943, di professione dirigente in pensione coniugato con la sig.ra Michelina Carozza e padre di due figli, Francesco e Giuseppe, entrambi laureati in legge. Dagli anni ‘60 impegnato in politica militante prima nella FGCI e poi nel PCI di Berlinguer. Iscritto e dirigente prima nel Partito dei Democratici di Sinistra (P.D.S.) e successivamente dei Democratici di Sinistra (D.S.). Dirigente provinciale e regionale, negli anni settanta dell’Alleanza dei Contadini nell’ambito della quale ha ricoperto la carica di Direttore Regionale dell’Associazione. Dal 1985 componente della segreteria e Presidenza Provinciale della C.N.A, incarico ricoperto fino al 1993. Segretario generale della Confartigianato dal 1993 al 1998. È stato membro del Comitato Regionale dell’ArtigianCassa ( Cassa per le imprese artigiane).
Nel marzo del 1979 viene eletto Sindaco del Comune di San Marco Evangelista carica ricoperta fino al dicembre del 1984. È stato consigliere comunale di maggioranza dal 1985 al 1990. Nel Novembre 1994 viene eletto (con elezione diretta) nuovamente Sindaco, carica che ricopre per due mandati e fino al 2003.
In questi anni di amministrazione ha trasformato un paese che da tutti era considerato rurale e dipendente dalle amministrazioni di Caserta e Maddaloni. Un territorio, quello di San Marco Evangelista, privo dei più elementari servizi sociali, l’assenza totale della pubblica illuminazione, senza una rete idrica e fognaria, niente edifici scolastici di scuola media e solamente con quello della scuola elementare insufficiente e fatiscente. In sintesi bisognava mette mano a tutto. Grazie all’impegno ed al lavoro dell’amministrazione comunale eletta nel 1977 (prime elezioni dopo l’autonomia comunale concessa con Legge Regionale) ed in particolare alla professionalità del 1° sindaco di San Marco Evangelista dott. Felice Foresta e dell’assessore prof. Francesco Miccolo iniziò una fase di progettazione e di realizzazione di opere indispensabili per inserire San Marco tra i Comuni sviluppati della provincia di Caserta. Tanto che con la elezioni comunale del 1982 la lista capeggiata dallo stesso risultò vincente con oltre il 75% dei voti. Negli anni che seguirono (dal 1994 al 2003) il comune di San Marco, pur in presenza di un dichiarato dissesto finanziario, riesce a riprendere e completare l’edificio scolastico per i ragazzi delle scuole medie, costruisce strade di collegamento con i comuni di San Nicola la Strada e Caserta. In questi anni si procede a numerosi insediamenti industriali e si forma una cultura imprenditoriale locale che reggono all’attuale crisi economica. Moltissime altre opere si sono realizzate, non ultima l’approvazione del PRG, che certamente non è il migliore, ma sicuramente ha dato certezza sullo sviluppo abitativo e industriale del paese.
Ecco anche il ricordo dell’ex Consigliere Regionale ed ex segretario dei Ds della Federazione di Caserta Adolfo Villani: “Sono stato stasera a San Marco presso la camera ardente del comune, dove ero stato spesso in passato in occasione di diverse iniziative pubbliche. Ho attraversato le strade percorse nei decenni scorsi, nelle serate di ogni stagione, per partecipare alle riunioni del comitato direttivo di una delle più forti sezioni della provincia di Caserta del PCI prima e dei DS dopo, e in diverse domeniche mattina, giornate ideali per tenere affollate e partecipate assemblee degli iscritti in una realtà prima agricola e poi industriale, emblematica dei processi di trasformazione che hanno investito il nostro territorio nel secolo scorso. Per la prima volta ad attendermi non poteva esserci Michele. Ho provato una grande commozione nel vedere quella bara con la foto di Enrico Berlinguer, nel salutare i figli e la famiglia, nel rivedere tanti compagni di una vita, di infinite discussioni e di comuni passioni. Ho ripensato all’ultima telefonata con Michele qualche mese fa, mentre era ricoverato in clinica a Piedimonte Matese. Non stava bene ma non pensavo che la situazione potesse precipitare in così poco tempo. Sono rientrato a casa portando con me un grande dolore ma anche una certezza. Michele è stato un dirigente politico, un dirigente sindacale e, più volte, Sindaco della sua San Marco. Ciascuno di questi ruoli lo ha vissuto da uomo del popolo per il popolo e dentro e fuori della camera ardente si toccava con mano questo riconoscimento corale. Ora San Marco ha perduto un punto di riferimento. Nella piazza del paese non c’è più la gloriosa sezione di quello che è stato il suo, il nostro partito. Ma nulla potrà mai cancellare la sua storia, la nostra storia. La storia di una grande comunità di lavoratori, di intellettuali, di donne e di uomini che hanno creduto e lottato per un mondo migliore. Una storia che rimarrà un grande patrimonio di idee, di lotte, di passioni per tutti quelli che non vogliono rassegnarsi a questo nostro tempo di solitudine sociale, di individualismo esasperato, di un presente senza futuro e credono che valga la pena sempre, in ogni condizione, battersi per affermare gli ideali di giustizia e di uguaglianza”.
Addio ad Alberto Marino, pezzo di storia della sinistra
E’ scomparso domenica 3 marzo 2019, all’età di 84 anni il prof. Alberto Marino. Figura storica della sinistra marcianisana, fu più volte consigliere comunale per il Partito Comunista e presidente del consiglio comunale dal 1993 al 1997. Laureato in lettere nel 1971, fu docente in vari istituti superiori della Provincia di Caserta, in particolare nell’Istituto Tecnico Industriale Ferraris di Marcianise. Uomo di sinistra di estrazione gramsciana, ha cercato di far conoscere la sua città, evidenziandone i legami storici e culturali con la più complessa realtà del Mezzogiorno d’Italia. Autore di molte opere che spaziano dalla politica alla storia locale.Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: “Domenico Santoro, un brandello di nostra storia”, “Il Vangelo secondo Giovanni”, “Memorie inutili”, “Cara Marcianise”, “Ricordi senza storia”, “Socialismo ed altro. Fatti e personaggi della Marcianise della prima metà del Novecento”, “La meglio vecchiaia”; “Il Cavaliere dei pezzenti”, “Brandelli di cronaca cittadina”. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche è stata a giugno dello scorso anno, quando partecipò alla commemorazione del giudice Antonio Marchesiello. E' stato il primo presidente del consiglio comunale di Marcianise dopo la riforma. Si è spento l’ultimo baluardo della sinistra marcianisana. Se ne è andato questa sera Alberto Marino, storico esponente del partito Comunista, scrittore nonché docente di Lettere in diversi istituti scolastici dell’hinterland (l’ultima scuola dove ha insegnato è stato l’Itis di Marcianise). Aveva 85 anni. Un pezzo di storia di Marcianise che se ne va, una bandiera che si ammaina. Marino, che è stato più volte consigliere comunale a Marcianise, resterà nella storia per essere stato anche il primo presidente del consiglio comunale eletto, durante l’amministrazione comunale di Tommaso Zarrillo, dopo la riforma del ’90.
Alberto Marino si definiva un “intellettuale organico” in senso gramsciano, cioè “un politico che sposa la giusta causa della sua comunità e impegna tutte le sue risorse, le conoscenze, competenze e passione per il raggiungimento del bene comune”. “Un intellettuale che inneggia al potere – scrisse nel dicembre del 2016 – non può definirsi un “intellettuale organico”, nell’accezione gramsciana. Anche quando il potere opera bene e s’impegna a dare risposte alle esigenze del popolo? Sì, perché lo sforzo dialettico per arrivare alla perfezione, a voler dare ragione a Platone, é un processo che tende all’infinito! L’intellettuale organico, consapevole di questa verità dialettica, deve sempre pungolare il potere, incitarlo e,stimolarlo, anche con la critica feroce, quando é necessario. Comprendo facilmente che questo concetto non può appartenere alla cultura di chi circuisce il potere, per conquistarlo, facendo, come si suol dire, il diavolo a quattro!.A darmi meraviglia, invece, é il comportamento di chi, nonostante il suo percorso culturale e politico, vicinissimo al pensiero di Gramsci, sembra che si sia collocato nella fitta schiera degli adulatori del potere”. Con lui scompare un personaggio importante della politica cittadina ed in particolare della sinistra marcianisana. I funerali si svolgeranno domattina, alle 11:30 presso la Chiesa Di San Carlo a Marcianise.
Salvatore Pellegrino (Maddaloni, 31 luglio 1922 – Maddaloni, 24 ottobre 2015) è stato un politico e sindacalista italiano. Esponente di primo piano del Partito Comunista Italiano nella zona di Terra di lavoro. Nel 1963 viene eletto al Senato col PCI, restando in carica per la IV legislatura, fino al 1968. Nel corso degli anni è stato consigliere comunale a Maddaloni, a San Felice a Cancello . Fu senatore a 41 anni e tre volte consigliere comunale ed anche consigliere provinciale. Per l’ultimo saluto la salma è stata portata a spalle, con rigorosa bandiera del PCI, procurata dal compagno Franco Capobianco, figlio di Giuseppe che tante iniziative e battaglie ha condiviso con Salvatore, accolta da un partecipato applauso, accompagnata da tutta la popolazione cittadina e della provincia.
Professionalmente Salvatore Pellegrino, essendosi laureato in Economia e Commercio oltre all’impegno sindacale (principalmente nel settore agrario – con le battaglie per l’occupazione delle terre - ed in quello del terziario – tra i fondatori ed impegnato nella Confesercenti Provinciale di Caserta), e politico, è stato uno stimato commercialista. Oltre i confini territoriali è noto per essere stato eletto al Parlamento Italiano, nella Circoscrizione Campania, il 28 aprile 1963 come Senatore della IV Legislatura della Repubblica, come uno dei più giovani senatori della storia repubblicana. La sua elezione fu possibile grazie all’impegno partitico dopo l’adesione al PCI sulla scia del prof. Antonio Renga, rappresentante del pensiero comunista a Maddaloni, che lasciò a lui come a Francesco Lugnano la possibilità di crescere e poter ambire a ruoli di prestigio, di guida e di rappresentanza. Nella vita personale conosce e si innamora di Rosa Suppa con cui si sposerà il 25 luglio 1953, nella sagrestia della chiesa di nascosto per via della scomunica ai comunisti. Rosa era molto devota per cui non avrebbe acconsentito ad una vita insieme senza l’impegno cristiano.
Biografia e ricordi
Il legame con il Senatore Pellegrino è della seconda metà degli anni ’90, e ci unì la battaglia per il balzello del Consorzio del Bacino Inferiore del Volturno per la quale vicenda costituimmo un comitato da lui presieduto. Tante sono le memorie di quel palazzo, ad iniziare dal ricordo che lo vede prima sede ad appannaggio degli alleati e poi, grazie alla solerzia di un maddalonese, sede dei partiti locali, ed in particolare di quello socialista per lungo tempo fino allo PSDI, Ud di Maccanico e quindi alla naturale evoluzione del Pds, Ds e Pd. Mettendosi frontalmente al portale centrale sulla sinistra il primo locale era quello destinato all’attività politica, seguendo, verso la chiesa e convento dei Padri Carmitani Scalzi una edicola punto di incontro non solo per l’accesso all’informazione ma anche per i confronti quotidiani. Alla stessa si serviva Salvatore Pellegrino, da “Ciciotto”. Dal lato destro del portale padroneggia la lapide che ricorda la presenza in loco di Garibaldi. Eletto in Parlamento fece parte del Gruppo “Comunista” dal 16 maggio 1963 al 4 giugno 1968 e fu componente della “5ª Commissione permanente (Finanze e tesoro)” dal 3 luglio 1963 al 4 luglio 1963 di cui fu Segretario dal 5 luglio 1963 al 4 giugno 1968 ed ancora fu componente della Commissione “Speciale ddl esercizio provvisorio 63-64 (n. 34)” dal 25 giugno 1963 al 28 giugno 1963. Dopo il matrimonio essendo Rosa Suppa insegnante delle elementari furono costretti a trasferirsi Suzzara (Mantova) già dal 1° agosto del 1953 e poi ancora ad Acquanegra Cremonese (Cremona) nel marzo aprile 1954, e solo nel giugno 1956 ritornarono a Maddaloni.
Salvatore Pellegrino si iscrive al PCI nel 1944 e partecipa da delegato al V Congresso Nazionale del PCI che si tenne dal 27 dicembre di quell’anno fino al 6 gennaio del 1945. Pellegrino, in relazione a tale appuntamento testimonia “Tutti, dopo i congressi clandestini, si iscrissero a parlare. Oltre alla vera fame, c’era anche quella di far conoscere agli altri la propria storia dopo venti anni di silenzio coatto”. Inoltre Pellegrino è stato consigliere comunale a Maddaloni, nel gruppo del PCI, dal 1952 al 1987 e nello stesso tempo fu anche consigliere Provinciale di Caserta dal 1960 al 1963, anno dell’elezione al Senato della Repubblica. Ricordo che quando mi parlava della sua esperienza provinciale riferiva di essere considerato il “consigliere delle acque” perché portava avanti battaglie atte a far in modo che in ogni nucleo abitativo vi fosse l’acqua corrente, elemento di vita. Altre testimonianze lo ricordano anche consigliere comunale a Marcianise e a S. Felice a Cancello.
Egli è nato e vissuto a Maddaloni, aderì molto giovane al PCI, partecipò alla seconda guerra mondiale, ed ebbe un rapporto intenso con la città sia sul piano sociale sia come protagonista di tante lotte sociali per il lavoro e per i diritti, a partire dalle lotte contadine per le terre incolte. Tra l’altro fu tra i fondatori, nel 1973 della Confesercenti Provinciale di Caserta, di lui si ricorda il suo essere vulcanico e battagliero, il tutto sempre indirizzato alla conquista dei valori democratici e civili. Nelle medesime organizzazioni ha ricoperti diversi incarichi ai diversi livelli, con importanti funzioni di responsabilità. Circa le attività o iniziative promosse dal Senatore Pellegrino queste avevano quasi tutte una matrice sindacale: si ricordano manifestazioni, incontri, assemblee di spirito aggregativo al fine di ricompattare le categorie commerciali per rivendicare diritti sociali e convogliare delle legittime istanze nei confronti delle istituzioni. Ne 1997 è passato al l PDs poi Ds dal 1999 (ricordi del senatore al tavolo di Presidenza).
Umberto Barra
Era originaria della provincia di Salerno, come un altro Quadro dirigente storico Giuseppe Speizia (per anni capogruppo alla Provincia di Caserta). Nel 1960 era segretario un po’ avanti negli anni. Nel 1961 organizzò la partecipazione di Caserta alla manifestazione di Italia 61 a Torino per ricordare i fatti di Genova dell'anno prima. È stato a lungo responsabile di organizzazione della Federazione PCI e allorché si dovette sostituire nel 1970 A. Bellocchio fu indicato dalla delegazione che incontrò la Direzione come il nome più adeguato. Allora la Direzione Nazionale PCI bocciò la proposta. In seguito subentrò a Bellocchio alla Regione nel 1976 allorché fu eletto alla Camera dei Deputati. Negli ultimi anni della sua attività fu dirigente della CIA (allora Alleanza Contadini) insieme con Lino Martone.
È stato funzionario della Federazione del PCI nei decenni dalla fine degli anni 60, dove ha ricoperto diversi incarichi, in particolare quello dell'organizzazione. Insieme con altri compagni storici (come Salvatore De Cicco, Ciccio D'Ambrosio e Salvatore Martino) si occupava dei rapporti con le sezioni nei comuni della nostra provincia, in particolare del tesseramento, che insieme con le quote e contributi - versati dagli eletti - costituivano le principali entrate per sostenere le varie attività (in particolare nelle campagne elettorali e congressuali).
Francesco Lugnano
Nato nel 1922 a Maddaloni, l'ex senatore del Pci ed avvocato penalista Francesco Lugnano, si è spento il 2 ottobre 2005 nella sua abitazione di Santa Maria Capua Vetere.
Francesco Lugnano, che ha ricoperto per quattro mandati (dal 72 al 83) l'impegno senatoriale è stato anche membro della Commissione permanente giustizia.
Difensore impegnato in numerosi processi anche a livello nazionale, aveva difeso anche don Salvatore D'Angelo, il sacerdote fondatore del Villaggio dei Ragazzi per una vicenda legata a tangentopoli. Innumerevoli gli attestati di cordoglio giunti da ogni parte.
I funerali si sono svolti il 3 ottobre 2005 nel Duomo di Santa Maria Capua Vetere.
Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 5 giugno 1968 al 24 maggio 1972
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Membro dal 5 luglio 1968 al 24 maggio 1972
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:
Membro dal 24 luglio 1968 al 24 maggio 1972
Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della "mafia":
Membro dal 27 ottobre 1969 al 24 maggio 1972
Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 25 maggio 1972 al 4 luglio 1976
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Membro dal 4 luglio 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:
Membro dal 2 agosto 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per il parere al governo sull'emanazione del nuovo testo del codice di procedura penale:
Membro dal 30 luglio 1974 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della "mafia":
Membro dal 28 luglio 1972 al 23 gennaio 1973
Membro dal 22 febbraio 1973 al 4 febbraio 1976
Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 5 luglio 1976 al 19 giugno 1979
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Vicepresidente dal 27 luglio 1976 al 19 giugno 1979
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:
Membro supplente dall'11 agosto 1976
Commissione parlamentare per il parere al Governo per l'emanazione del nuovo testo del codice di procedura penale:
Membro dal 5 agosto 1976 al 19 giugno 1979
Comm. inchiesta attuazione interventi ricostruzione Belice:
Membro dal 13 luglio 1978 al 3 ottobre 1978
Vicepresidente dal 4 ottobre 1978 al 19 giugno 1979
Incarichi e uffici ricoperti nella Legislatura
Gruppo Comunista:
Membro dal 20 giugno 1979 all'11 luglio 1983
2ª Commissione permanente (Giustizia):
Membro dall'11 luglio 1979 all'11 luglio 1983
Commissione parlamentare per i procedimenti di accusa:

Membro dal 9 agosto 1979 al 10 agosto 1979 Vicepresidente dall'11 agosto 1979 all'11 luglio 1983
Commissione parlamentare d' inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia:
Membro dal 20 dicembre 1979 al 7 marzo 1980
Membro dal 20 marzo 1980 al 30 giugno 1983
Aversa perde un uomo di cultura: se ne va Bruno Lamberti
Fine luglio 2020 triste per la città di Aversa. Dopo la perdita di Luigi Arena, un altro ex assessore lascia la vita terrena e un enorme vuoto in chi lo ha conosciuto e apprezzato. Bruno Lamberti è andato via in silenzio, con l’aria paciosa e calma che lo ha costantemente contraddistinto, ma sempre pronto a impegnarsi, partecipare, condividere con gli altri il suo alto senso civico, il suo sapere, i suoi progetti. Uomo di cultura, docente, già assessore nella giunta guidata da Lello Ferrara negli anni Novanta, grazie a Lamberti Aversa ha avuto il suo primo e unico festival internazionale del cinema, quell’Inverso Sud che ha voluto essere, anche se per una sola edizione, un punto di riferimento per i film realizzati nei Sud del mondo, geografici e immaginari. E ha avviato la riscoperta critica di due suoi figli illustri come i musicisti Domenico Cimarosa e Niccolò Jommelli. Ma il suo nome è legato al jazz club Lennie Tristano. È stato tra i fondatori, infatti, di uno tra gli spazi più ambiti e amati del panorama jazzistico non solo italiano, che ha ospitato, e ne citiamo solo due, musicisti come Chet Baker e Michel Petrucciani. Anche prima di fondare il jazz club con Franco Borrini, Salvatore Romaniello e Nicola Della Volpe, però, Lamberti organizzava eventi e concerti di livello. Molti ricordano un giovanissimo Pino Daniele ad Aversa, con la sua organizzazione per una Festa dell’Unità. È stato, assieme a Borrini, il motore del club di piazza Marconi, per il quale gestiva le pubbliche relazioni. Sono stati curati da lui alcuni progetti particolari, come le celebrazioni per Lennie Tristano con l’inaugurazione della strada a lui dedicata alla presenza di sua figlia Carol, di Franco Fayenz (biografo di Tristano) e delle autorità cittadine. Ha sempre avuto un occhio particolare alla promozione dei giovani talenti campani, tra i quali vanno ricordati almeno gli Avion Travel, passati dal club prima di raggiungere la notorietà, e Maria Pia De Vito, nonché Pietro Condorelli e i salernitani Aldo Vigorito e i fratelli Deidda, oggi tutti docenti nei conservatori della Campania. Morto Franco Borrini, fu naturale eleggere Lamberti presidente e da lì ripartì il club, questa volta in via Veneto.
L’amore per la musica e per il territorio in cui è nato e vissuto lo ha portato anni dopo a essere, come ultima importante esperienza, il presidente dell’associazione “Carinaro Attiva” e il direttore artistico della Festa della Tammorra, altro notevole evento cresciuto nel corso degli anni e che ha coinvolto diversi Comuni dell’Agro aversano, gruppi musicali provenienti dall’intera Campania e artisti come Marcello Colasurdo. Proprio l’associazione “Carinaro Attiva” lo ha ricordato con un post in cui descrive l’uomo amante del proprio territorio e sempre disponibile. “È una perdita immensa – esordisce il messaggio –. Bruno, profondo conoscitore della musica e delle tradizioni popolari, era il punto di riferimento per tutti noi. Ci mancherai, carissimo amico. Vogliamo ricordarti così, come ti abbiamo sempre conosciuto, col sorriso sulle labbra e senza mai dire una parola fuori posto”. Anche il sindaco dell’epoca di Aversa Alfonso Golia lo ha voluto onorare dalla sua pagina Facebook. “La città di Aversa piange Bruno Lamberti, docente già assessore alla cultura e da anni impegnato nel far crescere la Festa della Tammorra, diventata un appuntamento imperdibile per tutto il nostro territorio. Non una semplice festa di piazza ma un autentico percorso di ricerca e recupero delle tradizioni popolari. La città di Aversa deve tanto a Bruno, protagonista di una bellissima stagione di riscatto culturale, del jazz club Tristano e non solo. Con lui era sempre un piacere fermarsi a ragionare. Le mie più sentite condoglianze alla famiglia”.
Infine, due amici di lunga data non hanno voluto far mancare il loro commosso ricordo: Ernesto Rascato, libraio, e Luca De Rosa, che ha condiviso con Lamberti l’esperienza dell’amministrazione Ferrara. “La nostra amicizia che dura da più di trent’anni – afferma Rascato – è talmente tanto piena che non basterebbe un solo ricordo a sopperire la tua mancanza. Lasci un’enorme impronta e perdiamo un pezzo importante della nostra libreria. Ci mancheranno le tue risate, i tuoi canti, le tue battute, le tue follie, la tua costante presenza. Sarai sempre nei nostri ricordi, ti vogliamo un gran bene”. “Condividere cammini con te è stato un bel viaggiare. Mi mancherai Bruno. Mancherai a questa città che hai saputo rendere viva con la tua intelligenza e la tua cultura profonda”, è stato il pensiero espresso da De Rosa sui social. Il corteo funebre partirà dalla casa di Bruno Lamberti in via Roma alle 17 di oggi pomeriggio, per poi giungere alla chiesa di San Nicola dove si svolgeranno i funerali.
** Redazione Il Crivello
Il mondo dell’attivismo sociale dell’agro aversano perde uno dei suoi pilastri. E’ venuto a mancare il professor Bruno Lamberti, 77 anni, storico presidente dell’associazione “Carinaro Attiva” e direttore artistico della Festa della Tammorra. Vedovo di Italia Dell’Aversana, Lamberti lascia i figli Paolo e Guido. “Una perdita immensa. Profondo conoscitore della musica e delle tradizioni popolari, punto di riferimento per tutti noi”, commenta Raffaele Sardo, giornalista e scrittore, collaboratore per anni di Lamberti nell’organizzazione della Festa della Tammorra, un appuntamento divenuto tradizione in Campania. “Ci mancherai, carissimo amico. – si legge in un post dell’associazione Carinaro Attiva – Vogliamo ricordati così come ti abbiamo sempre conosciuto, col sorriso sulle labbra e senza mai dire una parola fuori posto. Buon viaggio caro Bruno”.
“La città di Aversa piange Bruno Lamberti, docente, già assessore alla Cultura e da anni impegnato nel far crescere la Festa della Tammorra, diventata un appuntamento imperdibile per tutto il nostro territorio. Non una semplice festa di piazza ma un autentico percorso di ricerca e recupero delle tradizioni popolari”, dichiara il sindaco Alfonso Golia. “La città di Aversa – conclude il primo cittadino – deve tanto a Bruno, protagonista di una bellissima stagione di riscatto culturale, del jazz club Tristano e non solo. Con lui era sempre un piacere fermarsi a ragionare. Le mie più sentite condoglianze alla famiglia redazione di Pupia.tv”.
Angelo M.Jacazzi
Fra le file dei partigiani tra il ‘43 ed il ‘44 nel suo periodo romano, nativo di Gorizia ma poi residente per anni a Valle di Maddaloni e quindi definitivamente ad Aversa, Angelo Maria Jacazzi è stato un punto di riferimento del Partito Comunista Italiano avendo rivestito le più alte cariche. Con la segreteria provinciale di Caserta ricoperta da Giorgio Napolitano, nel 1953 Jacazzi fu un funzionario di riferimento del partito in Terra di Lavoro. Di lui si ricordano in quel periodo le amicizie con Peppino Capobianco, altro casertano che ha legato il suo nome alla nascita e all’affermazione del Pci, e con don Salvatore D’Angelo, il sacerdote maddalonese che nel secondo dopoguerra diede vita alla Fondazione «Villaggio dei Ragazzi». Fu segretario del Pci aversano dal 1954, poi consigliere provinciale di Caserta. Dal 1963 e fino al 1976 fu ininterrottamente deputato del Partito Comunista. Sciolto il Pci Jacazzi decise di aderire al Partito della Rifondazione comunista, poi ai Comunisti italiani. Di recente aveva abbracciato la svolta «rottamatrice» di Matteo Renzi: alle ultime primarie del Pd aveva apertamente tenuto per l’allora sindaco di Firenze. Muore il 9 febbraio del 2015 a 80 anni.
aria Teresa Jacazzi
È nata a San Pietro del Carso il 30 novembre del 1929 è scomparsa a causa di una malattia incurabile il 13 novembre del 1993. La sua carriera politica comincia negli anni 60 e nel 1963 viene candidata ed eletta al Consiglio comunale, unica donna di quel consesso. Iscritta al Pci viene confermata per tre volte in Consiglio comunale e diventa assessore alla Pubblica Istruzione e allo sport nel 1987 e nel 1988.
Della sezione del Pci diventa anche segretaria. Componente del Cf della federazione di Caserta, candidata e prima dei non eletti alla regione nel 1975, component del comitato regionale del Pci e successivamente del Pds. Fino all'ultimo ha partecipato attivamente all'attività politica del partito partecipando nel luglio del '93, quando la malattia cominciava già a insorgere, alle votazioni e al dibattito per l'elezione del segretario regionale del partito. Come educatrice ha insegnato nelle scuole elementari di Teano, Villa di Briano ed Aversa.
Le è stato intitolato il palazzetto dello Sport di Aversa costruito proprio grazie alla sua azione di assessore. Durante il suo assessorato sono state costruite e progettate le scuole tutt'ora in funzione. Si è battuta per ottenere l'Università ad Aversa operando in maniera da liberare il complesso di San Lorenzo e affidarlo alla facoltà di Architettura della Sun.
La sua attività non è stata solo politica. È diventata nel 1967 presidente della squadra maschile di pallavolo di Aversa che ha portato in serie B prima e in serie A nell'aprile del 1975. È stata tra i fondatori della lega di serie A di pallavolo e dirigente regionale per 15 anni della stessa federazione. È stata premiata per questo con la medaglia d'oro del Coni, essendo stata l'unica donna ad aver conseguito la promozione nella massima serie a capo di una squadra maschile. Per i suoi meriti politici e sportivi è stata insignita dal presidente della Repubblica Pertini dell'onorificenza di cavaliere della repubblica, nel 1981, e poi di quello di grand'ufficiale della Repubblica Italiana, nel 1988.

Addio a Vito Faenza, il giornalista che “consumava le scarpe”
Se ne è andato il giornalista e saggista 74 enne, uno degli “ultimi mohicani”della carta stampata d’assalto. Le condoglianze dei colleghi della sua ultima redazione.
Dal basket e la pallavolo nella massima serie al giornalismo degli anni più “gialli” della Repubblica, quelli del terrorismo e delle cosiddette “stragi di Stato”. Vito Faenza ha preso la vita con lo slancio di un playmaker Nba e dopo l’Unità, Panorama e il Corriere del Mezzogiorno, quando ha lasciato l’ultima redazione per sopraggiunta età e non perché ne avesse abbastanza, il mondo del giornalismo lo ha riagguantato subito, sfornando un saggio dopo l’altro, mettendoci tutto il sapere accumulato sulle barricate di un mestiere che, diceva proprio Faenza da Fb, ormai «non esiste più»: seppellito dai tempi e modi social-televisivi, dal «protagonismo d’accatto» invece della sostanza, dell’inchiesta, dell’approfondimento «sempre scomodo» per qualcuno; era avvilente anche per Faenza assistere al “confinamento” delle grandi firme al web, al passare “veline” per le pagine online piuttosto che lasciate libere di compiere la professione “consumando le scarpe”. Era questa l’ultima amarezza di Vito, che non faceva il giornalista. Lo era.
Amarezza però vinta dalla vita che, seppure lo ha abbandonato, lui non ha abbandonato mai. Sempre appassionato, di studi, storie ma pure di territori e cucina. Tra la sua Aversa e il buen retiro di Nusco. Perché «la vita va addentata», ci diceva il nostro amabilissimo “segretario di redazione” magari davanti alla “otto formaggi” che si faceva confezionare in pausa pranzo.
Il giornalista e scrittore si è spento nella sua casa di Aversa a 74 anni. Esperto di criminalità organizzata e terrorismo, nel 1976 ha lavorato con il quotidiano L’Unità, del quale è stato inviato speciale e fino al 1984 è stato corrispondente da Napoli di Panorama; fino al 1996, invece, ha lavorato con il quotidiano Il Messaggero. Nella sua lunga carriera giornalistica, ha collaborato anche con l’agenzia Radio Area e con l’agenzia di stampa Agi; nel 2004 è entrato invece a far parte del Corriere del Mezzogiorno. Dal 2004 al 2010 è stato segretario dell’Osservatorio sulla camorra per il quale curava anche il bollettino mensile. Poi, i saggi ed i romanzi: per Edizioni Spartaco ha scritto “Il terrorista e il professore” (2015) e “L’isola dei fiori di cappero” (2014) vincitore del Premio Sgarrupato dedicato a Marcello d’Orta.
«Grande è il dolore per la scomparsa di Vito Faenza, storico giornalista de L'Unità e da sempre impegnato nelle lotte e nelle inchieste contro la camorra». Così sui social Antonio Bassolino. «Vito è stato per me anche una persona cara, e sono tanti i ricordi di tutta una vita. Penso in primo luogo a quel 23 novembre 1980. Poche ore dopo la terribile scossa ci mettemmo in macchina - Vito e Rocco Di Blasi de L'Unità ed io segretario regionale del Pci- e quella notte stessa raggiungemmo i paesi dell'Alto Sele e dell'Alta Irpinia distrutti dal terremoto».
Con Vito Faenza «scompare un giornalista raffinato, profondo conoscitore di Napoli e della Campania, esperto di criminalità», scrive invece il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola. «La sua lunga carriera, iniziata negli anni Settanta, si è snodata fra testate di prestigio. Lascia un vuoto in tutti noi». Anche la redazione del Corriere del Mezzogiorno tutta si stringe alla famiglia dell’amico Vito in questo giorno di dolore e in particolare al figlio Luca e alla compagna di vita Luisa Melillo, ex assessora alla Cultura della città d’Aversa, dove si terrà l’ultimo saluto, mercoledì 20 luglio, alle 16.30 nella chiesa di Santa Teresa del Bambino Gesù in via Luca Giordano.
Vincenzo Legnante, Sindaco di Sant’Arpino
Primo di cinque figli, nacque nel dicembre del 1897 da Gioacchino e Concetta D’Anna. Frequentò le scuole elementari e medie a Caserta dai Salesiani, proseguì poi gli studi a Napoli e dopo aver conseguito il diploma liceale si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Il percorso universitario venne interrotto dallo scoppio della prima guerra mondiale: Legnante venne arruolato e spedito al fronte ove fu fatto prigioniero in Ungheria. Terminato il conflitto mondiale e ritornato a Sant’Arpino, Legnante riprese gli studi universitari e nel 1921 si laureò con una tesi in diritto commerciale. Ben presto divenne un avvocato civilista molto apprezzato in tutto l’agro aversano. In quegli anni frequentò a Sant’Arpino Luigi Landolfi, un professore di matematica, rivoluzionario socialista, che influenzò molto la sua successiva militanza politica. Nel 1930 sposò Chiara Magliola. Alcuni anni dopo, nel 1936, partecipò alla campagna d’Africa voluta dal regime fascista per la conquista dell’Etiopia. Al rientro in Italia, dopo una breve pausa, venne di nuovo arruolato per la seconda guerra mondiale. Nel 1940, con i gradi di tenente, coordinò una brigata nella cittadina di Chiusa, in provincia di Bolzano.
Finita la guerra, riprese la sua attività di avvocato e iniziò il suo impegno politico. Nel 1946 si tennero le prime elezioni amministrative ed egli si candidò a consigliere comunale nella lista socialcomunista. Eletto, svolse il mandato di assessore nella giunta del sindaco socialista Amodio D’Anna. Nel 1952, di nuovo candidato ed eletto, venne confermato assessore. Dopo una militanza nel Partito Socialista, nel 1953 si iscrisse al Partito Comunista divenendone da subito un riferimento provinciale e regionale. Proprio in quegli anni, precisamente dal 1951 al 1957, Giorgio Napolitano venne nominato segretario del PCI in provincia di Caserta. In tale veste, il futuro Capo dello Stato, si recò più volte a Sant’Arpino (a quell’epoca un comune considerato punto di riferimento della sinistra di Terra di Lavoro) per tenere comizi e svolgere riunioni con i dirigenti comunisti locali. Nel corso di queste visite intrecciò saldi rapporti di amicizia con tanti compagni di partito e in particolare con Legnante, con cui approfondiva spesso problematiche del tempo e di vasta risonanza politico-culturale.
Nel dicembre del 1964, Legnante si candidò alla carica di sindaco e fu eletto con 956 voti di lista. Vennero eletti consiglieri di maggioranza: Vincenzo Legnante, Roberto Compagnone, Alfonso Dell’Aversana, Pasquale Cicatiello, Elpidio Del Prete, Giuseppe Dell’Aversana, Francesco Di Mattia, Giuseppe Moscato, Salvatore D’Ambra, Salvatore Brancaccio, Francesco Ziello, Vincenzo Esposito Ziello, Alfonso Pezzella, Luigi Di Serio, Francesco Ciuonzo e Michele Falace. Consiglieri comunali di minoranza furono eletti: Leone Stefano Cicala, Giuseppe Esposito Marroccella, Felice D’Antonio e Giuseppe Maisto. Vicesindaco venne nominato Alfonso Dell’Aversana. La prima legislatura durò sei anni, durante i quali vennero realizzate tantissime iniziative amministrative. In particolare seguì con grande interesse e passione gli scavi archeologici del 1966 impegnandosi per la salvaguardia del patrimonio archeologico atellano. Nel 1969 Legnante pubblicò il libro Cenno storico sociale di Sant’Arpino, un testo di storia locale che illustra le vicende storiche e i personaggi di Sant’Arpino. Nel 1970, per la seconda volta consecutiva, con 1314 voti di lista, fu rieletto sindaco con il Partito Comunista. Anche questa volta vicesindaco di Legnante venne nominato Alfonso dell’Aversana. Nel 1970, pubblicò La canzone di Atella ed il suo quadro storico, testo che parla della storia di Atella, dall’origine fino alla sua scomparsa. Per la sua intensa carriera di avvocato, nel 1971, ricevette dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli la medaglia d’oro al merito forense. Per il Carnevale dello stesso anno, Legnante coordinò e organizzò la rappresentazione della Canzone di Zeza, recuperando per iscritto un testo che fino ad allora veniva tramandato oralmente fra gli anziani del paese.
Nel mese di maggio del 1971, con una solenne cerimonia e alla presenza di autorità religiose, istituzionali e militari, si pose la prima pietra per la costruzione della chiesa di san Canione. La seconda parrocchia di Sant’Arpino, venne realizzata accanto all’antico romitorio, con una struttura architettonica ampia e moderna. Nel 1973, unitamente alle autorità ecclesiastiche della diocesi di Aversa, il sindaco Legnante presenziò alla cerimonia di inaugurazione della chiesa e don Maurizio Crispino divenne il primo parroco chiamato alla guida pastorale del nuovo luogo di culto. Nel 1975 concluse il suo secondo mandato di sindaco, caratterizzato dalla costruzione di tante opere (fra le quali l’ampliamento del cimitero) e da un complessivo ammodernamento ed ampliamento della macchina comunale. In prossimità delle elezioni amministrative del 1975, diede alle stampe Decennio comunista nell’Amministrazione Comunale di Sant’Arpino, un libro che racchiude l’operato dei primi dieci anni del suo governo cittadino. In quella tornata elettorale, si passò al sistema proporzionale e Vincenzo Legnante venne eletto nelle fila del Partito Comunista come consigliere comunale. A seguito di accordi politici fra Partito Comunista e Partito Socialista, per la terza volta, all’età di settantasette anni, fu scelto per guidare il paese. Vicesindaco venne nominato Gerardo Plazza del Partito Socialista. Questa terza esperienza durò però solo un anno. La linea politica di Legnante, soprattutto in campo urbanistico, fu in questo mandato spesso contestata dai suoi stessi compagni di partito, in un conflitto generazionale fra il vecchio sindaco e le nuove leve. Il sindaco venne messo in minoranza nel congresso cittadino del PCI e sfiduciato in consiglio comunale. A seguito di questa sfiducia si raggiunse un nuovo accordo con l’ingresso della Democrazia Cristiana in giunta. Dunque si attuò, per la prima volta a Sant’Arpino, il cosiddetto compromesso storico con un accordo DC - PCI - PSI e l’indicazione di un sindaco socialista. Amareggiato per il comportamento dei suoi stessi assessori e in aperta polemica con la sezione locale del Partito Comunista, l’avvocato Legnante rimise la tessera d’iscrizione al PCI a cui era iscritto dal lontano 1953.
Poco dopo si dimise anche da consigliere comunale, abbandonando definitivamente la vita politica attiva. Legnante, dunque, ricoprì l’incarico di sindaco di Sant’Arpino per dodici anni consecutivi, dal 1964 al 1976, le prime due volte eletto con il sistema maggioritario, la terza con il proporzionale. Con il suo ultimo mandato, seppur di breve durata, gettò le basi per la costruzione del Cinema Teatro Lendi, la cui inaugurazione avvenne nel 1978. Tale struttura, per dimensioni e tipologia, fu considerata una delle più avanzate d’Italia: un primato che nel tempo ha attratto l’attenzione di molti operatori del settore che proprio in questo locale hanno allestito eventi culturali di grande risonanza. Il cinema Lendi, fortemente voluto da Legnante, è stato un riferimento importante per la popolazione locale che, dopo la chiusura del Cinema Idea di via santa Maria della Grazie, non aveva più luoghi in cui ritrovarsi per apprezzare l’arte cinematografica e teatrale. Negli ultimi anni della sua vita Legnante si iscrisse di nuovo al PCI riprendendo la frequentazione della sezione di via de Muro. Nel 1979, pubblicò un libro dal titolo Poesie, fantasie, realtà nel quale riportò componimenti poetici, sia in italiano che in dialetto, scritti negli anni della sua giovinezza. Morì a Sant’Arpino il 5 dicembre del 1979, lasciando nella popolazione un segno tanto forte e profondo che si manifestò con l’intestazione alla sua memoria di una delle vie del paese. Nel dicembre 1989, in occasione del decennale della morte, la Pro Loco di Sant’Arpino pubblicò il libro Vincenzo Legnante cittadino di Atella, un volume che raccoglie tutti gli scritti dell’avvocato.
Il 6 dicembre 2009, nel trentennale della sua morte, la Pro Loco, con il patrocinio dell’amministrazione comunale, organizzò un convegno per celebrare la figura dell’avvocato. All’iniziativa, svoltasi nella sala convegni del palazzo ducale, presero parte personalità significative che con Legnante avevano condiviso gli anni di governo e di partecipazione politica attiva, tra cui Andrea Geremicca, prestigiosa figura politica e culturale napoletana, gli ex sindaci Vincenzo Ciuonzo, Salvatore Brancaccio e Roberto Compagnone più volte consigliere e assessore con il PCI. Alla cerimonia, i cui atti vennero successivamente pubblicati, fece pervenire un messaggio a firma autografa il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, testimoniando in tal modo la sua vicinanza al paese e l’apprezzamento del pensiero politico-culturale dell’avvocato Legnante, a cui era legato da grande stima.
** Tratto dal libro:
Giuseppe Dell’Aversana, Elpidio Iorio (a cura di), Da Atella a Sant’Arpino. Venticinque secoli di storia illustrata, con disegni di Elpidio Cinquegrana, Guida, Napoli 2012 Ricordo di Vincenzo Legnante in occasione del trentesimo anniversario della scomparsa (domenica 6 dicembre 2009)

Francesco D'Ambrosio (Ciccio) - (04.08.1922 - 02.01.2014)
Il 3 gennaio 2024 si è spento a 93 anni. Era un comunista della prima ora, un esempio di dirigente politico delle nostre terre. Operaio Specializzato (Ferraiolo) della Ferrobeton (grande impresa del nord) impegnata nella ricostruzione del Sud per conto della Cassa del Mezzogiorno (fine anni ‘50) - Grandi viadotti, Grandi opere pubbliche, Autostrada A1 - Organizza il sindacato in azienda e viene successivamente chiamato a dirigere la Fillea-Cgil (Organizzazione Sindacale degli Edili e dei lavoratori del Legno) della provincia di Caserta. Nei primi anni ’60 mantiene uno stretto legame di militante e dirigente con la Camera del Lavoro e il Partito Comunista Italiano della provincia di Caserta. D’Ambrosio è stato sempre in prima fila impegnato a costruire e organizzare le lotte per l’abolizione del sottosalario e la conquista dei Contratti di Lavoro. Si ricorda la lotta e l’occupazione della Moccia di Alvignano (impresa di lavorazioni di mattoni e affini) per la conquista di diritti per i lavoratori ed in particolare l’abolizione del sottosalario e l’applicazione dell’orario di lavoro. Fu numerose volte Consigliere comunale del PCI a Casal di Principe e ricoprì la carica di Assessore per la sua Città.
E’ stato sempre un punto di riferimento del Partito Comunista nella Zona Aversana ed in tutto il territorio della provincia di Caserta. E’ stato membro del Comitato Federale e della Commissione Federale di Controllo della Federazione del PCI di Caserta.Nel anni 68/69 ha diretto le lotte nella rivolta di Castel Volturno dirigendo i lavoratori edili impegnati nell’espansione di Baia Domitia per il rispetto e la conquista dei più elementari diritti sui luoghi di lavoro contro la sopraffazione, il lavoro nero, gli incidenti e le morte bianche sui cantieri di lavoro. Negli anni ‘70 Ciccio D’Ambrosio contribuì a costruire sul territorio casertano la CNA, la Confederazione dell'Artigianato ne fu Direttore del Patronato. Ciccio D’Ambrosio è stato come i tanti di allora e come i pochi di ora esempio di come si diventata dirigente politico partendo dal basso. E’ stato una persona e dirigente politico onesto e di altissime qualità umane che amava parlare sempre con competenze specifiche e sapeva ascoltare la voce dei più deboli. Infine una bellissimo ricordo: Ciccio da quando ha iniziato giovanissimo la sua militanza politica nel PCI non ha mai smesso (fino a ieri) di comprare e leggere l’Unità.
La vicenda politica di D'Ambrosio è un esempio classico di come il PCI sia stato luogo di riscossa sociale nei territori meridionali, per tanta parte della classe operaia. Il compagno "Ciccio" fu un operaio/sindacalista della Ferrocementi di Napoli, quando decise di aderire al Partito Comunista (anni 50) e dopo poco tempo si fece promotore, assieme a pochi altri, dell'apertura di una Sezione a Casal di Principe. Nello stesso periodo, tra gli iscritti e l'opinione pubblica casalese, si realizzò l'identificazione del "leader" comunista nella figura di D' Ambrosio.
Lui aveva un carisma naturale che si esprimeva soprattutto quando era necessario " salire sulle tavole " per parlare al popolo, cosa che faceva con innata irruenza oratoria e che gli conquistò la stima anche degli avversari politici. Ciccio era un autodidatta in formazione politica continua: accanito lettore di libri, non si faceva mancare mai l'Unità e Rinascita. La sua presenza decennale nel consiglio comunale come Capogruppo (fu anche Vicesindaco nella giunta Petrillo) e la sua puntuale azione di opposizione alle amministrazioni dei "signori" democristiani, quasi tutti provenienti da famiglie di agricoltori possidenti o benestanti, lo resero figura simbolo della contrapposizione di classe. Fu così che alla fine degli anni sessanta, iniziarono ad iscriversi alla sezione, un nucleo di giovani studenti, diplomati e laureati che in seguito divennero dirigenti e rappresentanti politici nelle istituzioni. D'Ambrosio era un funzionario della Federazione di Caserta e membro del Comitato Federale: per queste funzioni era conosciuto in tutte le sezioni della Provincia Nell'ultimo periodo della sua vita si dedicò al Patronato Epasa, senza mai smettere la sua iscrizione anche quando il PCI divenne PDS, DS e PD.
**Antonio Fontana, già Segretario della sezione del PCI di Casal di Principe
Casal di Principe, si è spento Ciccio D'Ambrosio: un comunista d'altri tempi
Si è spento a 93 anni Francesco D'Ambrosio. Un comunista della prima ora, un esempio di dirigente politico delle nostre terre. Operaio Specializzato (Ferraiolo) della Ferrobeton (grande impresa del nord) impegnata nella ricostruzione del Sud per conto della Cassa del Mezzogiorno (fine anni ‘50) - Grandi viadotti, Grandi opere pubbliche, Autostrada A1 - Organizza il sindacato in azienda e viene successivamente chiamato a dirigere la Fillea-Cgil (Organizzazione Sindacale degli Edili e dei lavoratori del Legno) della provincia di Caserta. Nei primi anni ’60 mantiene uno stretto legame di militante e dirigente con la Camera del Lavoro e il Partito Comunista Italiano della provincia di Caserta. D’Ambrosio è stato sempre in prima fila impegnato a costruire e organizzare le lotte per l’abolizione del sotto salario e la conquista dei Contratti di Lavoro. Si ricorda la lotta e l’occupazione della Moccia di Alvignano (impresa di lavorazioni di mattoni e affini) per la conquista di diritti per i lavoratori ed in particolare l’abolizione del sotto salario e l’applicazione dell’orario di lavoro.
Fu numerose volte Consigliere comunale del PCI a Casal di Principe e ricoprì la carica di Assessore per la sua Città. È stato sempre un punto di riferimento del Partito Comunista nella Zona Aversana ed in tutto il territorio della provincia di Caserta. È stato membro del Comitato Federale e della Commissione Federale di Controllo della Federazione del PCI di Caserta. Negli anni 68/69 ha diretto le lotte nella rivolta di Castel Volturno dirigendo i lavoratori edili impegnati nell’espansione di Baia Domizia per il rispetto e la conquista dei più elementari diritti sui luoghi di lavoro contro la sopraffazione, il lavoro nero, gli incidenti e le morte bianche sui cantieri di lavoro. Negli anni ‘70 D’Ambrosio contribuì a costruire sul territorio casertano la CNA, la Confederazione dell'Artigianato ne fu Direttore del Patronato.
Ciccio D’Ambrosio è stato come i tanti di allora e come i pochi di ora esempio di come si diventata dirigente politico partendo dal basso. Ciccio D’Ambrosio persona e dirigente politico onesto e di altissime qualità umane che amava parlare sempre con competenze specifiche e sapeva ascoltare la voce dei più deboli. Infine un bellissimo ricordo: Ciccio da quando ha iniziato giovanissimo la sua militanza politica nel PCI non ha mai smesso (fino a ieri) di comprare e leggere l’Unità.
** Tratto da L’Eco di Caserta di venerdì 03 Gennaio 2014
La grana dalla gramigna di Rosaria Capacchione. Su Biagio Ucciero
Il ricordo di quella giornata campale è il ricordo di una resa. Fu in quei mesi del 2003, quando (tanto per cambiare) si cercavano affannosamente fosse e buchi nei quali depositare i rifiuti che si accumulavano nelle strade napoletane, che gli uomini dello Stato incontrarono la camorra . Una riunione ufficiale, con i dirigenti del commissariato di governo, Massimo Paolucci e Giulio Facchi, che scesero a patti con un gruppetto di imprenditori in odor di mafia che quei buchi avevano disponibili.
Il resoconto di quell’incontro fu fatto, in pubblico, a un gruppetto di allibiti cittadini. Le discariche c’erano, erano piuttosto illegali, e appartenevano a Cipriano Chianese, Gaetano Vassallo, Elio e Generoso Roma: nomi di uomini poi diventati assai noti alle cronache giudiziarie che trattano di ecomafia. Fu in quella giornata – era primavera – del 2003 che il destino di Villa Literno, e delle vicinissime Giugliano e Parete, fu definitivamente segnato. A nulla serviva più protestare, e inutile era ripetere l’occupazione dei suoli che cinque anni prima aveva salvato le terre di Masseria del Pozzo, dall’altra parte della strada poderale che costeggia le piramidi di ecoballe. «Noi eravamo lo Stato – ricorda Pietro Ciardiello, che nel 1998 era sindaco a Parete – e fu mandata un’altra parte dello Stato a sgomberarci. C’era anche Biagio Ucciero, che era il sindaco di Villa Literno. Io, lui e il commissario di polizia, tutti e tre con le fasce tricolori. Alla fine andammo tutti e tre via, la discarica non si fece».
Biagio Ucciero non c’era più a condividere i ricordi di Ciardiello. È morto un paio di anni fa nel 2009, con l’amaro in bocca per la deriva affarista – lo diceva in tutte le riunioni – nella quale era precipitato il suo partito, l’ex Pci diventato Ds. Al suo posto, all’epoca del patto infernale tra Commissariato di governo ed ecomafie, era arrivato Enrico Fabozzi, arrestato e poi rilasciato per fatti di camorra. E fu allora che i suoli di Masseria del Re furono requisiti e trasformati in solide piattaforme di cemento armato, le basi su cui poggiano milioni di tonnellate di rifiuti imbustati. Masseria del Re è proprio affianco a Taverna del Re: stessa strada, un viottolo di terra battuta a separare i due siti e due comuni. Quello di Giugliano è più a monte, presidiato da un manipolo di guardie giurate. Quello di Villa Literno assomiglia a uno scarto industriale, abbandonato a se stesso, con le erbacce che hanno invaso il cortile e che sovrastano anche il cellophane nero, lacero, dal quale fuoriescono lunghissimi rami di gramigna. Sotto, ma visibili, ci sono le ecoballe, metà di quel pegno concesso da Impregilo, la controllata Fibe, alle banche in cambio delle anticipazioni necessarie a far funzionare la macchina dello smaltimento dei rifiuti in Campania e a costruire l’inceneritore di Acerra. Valevano, quei pacchi di rifiuti impacchettati, la metà dei 173 milioni di euro prestati a Impregilo in cambio di sette milioni di tonnellate di immondizia. Se non fosse stata troppo umida, sarebbe diventata energia, ed era questo l’effettivo controvalore del pegno.
I terreni appartenevano a due famiglie di San Cipriano d’Aversa e Trentola, Reccia e Cavallaccio. Alcuni lotti erano stati sempre nelle mani di coloni, che in quei giorni furono sfrattati. Frutta e verdura, si era deciso, dovevano lasciare il posto ai rifiuti. Le piattaforme di cemento armato sono state realizzate dai fratelli Pasquale e Giuseppe Mastrominico, gli imprenditori arrestati assieme all’ex sindaco Fabozzi. La Dda sospetta che siano la faccia finanziaria della famiglia Iovine, una delle quattro che compongono il cartello casalese. Anche sui proprietari dei terreni c’è il sospetto di contiguità con la camorra, uno con Iovine e l’altro con Zagaria. Chiacchiere di paese, però.
Voci che rendono concreta l’ombra dell’altra trattativa, quella tra il capoclan casalese Michele Zagaria e apparati di sicurezza: una tranquilla latitanza in cambio della tranquilla gestione dell’emergenza.
Di fronte alla montagna di ecoballe, in linea d’aria a nemmeno un chilometro, c’è la cittadella dell’immondizia che era appartenuta a Cipriano Chianese, avvocato di Parete. In questi giorni lo stanno processando per disastro ambientale. Lui era il padrone dei fossi, delle discariche rabberciate e insicure che in quel 2003 mise a disposizione del Commissariato di governo. Riuscì anche a fare una magia: l’autorizzazione postuma a un buco, che utilizzava per lo stoccaggio provvisorio dei ”suoi” rifiuti, e che miracolosamente diventò invaso per discarica. Raccontano i contadini sfrattati che erano buchi troppo piccoli per raccogliere davvero tutta l’immondizia che arrivava da Napoli. Raccontano anche che dalla Resit continuano ad arrivare folate di aria appestata, eppure è stata sequestrata tanti anni fa. E che in quei giorni dell’emergenza vedevano passare decine di camion, ne contarono almeno duecento, pieni di robaccia puzzolente che finiva dalle parti di Resit ma non nella discarica. Li vedevano tutti, nessuno li fermava. Il silenzio fu il prezzo pagato per risolvere il problema, che però non è stato mai risolto. E le ecoballe, pegno inesigibile, sono ancora là, a futura memoria dello scandalo e del patto/infernale.
Pubblicato su Il Mattino Domenica 20 Novembre 2011
Delio Iorio
Il 4 settembre 2001 si è spento l’avvocato Delio Iorio, ex sindaco di Casal di Principe e suocero del sindaco di Caserta Carlo Marino (impegnato nella campagna elettorale). L’avvocato era malato già da diverso tempo, fino a ieri quando il suo cuore ha smesso di battere. L’Associazione Avvocati in Caserta ha così voluto ricordarlo: «Gli Avvocati in Caserta piangono la scomparsa dell’Avv. Delio Iorio, fra gli ultimi giganti della scuola forense sammaritana. Ai familiari va il più sentito abbraccio di tutti i colleghi».
L'avvocato Libero Graziadei è stato più volte sindaco di Sparanise ed è figlio di Corrado Graziadei. Nel 1943 Libero era un giovane studente, degno seguace delle idee democratiche del padre. Compì azioni di guerriglia partigiana. Riuscì a valicare le linee per ben due volte (linea Formia-Garigliano e linea Cassino) accompagnato dal noto partigiano, Girolamo Licausi, tanto da essere insignito nel dopoguerra del riconoscimento di “partigiano combattente”.
Antonio Bellocchio
Nato a Capua il 22 settembre 1927, venne eletto sindaco di Pietravairano e poi a Caserta. Fu Segretario della Fedarazione PCI di Caserta, presidente e fondatore della Alleanza Contadini provinciale (ora Confcoltivatori), consigliere regionale in Campania e Deputato per diverse legislature. Giornalista, iscritto al Partito Comunista Italiano fin dalla giovane età. Viene eletto alla Camera dei deputati nelle file del PCI nel 1976 e viene riconfermato anche dopo le elezioni del 1979, quelle del 1983 e infine quelle del 1987, per un totale di quattro Legislature. In seguito alla svolta della Bolognina, aderisce al PDS.
Da poco è scomparso Antonio Bellocchio, noto come Ninotto per la sua stazza. Classe 1927, è stato uno dei più importanti esponenti di quella generazione che ha attraversato la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e ha costruito dalle fondamenta il processo di emancipazione sociale e il tessuto della democrazia rappresentativa nel nostro Paese. Dirigente del partito comunista e del mondo contadino prima, Consigliere regionale della Campania nella prima legislatura dal 1970 al 1975, parlamentare della Repubblica di primo piano, dalla VII alla X legislatura, dal 1976 al 1992. Una lunga militanza politica vissuta da grande protagonista della vita politica e sociale di Terra di Lavoro, della Campania e dell’Italia. Sia Antonio Bellocchio che la mamma, Bice Spanedda, provenivano da famiglie borghesi di graduati. Il padre di Bice, Placido Spanedda Cossu, originario di Sassari, era arrivato a Capua per dirigere la stazione dei carabinieri della città.
Il padre di Antonio era un maggiore dell’esercito morto di una malattia contratta durante una missione in Albania. A quel tempo Capua, anche se non era più la piazzaforte militare preunitaria – avendo perduto dopo il 1860 il ruolo di antemurale dell’allora città Stato napoletana – registrava ancora una presenza militare notevole, con diverse guarnigioni dell’esercito ospitate in ex complessi conventuali poi trasformati in caserme, l’Ospedale Militare, il Distretto, l’Aeroporto Salomone e innanzitutto il Pirotecnico Esercito. Una presenza massiccia che contribuiva a conferire alla città, sul piano culturale e politico, un segno conservatore.
Ninotto, così lo hanno sempre chiamato gli amici, era figlio unico. Da ragazzo coltivava il sogno di diventare ufficiale dell’esercito per ripercorrere le orme di quel padre che non aveva mai conosciuto. Aveva frequentato con profitto lo storico Liceo Classico di Santa Maria Capua Vetere ed aveva, poi, superato positivamente la visita medica per iscriversi alla Scuola militare la Nunziatella nel corso dell’agosto del 1943, quando si trovò coinvolto, insieme alla madre, nel terribile bombardamento del 4 agosto che fu causa di danni incalcolabili al patrimonio storico di Napoli e di molti morti. Purtroppo gli sviluppi degli eventi bellici determinarono seri problemi alle attività della Scuola mlitare. I corsi della Nunziatella, già dal marzo del 1943, erano stati trasferiti a Benevento. Nel dicembre dello stesso anno i saccheggi effettuati dalle truppe tedesche in ritirata causarono la distruzione di tutto il materiale che vi era stato trasportato. Con l’arrivo degli alleati a Napoli, inoltre, la scuola subì un netto ridimensionamento. L’istituto fu declassato a liceo-convitto e l’edificio occupato in buona parte dal comando inglese e da truppe palestinesi. I corsi ripresero parzialmente solo nel febbraio del 1944. Nell’ambito di questo processo di ridimensionamento della Nunziatella svanì il suo sogno. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale Capua – sede del Pirotecnico Esercito e nodo strategico di comunicazione viaria e ferroviaria – fu colpita da diverse incursioni aeree. In uno dei mitragliamenti aerei trovò la morte un giovane amico di Antonio Bellocchio, Alberto Luna, colpito pochi minuti dopo la conclusione di una partita di calcio che Ninotto aveva dovuto lasciare prima del termine per raggiungere la mamma. Nel pomeriggio fu chiamato presso l’Ospedale Palasciano per il riconoscimento del cadavere del suo amico. Non fu l’unico trauma che subì in quel terribile 1943. Durante un rastrellamento rischiò di essere fucilato dai tedeschi, che, a causa di una statura ingannevole sulla sua effettiva età, credevano fosse un disertore. A salvarlo fu la disperazione della mamma, aggrappatasi alle gambe del figlio e trascinata per diversi metri da un ufficiale tedesco, che per fortuna finì per impietosirsi e decise di lasciarlo andare. Inoltre la scelta della famiglia di “sfollare” nelle campagne di Sant’Angelo in Formis non gli risparmiò di vivere in prima persona il bombardamento più pesante subito dalla città il 9 settembre, con il suo terribile carico di morti, oltre 1000, e di distruzione del patrimonio edilizio (oltre il 75%). Convinti che con la firma dell’armistizio la guerra fosse finita, quella mattina in tanti rientrarono in città e ad Antonio Bellocchio capitò di dover tirare fuori dalle macerie la mamma, finita sotto i resti e i calcinacci dell’ufficio postale, per fortuna senza subire gravi conseguenze.
La sua scelta di chiedere la tessera comunista fin dall’inverno del 1943 fu innanzitutto una reazione al disastro che il fascismo aveva causato al Paese ed in particolare ai giovani. Ma un peso determinante lo ebbero anche i suoi rapporti molto stretti con Alberto ed Edelweiss Iannone, due intellettuali di profonda cultura marxista che avevano tenuto vivi in città gli ideali della sinistra negli anni bui del ventennio, contribuendo a formare una parte rilevante della futura classe dirigente della sinistra capuana e di Terra di Lavoro. Dopo la liberazione di Capua avvenuta il 6 ottobre del 1943 Antonio Bellocchio, a soli 15 anni si iscrisse al PCI e divenne segretario della Federazione Giovanile Comunista. Alberto Iannone, che dopo la librazione divenne presidente del CLN cittadino e dirigente dell’ufficio di collocamento di Capua, gli trovò un lavoro di cameriere, insieme al suo amico Enzo Raucci, presso la mensa ufficiale degli inglesi che si erano sistemati nella Caserma Fieramosca e nel campo profughi. Ninotto si trovava in condizioni economiche ristrette. La madre aveva una pensione assolutamente insufficiente. Qualche anno dopo fu tra i sostenitori dell’iscrizione alla sezione del PCI di Capua di Enzo Raucci. Lo ricordò in un discorso commemorativo tenuto nel 1985 al comitato federale del PCI Casertano dopo la morte di Enzo: “Nel 1944 …la classe operaia era chiusa in una aristocratica solitudine, mal guardando e sopportando che intellettuali, studenti di origine borghese, o peggio con qualche neo paterno di adesione al fascismo – com’era il caso di Enzo – potessero contaminare la sua purezza. Fui uno dei due presentatori della domanda di Enzo, avendolo preceduto nel Dicembre del 1943 nella iscrizione al partito, e pur non avendo 18 anni, ero membro del direttivo della sezione, quale responsabile giovanile, ed occorsero tre riunioni per piegare l’ostinazione di alcuni, perché Enzo venisse accolto nel partito. Come sempre accade, ironia della sorte, quelli che allora maggiormente si opponevano all’ingresso di Enzo, negli anni dal 1948 in poi, gli anni di Scelba, gli anni in cui nelle fabbriche i comunisti venivano licenziati, specie se lavoravano in fabbriche militari come quella del Pirotecnico, preferirono, nonostante il passato antifascista, ritirarsi dall’agone politico a vita privata».
L’anno successivo Antonio Bellocchio entrò a far parte del Comitato di zona del Basso Volturno e del comitato federale della Federazione comunista di Caserta. Lo scontro fortissimo che si sviluppò nel partito e nel sindacato sulla gestione della Confederterra, giudicata troppo piegata a interessi personali, segnò il suo futuro politico. Segretario di quell’organizzazione era Francesco Parente, che nel settembre del 1944 aveva organizzato la lotta dei proprietari delle terre espropriate dall’ONC durante il fascismo, per strapparle ai concessionari, in prevalenza ex braccianti. Parente fu espulso dal partito, l’organizzazione commissariata. Commissario fu nominato un bolognese, Cesare Masina. Nino De Andreis, allora segretario della Federazione, lavorò per rinnovare profondamente l’organizzazione sindacale. Tra i quadri di partito da impegnare per promuovere un nuovo gruppo dirigente la scelta cadde anche su Bellocchio, che entrò a far parte della presidenza della Confederterra. Il sindacato, che faceva capo alla Cgil, organizzava sia braccianti, sia mezzadri, piccoli affittuari, piccoli proprietari, purché coltivassero direttamente la terra.
Da allora Bellocchio non ha mai più lasciato l’impegno sulla questione agraria, neppure nel corso delle sue esperienze istituzionali. E’ sempre rimasto membro degli organismi nazionali delle diverse organizzazioni contadine che nacquero dalla decisione di separare l’organizzazione dei salariati da quella dei coltivatori.
Nel 1951 entrò a far parte dell’Associazione dei contadini del Mezzogiorno che nel maggio del 1955 decise di dare vita, con la Lega delle cooperative agricole, all’Alleanza nazionale dei contadini. L’anno successivo le cooperative si tirarono fuori e decisero di costituire un’autonoma Associazione nazionale delle cooperative agricole. Dell’Alleanza contadini Bellocchio divenne presidente regionale della Campania e poi responsabile della commissione meridionale. Quando, poi, nel 1977 la Federmezzadri – che era rimasta nella Cgil perché la mezzadria era considerata più contratto di lavoro che non un residuo feudale da abolire – fu autorizzata a uscire dall’organizzazione sindacale, nacque, dall’unione con l’Alleanza dei contadini, la Confcoltivatori, che assumerà successivamente la denominazione di Confederazione italiana agricoltori (Cia).
Le lotte agrarie di quegli anni furono solo una prima fase di un nuovo protagonismo delle masse che segnerà anche gli anni dal 1950 al 1953, caratterizzati da un’estensione del movimento e un forte inasprimento della repressione.
Nel 1954 Bellocchio grazie all’impegno profuso nelle lotte dei mezzadri, affrontò la prima significativa esperienza di amministratore locale, partecipando da capolista del PCI alle elezioni amministrative del Comune di Pietravairano. Un comune nel quale il partito comunista stava crescendo, ma divisioni e contrasti insorti nella sezione rischiavano di compromettere il buon lavoro che era stato fatto. La spaccatura si era determinata fra il gruppo dei comunisti del centro medievale del paese e il gruppo della frazione, in espansione lungo la strada provinciale. Fu la sezione a chiedere, con una lettera alla Federazione provinciale del partito, di impegnare Antonio Bellocchio a capeggiare la lista. Egli, infatti, godeva di grande stima nella zona del vairanese perché, da dirigente della Confederterra, aveva guidato le lotte dei mezzadri dei fondi del principe Pignatelli, strappando un nuovo rapporto sul raccolto da dividere non più al 50 per cento ma al 53 per i mezzadri e 47 per il proprietario. Ninotto accettò l’invito e lavorò personalmente alla composizione di una lista in grado di unificare i due gruppi interni al Pci dentro una più larga alleanza con socialisti e personalità indipendenti. Fu eletto sindaco e questo gli evitò anche l’arresto per la denuncia ricevuta in seguito alle lotte condotte a Pietravairano e Torcino sulle terre del principe Pignatelli, che avevano determinato l’intervento del vice questore, di polizia e carabinieri.
Ma le turbolenze interne al partito non riguardavano solo le sezioni locali. Anche la vita del gruppo dirigente provinciale del partito era segnata da forti tensioni. La situazione interna si stabilizzo con l’arrivo di Giorgio Napolitano, inviato da Giorgio Amendola a dirigere il partito casertano dal 1951 al gennaio del 1957. Dopo Napolitano la direzione della federazione di Caserta fu affidata a due comunisti capuani. Prima Gaetano Volpe e poi Antonio Bellocchio che la guidò nel pieno della contestazione studentesca del 1968. Un anno segnato non solo dalle lotte degli studenti ma anche dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia che suscito il dissenso netto del PCI ma anche una discussione molto accesa sulla riformabilità del comunismo da cui scaturì la radiazione del gruppo del “Manifesto”.
Di quella fase delicata della segreteria provinciale di Bellocchio si ricorda la sua apertura nei confronti del movimento degli studenti ma anche la grande tolleranza nei riguardi del dibattito politico interno. La Federazione di Caserta, ricorda Peppino Venditto che aveva aderito al gruppo del “Manifesto”, fu una delle poche nelle quali non venne radiato nessun dirigente legato all’esperienza del Manifesto. Con le elezioni politiche del 1976 ci fu un ricambio nella rappresentanza parlamentare del Pci della provincia di Caserta. A Enzo Raucci e Angelo Iacazzi subentrarono alla Camera dei deputati Antonio Bellocchio e Paolo Broccoli, vice segretario della Cgil di Caserta. Enzo Raucci fu chiamato nella direzione nazionale della Confcoltivatori, e successivamente, a causa di una crisi del gruppo dirigente regionale, a dirigere e ricostruire la Confcoltivatori della Campania.
In sostanza vi fu un avvicendamento con Bellocchio che pur rimanendo legato all’organizzazione lasciò i ruoli di gestione dell’organizzazione. Antonio Bellocchio rimase deputato fino al 1992. Egli continuò in Parlamento il lavoro di Enzo Raucci nella Commissione Finanze e Tesoro, di cui fu vice presidente nel corso dell’VIII legislatura. Anche se continuò a partecipare alla vita politica e sociale della provincia di Caserta, fu sempre più preso dall’attività legislativa nazionale per il ruolo di rilievo che svolse nel gruppo parlamentare del suo partito sul tema della riforma tributaria, sulle normative in materia di dazi doganali, sul finanziamento di regolamenti comunitari, come dimostra l’elevato numero di interventi in aula e l’intensa attività in commissione. Un impegno nazionale sempre più a tempo pieno sia nella IX legislatura, quando assunse il ruolo di capogruppo nella commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2, sia nella X legislatura, in cui ricoprì la carica di vice presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Tina Anselmi, sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. Bellocchio svolse il suo lavoro con una precisione e un’attenzione tali da meritare sulla stampa e tra i parlamentari l’appellativo di «Nero Wolf» della Commissione d’inchiesta. Non fu un caso se nell’attività di indagine per la comprensione del ruolo della strategia della tensione, furono impegnati parlamentari di esperienza. La crisi del sistema politico italiano è stata tale da consentire all’attività di condizionamento della vita pubblica da parte dei poteri occulti di diventare un tratto permanente della storia del Paese. La strategia della tensione è sopravvissuta alle stesse ragioni della sua nascita, legate, come è ormai noto, alla logica dei blocchi e alla delicata posizione geopolitica dell’Italia.
Non a caso il condizionamento dei poteri occulti è continuato anche dopo la caduta del muro di Berlino. Nell’illustrare la mozione del Pci in Parlamento sulle risultanze dell’inchiesta sulla P2, nella seduta del 19 dicembre del 1985, Bellocchio mette bene in evidenza la sua visione del carattere di questo fenomeno, ancor oggi illuminante, insistendo sulla necessità di ricomporre un quadro d’insieme «cogliendo i legami e le interrelazioni fra disegni apparentemente autonomi e staccati l’uno dall’altro, ma in realtà ricchi di connessioni e di cariche eversive comuni […]. Dagli atti della Commissione P2, ma anche dalle confessioni di Buscetta, dai processi contro Musumeci e Pazienza, emerge quel filo conduttore che lega questi fatti al ruolo svolto dai servizi segreti dal dopoguerra in poi, allo scandalo Sifar alla fine degli anni ’60, all’ingresso in campo della mafia, della grande criminalità straniera […] del terrorismo, dell’impero Sindona e dei grandi scandali: dall’aeroporto di Fiumicino, a quello del petrolio, ai fondi neri Iri». Tutto ciò «implica un giudizio sul modo in cui era organizzato il potere finanziario e politico nel nostro paese […] la P2 è un potere occulto del tutto particolare perché, oltre ad occuparsi dell’economia, delle banche, degli affari, delle armi e della droga, svolge la sua penetrazione nei maggiori gangli dello Stato, nelle istituzioni, nelle forze politiche […] Ecco perché, in sintesi, il fenomeno P2 ha disvelato la profonda crisi dello Stato nel suo complesso, l’incapacità a far prevalere l’interesse pubblico nei confronti delle vecchie e nuove potenze dominanti, che influiscono in modo determinante sulle scelte statali e modificano persino i termini della sovranità nazionale».
Insomma la crisi della politica nel suo complesso, che prende il via nella seconda metà degli anni Settanta in tutto il mondo, per effetto del rilancio dell’ideologia liberista, accentua la debolezza strutturale del sistema politico italiano e dà nuova forza a quel coacervo di poteri occulti che si era fino ad allora alimentato e sviluppato sulla paura del comunismo. Finita la prima fase della storia della Repubblica, travolta dai processi politici, economici e sociali indotti dalla caduta del muro di Berlino e dall’avanzare di una rivoluzione tecnologica sempre più invasiva, Antonio Bellocchio lascia la vita parlamentare e l’impegno politico per assumere l’incarico di presidente dell’ATI (Azienda Tabacchi Italiani), principale controllata dei Monopoli di Stato, dove grazie alla competenza maturata sula vicenda parlamentare dei Monopoli ha svolto un importante lavoro di risanamento finanziario, che portò in attivo un bilancio prima fortemente deficitario, attraverso la ristrutturazione aziendale di tutta la rete industriale nazionale e l’intera filiera tabacchicola italiana, la più importante d’Europa, rilanciandone le esportazioni dei prodotti finiti nei migliori mercati internazionali. Insomma, Antonio Bellocchio ha speso l’intera sua vita al servizio della causa dei lavoratori e delle istituzioni repubblicane. Lascia un esempio di passione politica, di tenacia, di abnegazione, di rigore, di attaccamento alle istituzioni che assume una valenza enorme in una fase di così acuta crisi della politica e del senso dello Stato.
*Adolfo Villani
Ferdinando Imposimato, il giudice sceriffo
Nato a Maddaloni il 9 aprile 1936 negli ultimi anni della sua prestigiosa carriera è stato presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. Si è occupato della lotta a cosa nostra, della camorra e del terrorismo in Italia: è stato infatti giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro del 1978, l’attentato a papa Giovanni Paolo II del 1981, l’omicidio del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet e dei giudici Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. Il fratello Franco Imposimato venne ucciso dalla camorra nel 1983 fuori dai cancelli della sua fabbrica, la Face Standard di Maddaloni. Si è occupato della difesa dei diritti umani, ed era molto impegnato nel sociale. È stato inoltre scelto per il riconoscimento di “simbolo della giustizia” dall’ONU, in occasione dell’anno della gioventù. Dopo essersi laureato in giurisprudenza all’Università degli Studi di Napoli Federico II nel 1959, nel 1962 diventò vicecommissario della polizia di stato e venne inviato prima a Brescia e poi a Forlì. Un anno dopo tornò a Roma come funzionario del Ministero del Tesoro, ove lavorò per un anno. Nel 1964 divenne magistrato. Quale giudice istruttore istruisce alcuni tra i più importanti casi di terrorismo tra cui il processo Aldo Moro, l’attentato al Papa, l’omicidio del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Vittorio Bachelet, la strage di Piazza Nicosia, coniugando la legislazione speciale emanata durante gli anni di piombo con il rispetto dei diritti civili. Fu lo scopritore della pista bulgara in Europa e delle connessioni internazionali del terrorismo. Fu il primo a parlare delle connessioni del terrorismo italiano con i servizi segreti israeliani e della presenza nel caso Moro del KGB (tesi ribadita, vent’anni più tardi, all’interno del dossier Mitrokhin). Si è occupato di processi contro mafia e camorra. Tra gli altri ha istruito il caso di Michele Sindona, il banchiere siciliano legato a Cosa Nostra, accusato di bancarotta fraudolenta per il fallimento di banche italiane e straniere (la Franklin Bank di New York). Nel 1981 istruisce il processo alla banda della Magliana, al terrorismo, ad alti prelati, a finanzieri, a usurai, a costruttori, a politici ed amministratori. Nello stesso anno il regista Francesco Rosi girò il film Tre fratelli, che si ispira alla vita del giudice Ferdinando Imposimato, e dei due fratelli, l’uno direttore del carcere e l’altro operaio. L’11 ottobre 1983 il fratello Franco venne ucciso per una vendetta trasversale. Dopo l’omicidio, il presidente della Repubblica Sandro Pertini ricevette al Quirinale il giudice Ferdinando Imposimato per esprimergli la sua solidarietà anche come Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel 1984 venne designato come rappresentante dell’Italia a Strasburgo per i problemi del terrorismo internazionale con abuso delle immunità diplomatiche e redige la “mozione finale” approvata all’unanimità dai rappresentanti dei 16 paesi dell’Europa. Nel 1986, dopo che le continue minacce di Cosa Nostra gli fanno lasciare la magistratura, divenne consulente legale delle Nazioni Unite nella lotta alla droga. Si recò più volte, per incarico dell’ONU, nei paesi dell’America Latina per i programmi di rafforzamento del sistema legale dei paesi afflitti dal narcotraffico. Preparò per conto delle Nazioni Unite diversi programmi di addestramento dei giudici colombiani, boliviani, peruviani ed ecuadoriani. Ad un programma che si svolgeva in Italia, parteciparono, tra gli altri, Giovanni Falcone, Gianni De Gennaro, Rosario Priore, Giancarlo Caselli ed il Generale dei Carabinieri Mario Mori, si occupò di diritti umani e dei principi del giusto processo in America Latina, ove, per incarico del Dipartimento degli Stati Uniti, svolse un’importante missione in Perù, con il prof. Carlos Arslanian, Ministro della Giustizia dello Stato di Buenos Aires, e con il prof. Robert Goldman, della George Washington Uni- Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 231 232 Parte nona - Cultura e coesione sociale versity. Nel 1987, come indipendente di sinistra, Imposimato venne eletto nelle liste del Partito Comunista Italiano al Senato della Repubblica e nel 1992 alla Camera dei deputati. Nel 1994 venne nuovamente eletto al Senato. Per tutte e tre le legislature è stato membro della Commissione Antimafia e presentò numerosi disegni di legge sulla riforma dei servizi segreti, sugli appalti pubblici, sui trapianti, sui sequestri di persona, sui pentiti, sul terrorismo e sulla dissociazione. Successivamente passa al Partito Democratico della Sinistra, per divenire poi il responsabile alla giustizia dei Socialisti Democratici Italiani. Nel 2001 è stato collaboratore e consulente di Don Pierino Gelmini, direttore di 150 comunità terapeutiche per il recupero di tossicodipendenti, in Italia ed all’estero. Si è occupato inoltre del lavoro dei detenuti per la comunità in collegamento con l’associazione “Liberi di San Vittore”. Nel gennaio 2001 ha scritto una importante prefazione al libro La sporca guerra di Habib Souaidia, dove aveva previsto la offensiva di Al Qaeda ed il terrorismo islamico contro l’occidente. «Il terrorismo va combattuto senza mezzi termini e senza incertezze, ma anche smascherando coloro che si giovano del terrorismo con il pretesto di combatterlo. L’Europa e gli Stati Uniti non si illudano. Fingendo di non vedere e di non capire, prima o poi dovranno pagare un conto molto salato. L’islamismo sta dilagando a vista d’occhio in tutto il mondo come il nuovo alfiere della libertà e della giustizia dei popoli oppressi. I segnali sono numerosi e non si possono ignorare. Basta vedere quello che oggi sta accadendo in Italia e in Europa.» Nel 2008 ha scritto il libro Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro, che tiene viva la memoria e contribuisce a chiarire uno degli episodi più tragici e sconvolgenti della storia repubblicana, la strage di via Fani, il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Nel 2012 dà alle stampe La Repubblica delle stragi impunite, che descrive il legame che unisce le stragi indiscriminate che hanno scandito la vita dell’Italia repubblicana, come la strage di Portella della Ginestra (maggio 1947), strage di piazza Fontana (dicembre 1969), strage di piazza della Loggia (maggio 1974), la strage dell’Italicus (agosto 1974), l’agguato di via Fani (marzo 1978), la strage di Bologna (agosto 1980), l’attentato dell’Ad- daura (giugno 1989), la strage di Capaci (maggio 1992) e la strage di via D’Amelio (luglio 1992). Il libro tratta del nesso tra servizi segreti stranieri e italiani, agenzie internazionali di copertura, potere politico, terrorismo, mafia e associazioni criminali. Ha promosso inoltre la ricerca di verità alternative a quelle processuali in alcuni casi celebri (come quelli di Marta Russo, caso Carlotto, caso Sofri, ecc.). È stato inoltre il legale italiano di Chico Forti, italiano detenuto negli Stati Uniti dal 2000. Dopo il rientro nei ranghi della magistratura italiana divenne giudice della Suprema Corte di Cassazione, dove venne nominato Presidente Onorario aggiunto. Nel 2013 fu indicato dal Movimento 5 Stelle, assieme ad altri nomi, per l’elezione a Presidente della Repubblica. Un mese dopo Imposimato affermerà pubblicamente di non essere un aderente al Movimento 5 Stelle ma di riconoscerne il merito di aver denunciato la paralisi e l’impotenza del Parlamento. Lo stesso partito lo ha sostenuto anche nella successiva elezione del 2015, votandolo in tutti i quattro scrutini.
Pasquale Fronzino
San Nicola la Strada - Pasquale Fronzino, avvocato ma soprattutto politico e militante di sinistra, è morto venerdì sera, attorno alle 23.00, a conclusione del comizio elettorale a sostegno della lista "Torre – Unità Popolare per il mio paese" di Vairano Patenora.
Pasquale Fronzino, avvocato ma soprattutto politico e militante di sinistra, è morto venerdì sera, attorno alle 23.00, a conclusione del comizio elettorale a sostegno della lista "Torre – Unità Popolare per il mio paese" di Vairano Patenora.
Ha scritto un'amica giornalista, che condivideva con Fronzino la militanza di sinistra, "Se n'è andato facendo una delle cose che gli piaceva fare di più: politica". Nulla di più vero. Fronzino sicuramente non si aspettava che fosse giunta la sua ora, ma se lo avesse saputo, è proprio così che avrebbe voluto morire: mentre parlava e cercava di convincere la gente che in politica bisogna avere degli ideali e lui, questi ideali ce li aveva.
A Vairano Patenora, l'esponente storico della sinistra sannicolese e casertana, è stato colto da un malore improvviso. A nulla sono valsi i soccorsi, Pasquale Fronzino è deceduto durante il trasporto all'ospedale di Piedimonte Matese. Avrebbe compiuto 56 anni il prossimo luglio. Le esequie si terranno questo pomeriggio, con inizio alle ore 16.00, presso la Parrocchia Santa Maria degli Angeli nel centro storico di San Nicola La Strada e saranno officiate da don Marco Fois.
Nato a San Nicola la Strada l'8 luglio del 1956, Fronzino è residente a San Nicola dalla nascita, coniugato, 4 figli, laureato in giurisprudenza, avvocato, iscritto al Pci dal 1974 al 1991, successivamente iscritto a PRC dal 1993. È stato eletto cinque volte nel consiglio comunale di San Nicola la Strada: 1978 con il PCI, 1982 (PCI), 1988 (PCI), nel 1993 è candidato sindaco appoggiato da RC, così come nel 1997 è candidato a sindaco appoggiato da RC.
La sua improvvisa morte è un lutto che colpisce anzitutto la sua città, San Nicola la Strada (leader storico della sinistra locale: candidato sindaco, consigliere comunale, fondatore dell'associazione Pier Paolo Pasolini, solo per citare qualche esempio) ma che colpisce anche tutta la sinistra casertana e quanti, anche avversari politici, lo avevano sempre apprezzato per la sua tenacia e per la forza delle sue convinzioni. La tragica notizia della sua scomparsa, proprio a termine di un comizio elettorale che lo aveva portato a Vairano a sostegno dell'ennesima battaglia politica, è stata data immediatamente, già in nottata, dai suoi compagni.
Con la lista "Torre – Unità Popolare per il mio paese", che racchiude varie espressioni sociali e che non ha logiche spartitorie, Fronzino si proponeva di dare una svolta decisiva per quello che è sicuramente il centro più strategico dell'alto casertano. Punto assolutamente cruciale per la sua posizione geografica valorizzato anche e soprattutto dalla presenza del casello autostradale che si immette direttamente sull'A1, sede dell’importante snodo ferroviario di Vairano Scalo oltre che primo paese del tratto di superstrada che collega il casertano con il beneventano e via di passaggio che collega il casertano con l'adriatico.
Nicola Russo
Caserta, muore per Covid Nicola Russo: era stato segretario del Pci e della Cgil. Aveva 68 anni ed era ricoverato al Cotugno di Napoli dopo essere transitato per il Covid hospital di Maddaloni. Era stato anche vicesindaco di Capodrise.
Il Covid si è portato via nelle scorse ore anche Nicola Russo, ex segretario provinciale del Pci di Caserta ed ex segretario generale della Cgil - comprensorio aversano. Aveva 68 anni ed era vaccinato contro il virus, seppur in attesa della terza dose ritardata per sottoporsi a cure per una malattia immunodepressa. Due settimane fa era stato ricoverato al Covid hospital di Maddaloni dopo la scoperta del contagio. L’aggravarsi delle sue condizioni avevano consigliato il trasferimento al Cotugno di Napoli, dov’è però morto in un letto della terapia intensiva a distanza di una settimana dall’arrivo. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto nella politica e nel sindacato della provincia di Caserta, dov’è stato protagonista di battaglie per i diritti dei lavoratori e per lo sviluppo della comunità locale.
L’impegno per il territorio
Da vicesindaco di Capodrise, sua città d’origine, negli anni Novanta e assieme all’allora sindaco Anthony Acconcia (oggi amministratore unico della società per la mobilità Air Campania ), in una stagione di nuove alleanze politiche, Nicola Russo ha legato il suo nome alla nascita e alla crescita dell’area di insediamento produttiva a ridosso del viale Carlo III, lo stradone che conduce a Caserta, dove trovarono spazio insediamenti di terziario, centri commerciali, strutture ricettive. Molto prima, tra gli anni ‘70 e ‘80, da segretario della Cgil della zona aversana, aveva vissuto gli anni che condussero all’insediamento e allo sviluppo di importanti aziende come la Indesit. Per tre anni, dal 1985 al 1987, è stato segretario provinciale casertano del Pci, succedendo a Giuseppe Venditto (poi presidente del Consiglio regionale della Campania) e lasciando le redini del partito a Lorenzo Diana, che guidò la transizione verso il Pds e che fu anche senatore. Vincenzo Negro, attuale sindaco di Capodrise, lo ricorda come «un rappresentante istituzionale corretto e attento, un politico appassionato e un capodrisano innamorato della sua terra». «DopoAmedeo Marzaioli- dice invece Pasquale Iorio, già segretario generale della Cgil casertana - se ne va un altro compagno di quel gruppo di militanti e dirigenti del sindacato e del PCI che furono protagonisti di una stagione di rinnovamento politico e culturale all’interno del movimento operaio e comunista tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80 del secolo scorso». Appassionato, durante il funerale di questa mattina, il ricordo tracciato da Franco Capobianco, ex assessore provinciale ed ex consigliere comunale a Caserta, che con lui ha condiviso tutto il percorso nel partito e nel sindacato. Da quest’ultimo anche un richiamo al governatore Vincenzo De Luca: «Facciamo funzionare meglio la medicina di base». Nicola Russo lascia la moglie Roberta e i figli Walter e Valeria.
Il mio compagno di vita, Nicola Russo
Quando eravamo molto giovani, e anche adesso per alcuni di noi può essere confermato, vivevamo di ideali. La crescita personale, l’evolversi delle fasi di vita, i nostri cambiamenti avvenivano nelle Sezioni del Partito Comunista. Fare Politica è operare in comunità e in questo contesto si stringevano rapporti che segnavano per sempre le nostre vite. Il mio compagno e amico di una vita è Nicola Russo. Dopo la scomparsa di Nicola ho letto e sentito tante parole di commozione dei moltissimi tra compagni e amici che hanno conosciuto da vicino l’enorme, indescrivibile, rara attenzione verso gli altri che Nicola aveva come dono di natura, come eredità morale della sua famiglia, fortemente testimoniata dalla sua storia politica e personale. Nicola Russo, tra le mura della Sezione del PCI di Capodrise, cresce e raggiunge, sin da giovanissimo, incarichi di direzione all’interno del Partito. È a Capodrise che il nostro legame si consolida, diventando “quei due” inseparabili amici, Nicola e Franco, riconosciuti da tutti come un unicum, in quegli anni settanta vissuti nell’impegno politico e sociale. Eravamo consapevoli di stare vivendo una fase storico politica del PCI e della DC di Capodrise di enormi trasformazioni. Eravamo gli eredi di una lunga tradizione democratica e ne eravamo protagonisti: i compagni ci lascavano il testimone e noi ci sentivamo invincibili e, senza alcuna retorica, lo eravamo.
Nicola Russo diventa corrispondente del giornale l’Unità e, con la sua penna, firma in prima pagina un articolo sulle “lotte del pomodoro” a Villa Literno. Frequenta la scuola di Partito: parte per Roma, raggiunge Le Frattocchie. A trent’anni viene indicato, proposto ed eletto - al 17° Congresso Provinciale del 9 Marzo del 1986 - Segretario della Federazione del PCI di Caserta. Guida la delegazione della provincia di Caserta al 17° Congresso Nazionale del Partito Comunista Italiano che si svolse a Firenze. Burrascose battaglie politiche (strumentali) e lotte intestine non scalfiscono la fermezza e gli ideali del compagno Nicola Russo, che con la sua onestà politica decide - senza l’ombra del sacrificio – di dimettersi dall’incarico, favorendo la sua sostituzione alla direzione del Partito in provincia di Caserta. Lo studio e la dedizione all’approfondimento delle lotte per il lavoro lo portano alla direzione del sindacato, la Cgil, e a impegnarsi nelle lotte operaie in un territorio cruciale di Terra di Lavoro come quello aversano. Col trascorrere del tempo e l’avvicendarsi di trasformazioni politiche di rilevanza nazionale e internazionale, l’approccio è cambiato ma i rapporti sono rimasti indissolubili, uguali al valore intrinseco dell’amicizia vera, nel segno della condivisione politica, quella mai, mai messa in discussione. Proprio come il rapporto che mi lega (e utilizzo volutamente il presente) a Nicola e alla sua famiglia. Un rapporto profondo e indistruttibile, che ci ha visti protagonisti dei nostri più importanti traguardi personali. Nicola e Franco, un legame talmente forte da essere vissuto nell’intimità delle nostre vite e al contempo talmente evidente da essere riconosciuto socialmente, dall’adolescenza alla dolorosa separazione. Un rapporto che è l’incontro di Politica e vita privata, Nicola e Franco, i compagni, gli amici fraterni, i comunisti. Esperienze tra le più disparate insieme: l’entusiasmo per le esperienze politiche, i viaggi, le trasferte, l’organizzazione delle Feste dell’Unità, il Primo Maggio, le Feste della Liberazione, gli scontri a Reggio Calabria, le partite a calcio, le notti in ospedale a farci forza. L’esperienza operaia in una fabbrica in Germania. La Jugoslavia, la Corsica, insieme da mia madre a Pescara, le elezioni del 1988 a Capodrise e come tu dicevi “il fuoco amico” dell’infame vicenda giudiziaria. Il mio matrimonio civile in un freddo pomeriggio del gennaio del 1976 al Comune di Capodrise: testimoni i compagni Nicola Russo e Giampiero Di Marco, intellettuale comunista sessano prematuramente scomparso. E io e mia moglie Caterina testimoni del suo matrimonio con Roberta. Mi ritrovo oggi a scrivere di noi, del tuo ricordo richiesto da Pasquale Iorio, a parlare di “noi”, quel noi che non finirà mai, Nicola, anche se non ti posso abbracciare, non posso coinvolgerti nel ricordo, non posso telefonarti come ho fatto quel maledetto tuo ultimo giorno. Noi due, oggi padri, tu di Walter e Valeria, e io addirittura nonno di Francesco e Caterina, e ci rivedo Nicola, con i pantaloni a zampa di elefante, con i nostri capelli lunghi e i tuoi abiti sempre impeccabili. La sua eleganza, il suo stile, i suoi comportamenti e i suoi sorrisi resteranno nel ricordo di tutti, perché sono la rappresentazione visiva della sua nobiltà d’animo e dell’enorme rispetto per gli altri, perché così era Nicola. Disponibile, amorevole, leale, entusiasta.
Nicola sei e sarai sempre nei pensieri di tanti compagni e amici e di tutti coloro che ti hanno conosciuto e apprezzato personalmente e politicamente. Immediate, appena dopo la notizia, furono le parole che il Sindaco di Capodrise Vincenzo Negro volle dedicare a Nicola: “uomo esemplare sul piano della correttezza personale, politica e istituzionale”.
Nicola Russo ha lasciato un vuoto incolmabile nella sua famiglia e nell’intera comunità.
Sei parte di me. Con amore fraterno e immensa gratitudine.
**Franco Capobianco, Direttore Unilif
Nel ricordo di Adolfo Villani (Sindaco di Capua)
Ho sentito Nicola Russo l’ultima volta intorno alla mezzanotte del 25 gennaio scorso. Era nell’ambulanza, in fila, fuori al pronto soccorso dell’Ospedale Cotugno, in attesa di essere ricoverato a causa di una polmonite provocata dal Covid. In quel momento il saturimetro segnalava un forte abbassamento della saturazione di ossigeno. Io cercavo di confortarlo dicendogli che al Cotugno sarebbe stato in buone mani. Ma Nicola sapeva bene i rischi cui andava incontro e mi ripeteva “questa cosa non doveva accadere”. Da alcuni anni soffriva di una malattia autoimmune. La mattina dopo gli inviai un messaggio al quale non ha potuto più rispondere. Era stato intubato nel corso della notte. Stamattina la triste notizia. Non ce l’ha fatta. Con Nicola se ne va un pezzo della mia vita e della vita di tanti compagni che hanno fatto parte di quella straordinaria e irripetibile comunità umana e politica che è stato il PCI.
La storia di Nicola è comune a quella di tanti di noi: il Sessantotto, la scuola, la passione per la politica, l’esperienza in una sezione molto forte e popolare di un comune con una rilevante presenza di classe operaia (in quegli anni cresciuta nelle aree di nuova industrializzazione) come lo era la Capodrise degli anni Settanta, che esprimeva non a caso una amministrazione di sinistra. Subito dopo il diploma una fase di esperienza di lavoro in una fabbrica della Germania, insieme all’amico di sempre Franco Capobianco, e poi la rinuncia ad ogni altro impegno di studio o di lavoro per inseguire il sogno di una società migliore, più equa e più giusta, dedicandosi anima e corpo all’impegno politico totalizzante, a tempo pieno, come lo era quello di un “rivoluzionario professionale”, di funzionario di una federazione del Mezzogiorno del Partito Comunista Italiano. Quel partito per noi era tutto, veniva prima di ogni altra cosa. Prima della famiglia. Prima di noi stessi, sempre pronti a qualsiasi sacrificio per servire la causa comune.
Nicola fu uno dei giovani “quadri” chiamati a ruoli di responsabilità e di direzione politica da Peppino Capobianco nei primi anni Settanta. Peppino era tornato a Caserta a dirigere la Federazione per promuovere quel rinnovamento dell’apparato e dei gruppi dirigenti ai vari livelli, che Enrico Berlinguer, appena eletto segretario generale del PCI, aveva voluto con grande determinazione per aprire il partito alle istanze antiautoritarie e alle rivendicazioni di nuovi diritti che avevano attraversato l’Italia negli anni dell’esplosione della contestazione giovanile, del movimento studentesco, cui era seguito l’autunno caldo delle rivendicazioni della nuova classe operaia delle grandi fabbriche. Nicola aveva cominciato la sua attività lavorativa nella federazione casertana collaborando per un breve periodo come corrispondente delle pagine regionali de l’Unità, poi era entrato nella segreteria provinciale per occuparsi della commissione operaia e poi della commissione Enti locali.
Io lo conobbi proprio in quegli anni nei quali vivevo l’esperienza di giovanissimo consigliere comunale a Capua, in una fase nella quale, sotto la spinta della grande avanzata che nel 1975 il PCI segnò nelle elezioni amministrative in tutto il Paese, la DC aveva perduto la storica maggioranza assoluta ed era nata una delle prime amministrazioni di sinistra, in una delle città fondamentali di Terra di Lavoro. Poi diventato segretario della sezione cittadina del PCI ed entrato nel comitato direttivo della federazione del partito i nostri contatti divennero frequenti.
Nel 1980 fui “prestato” al sindacato e qualche anno dopo entrai anche io nell’apparato della Federazione e nella segreteria provinciale. Da allora e per tutti gli anni Ottanta lavorammo fianco a fianco condividendo anche una comune appartenenza all’area riformista del partito. Sono tanti i ricordi che affollano ora la mia mente. Il primo, molto nitido, risale all’agosto del 1980 quando insieme partimmo da Caserta con un pullman organizzato dalla CGIL e con la bandiera della federazione casertana del PCI nelle mani, per partecipare alla grande manifestazione che si svolse a Bologna nei primi giorni successivi alla strage della stazione del 2 agosto. Fu una giornata di grande dolore, di rabbia e di forte tensione emotiva di un anno drammatico. Un anno funestato dal terrorismo politico mafioso, da numerosi attentati ed uccisioni di poliziotti, dirigenti di azienda, magistrati, politici, giornalisti, perpetrate da organizzazioni terroriste nere e rosse. Ma anche da attentati di mafia che proprio quell’anno inaugurava un nuovo ciclo di omicidi eccellenti, alcuni dei quali compiuti unitamente ai terroristi neri, a partire da quelli del procuratore di Palermo Gaetano Costa e di Piersanti Mattarella.
Purtroppo erano eventi anticipatori di un decennio che avrebbe fatto segnare un salto di qualità nei disegni di destabilizzazione che interessavano da tempo l’Italia. Disegni che avevano mandanti molto in alto e che erano legati anche all’attività di servizi deviati e al clima internazionale di scontro tra i due grandi blocchi politici e militari contrapposti. La nostra esperienza di dirigenti politici non poteva non risentire di quel clima. Gli anni Ottanta non furono per noi entusiasmanti come lo erano stati in parte gli anni Settanta. Ricordo la tensione che si respirava nelle nostre sezioni, in particolare della zona aversana, di fronte all’escaletion delle organizzazioni camorristiche negli enti locali per il controllo degli appalti. E ricordo il coraggio di Nicola che non si sottraeva mai dagli incarichi che gli venivano affidati di seguire le situazioni più pericolose, le sezioni di partito più esposte.
C’era poi un altro fronte di emergenza che impegnava particolarmente Nicola nella sua qualità di responsabile della commissione operaia della federazione: quello della crisi grave e diffusa dell’apparato industriale in conseguenza di un processo di deindustrializzazione, iniziato alla fine degli anni Settanta e collegato a processi di ristrutturazione tecnologica che investivano tutto l’Occidente, provocando una riduzione della forza lavoro, una caduta del peso politico della classe operaia e della forza organizzata del sindacato, con conseguenze non trascurabili sulle prospettive del nostro partito. Eppure trovammo la forza per non giocare solo in difesa.
I primi anni Ottanta sono stati anche gli anni di una maturazione importante intervenuta nella federazione comunista di Caserta sul piano dell’elaborazione politica, dell’analisi delle trasformazioni della struttura economica, sociale e territoriale della nostra provincia. Una maturazione frutto di un dibattito impegnativo che coinvolse tutto il partito e tutte le organizzazioni di massa ad esso collegate, cui Nicola partecipo’ con grande impegno fornendo un contributo significativo.
Il terribile terremoto del 23 novembre del 1980 era stato per noi un evento rivelatore dei grandi cambiamenti che negli anni precedenti avevano investito non solo l’apparato produttivo ma anche l’assetto urbanistico del territorio, la cui parte meridionale era ormai divenuta parte integrante dell’area metropolitana di Napoli. Una realtà che aveva bisogno di essere affrontata con politiche di governo capaci di impedire un destino da periferia metropolitana degradata e di delineare per Caserta e la sua provincia un ruolo nuovo nel processo di riorganizzazione e di riqualificazione dell’area metropolitana di Napoli – reso ancora più urgente dagli effetti di quel terremoto.
I nuovi sistemi urbani, cresciuti per effetto di processi spontanei e disordinati di saldatura tra vecchi paesi agricoli, erano in una posizione strategica ideale per candidarsi a città medie di riequilibrio delle funzioni metropolitane di eccellenza.
Fu questo nuovo orizzonte programmatico della sinistra casertana a dare forma e forza alle vertenze di zona aperte dal sindacato unitario. Vertenze territoriali nelle quali le lotte per la difesa dell’apparato produttivo si intrecciarono con quelle per la riqualificazione urbana costringendo le istituzioni locali, la Provincia, la Regione a cimentarsi con la sfida della programmazione e del governo del territorio. Se quel movimento non riuscì ad impedire un processo di deindustrializzazione – che era legato anche a ragioni di ordine internazionale, con la globalizzazione neoliberista destinata a cambiare la divisione internazionale della produzione e del lavoro – diede però i suoi frutti sul piano del processo di riorganizzazione dei servizi e delle funzioni su scala regionale, che fu avviato in quegli anni e vide l’area casertana destinataria di servizi e funzioni di eccellenza quali la stazione di smistamento di Marcianise, l’interporto, le sedi di gran parte delle facoltà Universitarie del II Ateneo della Campania, il Centro di Ricerche Aerospaziale e numerose attività di ricerca in settori fondamentali del nostro apparato produttivo. Era però sul piano politico generale che doveva arrivare per noi il colpo più duro.
Dopo la fine della politica di unità nazionale – con cui il PCI aveva dato un contributo rilevante alla tenuta del Paese rispetto agli effetti di una dura crisi economica e della difesa delle istituzioni democratiche dall’attacco terroristico e mafioso – il partito fu impegnato ad elaborare una correzione di rotta cui, purtroppo, non riuscì a dare una prospettiva politica adeguata ai tempi nuovi e alla svolta storica che il processo di globalizzazione neoliberista imponeva a tutta la sinistra europea. Noi maturammo con troppo ritardo l’approdo alla socialdemocrazia europea e questa, dal canto suo, aveva ormai esaurito il suo ruolo di costruttrice del nostro originale stato sociale, svolto dal dopoguerra in poi, senza riuscire ad imprimere il necessario impulso alla prospettiva di costruzione di un vero stato europeo. Ritardi che dovevamo pagare – tutte le anime della sinistra – con la sconfitta storica dalla quale ancora fatichiamo ad uscire. La morte di Enrico Berlinguer accentuò la nostra crisi.
Nicola fu eletto segretario della Federazione di Caserta nella primavera del 1985, nel pieno della tempesta politica che si era aperta. A me toccò il ruolo di responsabile dell’organizzazione della federazione. La prova che ci attendeva fu durissima. Alle difficoltà di ordine generale – che provocavano divisioni profonde negli organismi dirigenti – si aggiungevano quelle causate dal nostro orientamento riformista, poco apprezzato in un partito che invece accentuava la fisionomia anticapitalista in contrasto con il compromesso Keynesiano di stampo socialdemocratico e questo rendeva ancora più complicato il dibattito nella federazione casertana. La foto di Nicola che ho ritrovato stamattina ci ritrae alla presidenza del convegno dell’otto luglio del 1995, sui quaranta anni dalla ricostruzione della federazione comunista casertana, cui partecipò Giorgio Napolitano, che di quella federazione era stato segretario dal 1951 al 1956. Fu credo l’ultima bella, tranquilla e condivisa iniziativa di un biennio difficile caratterizzato da polemiche e scontri interni al termine del quale Nicola decise di rassegnare le dimissioni da segretario.
Tentai di farlo desistere dalla decisione ma Nicola aveva perso fiducia nel gruppo dirigente nazionale e insieme all’incarico di segretario della federazione lasciò anche il lavoro di funzionario di partito. Qualche anno dopo dovevo maturare anche io la stessa decisione. Un’epoca stava finendo e con essa il sogno e le speranze che ci avevano sostenuto in un lavoro durissimo che certamente aveva consentito ad entrambi di esercitare un ruolo importante, un ruolo di responsabilità e di visibilità, pur in un quadro di precarietà economica che solo una grande passione poteva consentire di sopportare.
E qui emerge un altro tratto della personalità di Nicola. Essere stato segretario provinciale di un grande partito come il PCI non era a quel tempo cosa di poco conto. Nicola non era certo un signor nessuno. Avrebbe potuto bussare a tante porte, comporre molti numeri della sua fitta agenda telefonica per chiedere una mano. Ma non lo fece. Preferì ripartire da zero ed aprì a via Roma a Caserta uno studio di mediatore creditizio e assicurativo. Poi nei primissimi anni Novanta con la nascita dell’albo dei consulenti finanziari ci preparammo entrambi per l’esame e ci ritrovammo di nuovo insieme ad esercitare una professione che allora cominciava a muovere i primi passi.
Nicola Russo è stato una bella persona, un uomo giusto che non meritava di morire così presto ed in questo modo atroce. Nessuno potrà, però, cancellare la sua lezione di stile e di vita che continuerà ad accompagnare tutti quelli che lo hanno conosciuto ed apprezzato. Non è stato facile per me in questo momento raccogliere le idee per questo ricordo doveroso e sentito. Il dolore che provo è reso più acuto dalla impossibilità di partecipare ai suoi funerali domattina alle 10 a Capodrise perché sto ancora vivendo – spero gli ultimi giorni – di positività al Covid. Alla cara moglie Roberta, ai figli Walter e Valeria, al fratello Salvatore, alle sorelle Caterina, Giovanna e Giuseppina un grande e forte abbraccio. Ciao Nicola riposa in pace. Noi non ti dimenticheremo mai.
Giampiero Di Marco
Nel mese di novembre 2021 muore noto medico: era stato anche volontario in Africa. La comunità di Sessa Aurunca piange uno dei suoi figli migliori. E' venuto a mancare il dottore ginecologo noto medico sessano, da anni, come dice 'Generazione Aurunca', "da anni in prima linea nelle azioni di volontariato nel continente africano. Appassionato di storia e di cultura locale". Di Marco era stato ricoverato nei giorni scorsi nel reparto di Rianimazione dell'ospedale di Sessa Aurunca e dopo le ultime ore di lotta non è riuscito a vincere questa ultima battaglia. E' stato anche una figura di spicco della sinistra di Sessa Aurunca. Militante del Partito democratico è stato anche consigliere comunale nonché assessore. "Un carattere forte, uno spirito libero, a volte irriverente, sempre interessante e mai superficiale" lo ricorda l'ex sindaco Silvio Sasso. "I libri erano la sua seconda pelle. Tre decenni fa mi disse: “La politica nel futuro si farà con i soldi e le clientele. Se non sei attrezzato in tal senso e vuoi continuare cerca di fare quello che gli altri non sapranno fare, leggere, scrivere, parlare e capire anche per loro. Ma non è detto che basti”.
Silenziosamente ma inaspettatamente come piaceva stupire solo a lui, se ne è andato per sempre il dott. Giampiero Di Marco; ginecologo sessano in pensione. Il decesso è avvenuto a seguito di una breve ma catastrofica infezione polmonare che, nel giro di pochissimi giorni ha causato una vera e propria esplosione dei parametri vitali, non lasciandogli scampo. Definire solo un bravo ginecologo il dott. Di Marco…o Giampiero come amava farsi chiamare da tutti, senza titoli e senza pomposità accademiche, è riduttivo. Ginecologo sì, perché la sua vita professionale l’ha dedicata alla medicina ed alla ginecologia, essendo stato internista per anni presso l’ospedale di Teano dove ancora in tanti lo ricordano con affetto per la grande umanità che profondeva nell’esercizio della scienza medica, accompagnata da una gioviale “ruvidezza” caratteriale.
Da qualche anno, dopo la meritata pensione, aveva svolto diverse missioni in Africa – altra sua grande passione – dove si recava anche più volte l’anno per periodi dai due ai quattro mesi, per assistere gratuitamente le persone che si affidavano ai missionari europei che lì gestivano veri e propri ospedali da campo. Ed operava Giampiero, eseguiva decine e decine di interventi chirurgici di ogni tipo, non limitandosi solamente all’assistenza alle donne gravide…ma nei suoi racconti, che puntualmente amava riportare agli amici sessani, riferiva di interventi oncologici, ortopedici e chirurgici di ogni specie, eseguiti in sale operatorie nelle quali difficilmente un medico europeo avrebbe solo messo piede. Invece lui no, entrava, operava e rimetteva in piedi le persone.
Oltre alla passione per il suo lavoro, Giampiero è stato per anni il punto di riferimento del Partito Comunista sessa, avendo svolto a lungo il ruolo di consigliere comunale e poi di assessore; anni durante i quali, la contrapposizione politica era forte e netta, specialmente contro quei settori della politica Ma Giampiero andrà ricordato anche e soprattutto per l’inestimabile lavoro di ricerca storica che lo ha accompagnato per decenni, fin da quando giovane professionista, collaborò alla fondazione dell’importante rivista “Civiltà Aurunca”, per poi avviare una florida opera di pubblicazione di libri sulla storia di Sessa Aurunca e del suo patrimonio architettonico, come non ricordare testi quali: “Frati e Fabbriche”, “Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa”, “Sessa e il suo territorio tra Medioevo ed età moderna” per giungere ad uno degli ultimi saggi sulla vita di Pasquale De Luca – giornalista, scrittore e poeta aurunco, dal titolo “In mezzo al guado. Pasquale De Luca (1865-1929)”.
Quasi anarchico negli ultimi anni della sua esistenza, fortemente ateo e per molti tratti anticlericale, non ha mai trascurato lo studio di scritture e testi sacri riguardanti la storia della chiesa sessana in special modo; studioso infaticabile, quando si concentrava su di una ricerca storica aveva la capacità di scovare tutte le informazioni possibili nelle biblioteche ed archivi storici della zona che conosceva come lo studio di casa propria. Grande appassionato di arte e collezionista maniacale di testi antichi, stampe d’epoca e monete pre-unitarie; passione per le quali aveva una propria devozione e per la quale oggi lascia una collezione come poche esistenti. Non faceva mai mancare il proprio contributo nelle discussioni di carattere generale che interessavano la sua amata Sessa; un contributo molto spesso aspro e fortemente critico, ma del quale a rileggerne i passi, non si può non riconoscerne il valore e la fondatezza. Anche in occasione dell’ultima campagna elettorale per l’elezione del sindaco, dal suo buon ritiro di Salina, aveva espresso forti critiche sulla persona del candidato sindaco che poi ha vinto le elezioni, attirandosi commenti velenosi dei soliti tifosi per partito preso ed una minaccia di querela proprio dal neo sindaco Di Iorio…vedremo, con il tempo, se aveva visto lungo. Di Marco ha rappresentato quindi un vero pilastro della cultura sessana e dell’intera Terra di lavoro, che con la sua scomparsa ha reso il territorio davvero più povero.
Gianni Ferrara, addio ad un combattente per la democrazia costituzionale
La sera di sabato 20 febbraio è morto a Roma Gianni Ferrara, era ricoverato da qualche giorno in clinica per una polmonite batterica. Gianni avrebbe compiuto tra poco 92 anni, era nato nell’aprile del 1929 in provincia di Caserta.
Da giovane vinse il concorso come assistente parlamentare della camera. In seguito ha insegnato diritto costituzionale nelle università di Genova, di Napoli e per trent’anni alla Sapienza di Roma. È stato un maestro del diritto costituzionale e con lui si sono formate generazioni di allievi, molti di loro sono oggi tra i principali costituzionalisti italiani.
È stato anche parlamentare per due legislature, dal 1983 al 1992, prima deputato della Sinistra indipendente e poi del gruppo comunista.
Per sua volontà non ci saranno funerali. Aveva chiesto di essere ricordato solo come professore emerito della Sapienza e deputato della IX e X legislatura.
Intanto dal nostro archivio proponiamo un articolo di Gaetano Azzariti in occasione del novantunesimo compleanno di Ferrara e l’ultima intervista di Gianni al nostro giornale raccolta nella sua casa romana in occasione del referendum sul taglio dei parlamentari.
Ha fondato e diretto la rivista online Costituzionalismo.it
Del Manifesto è stato compagno, amico, sostenitore e prestigioso collaboratore.
**Il collettivo de Il Manifesto
Novantuno anni e di buona «Costituzione» di Gaetano Azzariti
Oggi, Natale di Roma, Gianni Ferrara compie 91 anni e la comunità de il manifesto vuole festeggiarlo. I lettori di questo giornale conoscono bene la passione e l'impegno di questo grande vecchio del costituzionalismo italiano. Non c'è battaglia per i diritti dei più fragili che non abbia visto un suo intervento, perlopiù «in disaccordo».
Una indomita vis polemica che ha la sua origine nella caparbia ottenute dai lavoratori nel corso del Novecento disperse. Non dunque una generica visione «democratica», ma una specifica interpretazione della storia e una determinata idea di progresso sostengono le sue prese di posizione. Ferrara si sente parte attiva di un movimento storico, quello che ha collegato il costituzionalismo moderno con le affermazioni del movimento operaio.
È da questo particolare punto di vista che si è sviluppato tutta la sua riflessione politica, ma anche quella scientifica. Se c'è, infatti, un insegnamento da trarre dalla sua opera di studioso è che è possibile parteggiare, senza perdere il rigore della scienza praticata. «Vivere vuol dire essere partigiani», a questa massima di Federico Hebbel sembra ispirarsi. Potrebbero ripetersi anche per lui i famosi passi gramsciani: «Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Ciò porta inevitabilmente ad affrontare le scelte politiche, ma anche quelle più propriamente culturali, persino quelle personali, in modo non facile, caratterizzando le proprie posizioni per un «eccesso» di rigore, se non di rigidità; trovandosi spesso ad assumere punti di vista scomodi e di minoranza, senza remora nel sostenere dissenzienti, poiché la coerenza non sempre si coniuga con la duttilità. Proprio questa rigidità ha portato Ferrara a scontrarsi spesso, nel corso degli anni, con la «sua» parte.
Una coscienza scomoda. Tanto più in tempi confusi, dove è facile smarrire la rotta, temere per il futuro, magari fare passi falsi. Per Ferrara non si può perdonare nessun cedimento se si vuole salvare quel poco che resta della sinistra e della visione del mondo che si vuol propugnare. In fondo è dalle sue rigidità che abbiamo imparato. Ogni tanto è stato irritante, ma lo perdoniamo per questo. Tanto più noi, una comunità che si vanta di stare «dalla parte del torto».
È l'adesione ai principi del costituzionalismo democratico che spiega anche l'accentuarsi delle critiche negli scritti più recenti, ove si rafforza la denuncia, sempre più aspra e profonda, dei rischi di grave degenerazione che i sistemi costituzionali corrono per via delle trasformazioni degli ultimi anni. Molti dei lettori di questo giornale sono consapevoli dei tempi tristi e delle difficoltà del momento, ed è per questo che la voce tonante e piena di sdegno di Gianni Ferrara li tiene svegli, scuotendoli da un torpore che finirebbe per generare mostri.
«Buon compleanno, Gianni» da parte della comunità de il Manifesto.
** Tratto dal Manifesto del 20 aprile 2020
Federico Simoncelli
30 Aprile 2022 Santa Maria Capua Vetere - Con una grande partecipazione di colleghi, tutti rigorosamente in toga, parenti ed amici, si sono svolti nella cattedrale di Santa Maria i funerali dell’avvocato Federico Simoncelli, senatore dell’ordine degli avvocati, scomparso all’età di 69 anni dopo una lunga malattia sopportata con cristiana rassegnazione. Il rito funebre è stato celebrato da don Antonello Giannotti, amico di famiglia e parroco della chiesa del Buon Pastore di Caserta che ha avuto parole di elogio per la figura dell’ uomo e del professionista quale era Federico Simoncelli. L’elogio funebre è stato tenuto dall’avvocato Francesco Saverio Petrilllo, presidente della camera Penale di Santa Maria. Valente avvocato e politico di qualità, come l’indimenticato papà, Antonio Simoncelli socialista vecchio stampo, sindaco della città del foro e amministratore oculato, il professionista era stato consigliere dell’ordine forense, consigliere comunale della sua santa Maria e candidato a sindaco nella tornata elettorale del 2011.
Agli inizi degli anni 2000 fu assessore regionale all’ambiente in uno dei periodi più difficili e delicati per l’emergenza rifiuti in Campania. Quale affermato penalista, Federico Simoncelli esercitò la difesa di numerosi personaggi di spicco della camorra e della criminalità organizzata facendo valere le sue capacità giuridiche e di eloquio tanto da guadagnarsi la stima e l’apprezzamento non solo dei colleghi, ma anche della magistratura che in lui trovarono sempre un avversario onesto, sincero e preparato. Numerosi gli attestati di compartecipazione al lutto della famiglia, fra i quali quelli dell’onorevole Clemente Mastella e della moglie Sandra Lonardo, della formazione politica “Noi di centro”, del PD locale, della sezione dei “Socialisti e riformisti” di santa Maria, dell’ordine degli avvocati, della Camera Penale, del comune di santa Maria e della Regione Campania. In questo particolare momento di dolore giungano le nostre sentite condoglianze e quelle della redazione tutta alla moglie, signora Clea, ai figli Serena e avvocato Antonio ed ai parenti tutti. Il feretro, dopo la messa esequiale ha proseguito per il locale cimitero dove avverrà la tumulazione. Intanto, il mondo della giustizia casertana e sammaritana in particolare è stato colpito da un altro grave lutto.
L’Eredità olitica di Ugo Di Girolamo
Come scrive un autore caro a Ugo “Tutti muoiono. La vita non è una sostanza, come l’acqua o la roccia; è un processo, come il fuoco o un’onda che si infrange sulla riva. È un processo che inizia, dura un po’ e alla fine termina” (S. Carrol). Sul piano scientifico la morte non ha in sé alcun mistero: tutto è spiegato nei minimi dettagli. Tutte le specie viventi accettano la fine del processo senza discutere e, soprattutto, senza interrogarsi su quel che c’è dopo. Solo noi umani facciamo storie. Solo noi umani manifestiamo quello che Edgar Morin definiva un “disadattamento alla specie” e, in forza di questo, concepiamo le imprese più sublimi e perpetriamo i crimini più atroci. Solo noi umani conosciamo il funerale, quella complessa “funzione sociale” per la quale “un uomo può essere oggetto di amore, di odio o di cordoglio mentre muore; ma una volta morto egli diventa il principale capo d’ornamento di una complicata cerimonia mondana” (J. Steinbeck). Accade quindi che l’ornamento non sia osservato per sé stesso, ma per illustrare le qualità estetiche del suo portatore. È amaro, ma sappiamo che le cose vanno così. Purché – mi verrebbe da dire leggendo certi commenti a dir poco superficiali che sono state scritti in occasione della morte di Ugo Di Girolamo – non si superino i limiti della decenza. Non voglio criticare nessuno; vorrei invece provare a tratteggiare la figura di Ugo, per vedere se dalla sua vicenda pubblica si possano trarre elementi capaci di stimolare la nostra capacità di apprendimento.
Non è vero che Ugo era funzionario del Pci negli anni ottanta, come è stato scritto su questo social. Non lo era più dal novembre del 1978 e a febbraio dell’anno successivo lavorava già all’ATI (una consociata dell’Alitalia). Questa circostanza è di fondamentale importanza per comprendere la vita di un uomo che aveva progettato la sua esistenza essenzialmente in termini politici. Smettere di fare il “rivoluzionario di professione” (come allora si diceva) alla fine degli anni settanta aveva un significato incomparabile rispetto alla stessa scelta compiuta dieci anni dopo. Alla fine degli anni settanta il Pci aveva raggiunto il culmine della sua forza e della sua influenza politica nel paese; alla fine degli anni ottanta questa forza si era dileguata e il Pci era prossimo a diventare un altro partito. Alla fine degli anni ottanta il Pci non era più in grado di mantenere il suo imponente apparato organizzativo, sicché la figura stessa del funzionario di partito stava scomparendo. Molti cambiarono lavoro, molti… se lo fecero cambiare! Ma questo è un altro discorso. Chi invece, come Ugo Di Girolamo, ha compiuto questo passo alla fine degli anni settanta lo ha fatto perché aveva maturato un’idea diversa della politica, più laica, più libera, non costretta in una "linea" che ne prescriveva ogni movimento. Il discorso che mi fece in quel momento fu grosso modo il seguente: non ho intenzione di lasciare il Pci, ma non voglio dipendere dal partito, perché mi trovo costretto ad essere d’accordo anche quando non lo sono e perché voglio avere un ruolo nella società che mi permetta di autodeterminare la mia presenza politica. Un discorso duro, disincantato, che metteva radicalmente in discussione alcuni cardini essenziali dell’organizzazione politica del Pci e del pensiero politico che ci aveva accomunati a partire dal movimento studentesco, per un intero decennio. Non mi riuscì di dargli ragione in quel momento. Certo è che quanto è accaduto nel decennio successivo lascia pensare che Ugo aveva intuito qualcosa che a molti di noi sfuggiva, per lo meno in quel momento.
D’altra parte, questo passaggio non gli impedì di dare il meglio di sé nella vita pubblica per tutti gli anni ottanta e novanta. Si trovò a combattere contro il blocco di potere clientelare della Democrazia Cristiana, il cui unico programma consisteva nel rifiuto della modernità e nella sistematica depredazione del territorio. Subito dopo, quasi per una germinazione da questo modo di governare, arrivò la camorra: a Mondragone, come nell’intera regione, le istituzioni democratiche si ritrovarono un po’ alla volta assoggettate alle organizzazioni criminali che si erano impadronite dell’economia e avevano asservito il tessuto sociale. Contro questo fenomeno condusse una lotta senza quartiere: non solo come capo dell’opposizione in consiglio comunale, ma con contributi di approfondimento che cercavano di individuare le origini economiche, culturali e politiche che avevano generato un fenomeno che stava portando al disfacimento delle istituzioni democratiche e del senso stesso della politica.
Nel 1995 lasciò il consiglio comunale, ma non smise di dedicarsi ad affrontare i problemi della sua città. Nello stesso anno pubblicò "Analisi della struttura economica di Mondragone dal'50 ad oggi" e nel 1999 "Ipotesi per un piano di sviluppo territoriale", lavori nei quali metteva a fuoco le caratteristiche dell’economia del nostro territorio, provando ad immaginarne le vie per un futuro di sviluppo e modernizzazione. Nel 2003, la rivista quadrimestrale diretta dal prof. Roberto d’Agostino “Le Radici e il Futuro” ospitò il suo articolo (scritto in collaborazione con Filippa De Gennaro) "Mondragone tra passato e futuro". Nel 2009 pubblicò "Mafie, politica, pubblica amministrazione. È possibile sradicare il fenomeno mafioso in Italia?" Penso che la rilettura di questi testi potrebbe essere utile a qualche amministratore del nostro tempo che voglia sinceramente applicarsi ad affrontare i problemi di questo territorio, al tempo stesso ricco di risorse e povero di conoscenze. Credo anche che la rilettura farebbe bene a qualche giovane di belle speranze della sinistra mondragonese, che immagina che la storia dell’opposizione al feudalesimo che vige in questa città incominci con loro e finirà con loro, evitando con questo atteggiamento di fare i conti con le proprie sconfitte.
Parallelamente una vicenda culturale decisiva segnò la vita politica di Ugo Di Girolamo: la critica del comunismo. Non solo dell’esperienza storica, ma dell’ideologia che vi era alla base. Non posso certo dimenticare le discussioni furibonde che hanno animato i nostri rapporti per tutti gli anni ottanta e novanta. Ora, non posso non riconoscere che anche in quella fase aveva visto qualcosa che io non riuscivo ancora a vedere: restituiamo a Cesare quello che gli appartiene. La nostalgia è un sentimento nobile, quindi penso che chiamarlo “compagno”, in occasione della sua morte, sia stato un gesto affettuoso e commovente. Ma, se pensiamo che il pensiero e l’opera di Ugo possa costituire una qualche forma di stimolo culturale per i giovani e i vecchi di questo nostro piccolo paese, dobbiamo ricostruire per intero la sua traiettoria.
Riporto qui una citazione tratta da un suo intervento (forse le ultime cose che ha scritto) su alcune considerazioni critiche che avevo fatto sull’approccio ideologico dei comunisti nell’osservazione degli eventi storici. L’occasione era data dalla guerra in Ucraina e dalle posizioni “neutraliste” di buona parte della sinistra italiana.
In merito io avevo scritto: “Alla base dell’ideologia che fa da sfondo alla concezione comunista della pace ci sono 4 assiomi: a) la storia degli umani ha dei fini da realizzare e che prima o poi si realizzeranno, la pace è uno di questi (Aristotele, Hegel, Marx); b) la guerra è sempre l’espressione della lotta di classe, del conflitto tra i ceti dominanti e quelli meno abbienti, soprattutto nelle società capitalistiche; sicché la pace può ottenersi solo con l’abolizione del capitalismo (Marx); c) l’imperialismo è un fenomeno tipico e necessario del capitalismo nella sua fase matura (Lenin): d) l’internazionalismo proletario, l’unione globale delle classi subalterne e il fattore che può sconfiggere il capitalismo e generare la pace (Marx, Lenin, Stalin). Tutto ciò che non coincide con la verità espressa da questa filosofia della storia non è vero. Ora, qui sarebbe troppo complesso discutere, uno per uno, questi argomenti. Basti dire che la storia del XX secolo si è incaricata di dimostrare che nessuno dei quattro regge al confronto con la realtà dei fatti”.
Questo è il commento di Ugo: “Non è poi così lungo e complesso analizzare i 4 assiomi della concezione ‘comunista’ della pace (e della guerra). Il primo, la finalità che Marx assegnava alla storia, e il quarto, il ruolo salvifico dell’internazionalismo proletario, semplicemente sono ‘morti’ con il 1991 e il crollo dell’URSS. A meno che non si voglia sostenere che sarà la Cina a realizzare il sogno (anche bello) di Marx. Per il secondo, la guerra espressione della lotta di classe, si può solo scusare Marx e Engels perché nel 1800 le conoscenze sulla preistoria umana erano pressoché insignificanti. La ricerca etologica ha dimostrato che la guerra (intesa come aggressione volontaria e organizzata di un gruppo verso un altro) la fanno anche gli scimpanzé ed è finalizzata a impossessarsi del territorio di caccia e raccolta di altri gruppi. Ci sono prove archeologiche che dimostrano la pratica della guerra tra gruppi umani nel paleolitico superiore e persino dei Neanderthal (grotta di el Sindron Spagna). Infine il punto terzo, l’imperialismo non è né tipico né necessario del capitalismo. Nasce più o meno 7000 anni fa e si evolve in forme diverse nel corso della storia. I primi imperi coloniali europei (Portogallo, Spagna) nascono ben prima dell’inizio della rivoluzione industriale (seconda metà XVIII secolo) e finiscono dopo la seconda guerra mondiale (ultimo quello portoghese (1968) sostituiti da due nuovi imperi ‘ideologici’, quello sovietico e quello americano. Nella nuova condizione della rivoluzione dell’intelligenza artificiale il confronto è tra gli USA, in crisi democratica come l’Occidente europeo, e l’orrenda dittatura cinese. Chi tra i due vincerà disegnerà il nuovo ordine mondiale con relative strutture istituzionali. Ai comunisti giovani e vecchi e ai ‘criptocomunisti’ rivolgo solo un appello: finitela di guardare sempre e solo al vecchio nemico numero uno del ‘socialismo sovietico’, gli USA. Sforzatevi di guardare avanti e nel nuovo conflitto tra Occidente e Cina fate la vostra scelta, decidete da che parte stare, perché questi sono i termini reali del prossimo futuro”.
Non penso che occorrano molti commenti, se non quello di constatare che la critica del comunismo da parte di Ugo Di Girolamo è sempre stata incardinata sul pensiero scientifico, sulla conoscenza della storia, sull’affermazione dei valori di libertà e democrazia tipici dell’occidente. La scienza, la storia, la democrazia e la libertà: queste erano le sue passioni. La mia convinzione è che questi aspetti che lo riguardano siano quelli che dobbiamo coltivare affinché il suo insegnamento rappresenti qualcosa per le nuove generazioni di Mondragone.
**Adelchi Scarano, già Segretario Federazione PCI Caserta

Gli anni del sindacato
Gli anni della CGIL
Giovanna Abbate, una donna per i diritti
Giovanna Abbate ci ha lasciati dopo essere stata ricoverata in un ospedale napoletano.
In età giovanile iniziò il suo impegno nel sociale negli Scout e nei gruppi di azione cattolica di Terre Nuove. Subito dopo aver conseguito la laurea in filosofia nella Federico II di Napoli, all’inizio degli anni ’70 entrò nel sindacato dove da segretaria provinciale poi regionale, si occupa dei lavoratori più deboli, i braccianti e le braccianti. Faceva parte di quel gruppo di giovani comunisti e cattolici (come Lia Santorufo, Tina D’Alessandro, Mimmo Marzaioli, Felice Santaniello) su cui si fondò il processo di rinnovamento (non solo generazionale ma anche culturale) dei gruppi dirigenti che in quegli anni venne fortemente voluto da parte di Paolo Broccoli e Pietro di Sarno nel sindacato e da Peppino Capobianco nel PCI. Così lei inizialmente venne impegnata nel processo di decentramento delle strutture sindacali nella zona vairanese (mentre Franco Capobianco venne impegnato nel sessano). Altri giovani sindacalisti che entrarono in attività in quella fase furono Amedeo Marzaioli, Ruggero Cutillo e Nicola Russo (tutti da poco scomparsi), che si incrociavano con il gruppo insediato in Federazione, tra cui Adelchi Scarano (poi diventato anche segretario, Lino Martone e Ugo di Girolamo, anche lui da pochi mesi ci ha lasciato), a cui si aggiunsero quadri proveniente da altre realtà, come Claudio Martini (divenuto presidente della Regione Toscana) e Piero Lapiccirella, dalla internazionale dei giovani comunisti.
In seguito nel congresso comprensoriale venne eletta nella segreteria confederale della CGIL di Caserta con la delega a seguire le tematiche relative all’ambiente ed al territorio, con particolare attenzione rivolta a quelle di genere. Tra i vari incarichi sindacali ricoprì anche il ruolo di Presidente del Comitato direttivo della CGIL Campania. Fu protagonista delle battaglie per la costruzione del sindacato nella Università di Caserta (allora SUN, ora L. Vanvitelli), dedicando sempre un impegno particolare alle politiche di parità uomo donna (insieme con altre protagoniste come Tina D’Alessandro, Antonia Bianco, Luisa Cavaliere ed altre). Nello stesso tempo si adoperò per fondare la Commissione Provinciale P.O. (Pari Opportunità) della provincia di Caserta - della quale venne eletta più volte Presidente, riconosciuta come punto di riferimento dell’associazionismo femminile sia cattolico che laico. Sua attenzione precipua ed impegno costante fu quello di promuovere le iniziative rivolte a migliorare la condizione di vita e di lavoro delle donne (con le manifestazioni dell’8 marzo giornata internazionale per i diritti delle donne), nonché a sostenere la loro avanzata in tutti i campi, a partire dalla politica e dalle istituzioni in una provincia difficile come Caserta.
In una intervista al Corriere del Mezzogiorno nel 2017 fu lei stessa a ricordare: «Il mio primo 8 marzo l’ho trascorso organizzando una manifestazione di donne braccianti nel ’75, al termine di una vertenza lunga. Con l’iscrizione per la prima volta al Pci nel ’74, per poi diventare segretario provinciale e regionale CGIL, sempre dei braccianti”.
Negli ultimi anni il suo impegno politico in città è continuato nelle file del PD, anche con la sua candidatura al consiglio comunale nella lista del PD per Carlo Marino Sindaco. Aveva una passione particolare per il cinema e per il teatro, per e la Formula Uno e per i gatti, di cui si circondava in particolare dopo la perdita prematura dell’unico figlio nato dal matrimonio con Mario Bologna, anche lui proveniente dalle file cattoliche, poi impegnato come responsabile della comunicazione nella federazione, come giornalista professionista a livello provinciale e regionale con l’Unità ed altre testate.
*Pasquale Iorio, Caserta 16 ottobre 2022
Vittime di camorra
Su sollecitazione della Segretaria Provinciale CGIL Camilla Bernabei, mi sono dedicato ad approfondire una fase storica e sociale di Terra di Lavoro a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. In particolare ho cercato di ricostruire il contributo di resistenza – a volte pagato con il sangue – offerto dal movimento operaio e sindacale con le lotte per affermare la legalità democratica. Grazie ad alcuni articoli de L’Unità e de Il Mattino – forniti da Renato Natale – ho potuto ricostruire due vicende emblematiche: quella di Tammaro Cirillo e di Franco Imposimato. Il primo venne gambizzato a casa sua – e sette giorni morì in ospedale tra atroci sofferenze dopo l’amputazione. Come ha di recente ricordato il sindaco di Casal di Principe, l’ operaio del cantiere SLED di Villa Literno per la realizzazione del depuratore, era stato da poco eletto delegato di fabbrica per la Fillea CGIL. Nel suo discorso agli operai appena eletto, dichiarò la volontà di lottare contro i subappalti che mettevano in discussione i livelli occupazionali e quindi i posti di lavoro. Pochi giorni dopo, qualcuno si presentò a volto coperto alla sua abitazione (in casa in quel momento c’era anche una figlia), e gli sparano alle gambe. Morì in conseguenza delle ferite, sette giorni dopo. E R. Natale aggiunge: “Vi furono delle manifestazioni prima per l’attentato e poi per la sua morte, ma dopo per anni nessuno più si è ricordato di questo sindacalista, finché io non ho cominciato a fare qualche ricerca e ne ho cominciato a parlare in vari incontri, anche per vedere di inserirlo fra i morti innocenti. La cosa però non è stata facile anche perché i pochi familiari ancora presenti in zona non hanno mai voluto più ricordare quella vicenda. A darmi una mano in questa ricerca è stato Franco Cirillo, sindacalista della UIL, che come me ricordava l’episodio; all’epoca lui era delegato di azienda su altro cantiere, quello per la costruzione del collettore lungo i regi lagni, sempre in funzione del depuratore”.
L’altro episodio eclatante avvenne qualche anno dopo nel mese di ottobre 1983 con la barbara esecuzione di Franco Imposimato, delegato Fiom della Face Standard di Maddaloni, massacrato all’uscita dal lavoro mentre era in macchina con la moglie (che rimase ferita). Dopo aver trascorso alcuni anni in Sudafrica, dove aveva frequentato una scuola ad indirizzo artistico, specializzandosi in cartellonistica, tornò in Italia, trovando lavoro alla FACE Standard di Maddaloni, dove operava come impiegato e sindacalista della CGIL. Sposato e padre di due figli, era impegnato nell’attività di associazioni sportive e culturali, in particolare con il “Circolo Archeologico Calatino” e con la sezione locale del Partito Comunista Italiano. Fu ucciso l’11 ottobre 1983, all’uscita dalla fabbrica. Imposimato era in macchina con la moglie ed il cane per recarsi a casa dopo il lavoro. A trecento metri dallo stabilimento, la macchina si trovò la strada sbarrata da una Ritmo 105 con a bordo tre sicari. Due di questi scesero e aprirono il fuoco. Il sindacalista, colpito da 11 proiettili, morì sul colpo. Nell’agguato riuscì a salvarsi sua moglie, benché gravemente ferita da due proiettili sparati da Antonio Abbate, il killer riconosciuto dalla donna anni dopo in sede processuale.
In un primo momento si parlò di omicidio di terrorismo, eventualmente da ascriversi alle Brigate Rosse; il giorno successivo al delitto nella sede napoletana dell’ANSA giunse una telefonata anonima: «È stato ucciso il fratello del giudice boia», ma ben presto si rese chiara la matrice mafiosa e camorristica del delitto, anche se per le sentenze definitive si è dovuto attendere fino al 2000 e il processo Spartacus.
A ben vedere si tratta di una delle prime vittime sociali di camorra, a cui fece seguito una lunga scia di sangue, di centinaia di atti di violenza e di morti. Ora è necessario ritornare a riflettere per capire come mai alcuni casi sono finiti nel dimenticatoio, a partire da Tammaro Cirillo, di cui non si trova traccia nemmeno dei testi e documenti sulle vittime innocenti di camorra, così ampi e dettagliati raccolti da Libera e Fondazione Polis. Alle famiglie, ma ancor più alle associazioni del terzo settore e del sindacato (a partire dalla CGIL), spetta il compito di recuperare e ricostruire la memoria storica. Nei decenni 1980-90 la camorra dominava interi settori economici e filiere produttive (da quella alimentare a quella edile). Imponeva le sue leggi con il taglieggiamento e con la violenza delle armi. In una ricerca pubblicata nel 2007 da Agrorinasce è stata ricostruita l’impressionante escaletion di attentati e ritorsioni: vi furono in quegli anni tra il 1985 e il 2004 ben 646 vittime accertate di morti innocenti per mano della camorra, tra cui 9 minorenni, 21 donne, tanti immigrati e lavoratori, sindacalisti, ma anche imprenditori ed il caso emblematico di don Peppe Diana. In quegli anni le classi politiche locali non reagirono in modo adeguato, anzi ci furono casi clamorosi di collusione e copertura da parte di apparati istituzionali ed organi dello Stato – come quello del vicesindaco di Casal di Principe che organizzava a casa sua gli incontri con i capiclan per la spartizione degli appalti pubblici.
Oggi va riconosciuto che fu grazie al sacrificio di queste persone e militanti, alla loro azione di resistenza civile – insieme all’opera di contrasto e repressione delle forze dell’ordine e della magistratura – è stato possibile ricostruire nuovi spazi di partecipazione consapevole e di cittadinanza democratica (come quelli realizzati con diverse buone pratiche di uso sociale e produttivo dei beni confiscati). Tutto questo è stato raccontato con le testimonianze raccolte nelle loro opere da giornalisti come Rosaria Capacchione e Raffaele Sardo, da storici come Paola Broccoli e Gianni Cerchia, da saggisti come Gianni Solino (già Referente Provinciale di Libera) e Gigi di Fiore, da esponenti della chiesa come il VE Raffale Nogaro e S. Rita Giaretta, da me stesso nei volumi su “Il Sud che resiste” e in “Una vita per i diritti”. Per non dimenticare e per trarre esempio da queste storie virtuose, ho proposto alla Segreteria CGIL Provinciale e Campania di dedicare una apposita sezione di ricerca e di approfondimento sul contributo (in alcuni casi tanto eroico quanto poco ricordato) del movimento operaio e sindacale per la rinascita democratica delle nostre terre, proprio a partire dagli inizi degli anni ’80 del secolo scorso.
Altre annotazioni * Nel mese di febbraio del 1978 davanti ai cancelli della Lollini di Gricignano vi furono due attentati con esplosivi, un chiaro avvertimento di marca camorristica.
* In quel periodo nella sezione del PCI di Gricignano va ricordato un raid con colpi di arma da fuoco e feriti, che vennero esplosi mentre era in corso un’assemblea di iscritti con la presenza dell’on PP Broccoli. * Nella sezione del PCI di Lusciano vi fu una vera e propria incursione camorristica, con sequestro di due giovani dirigenti politici dell’epoca L. Martone e A. Natalizio (poi divenuto Consigliere Regionale e presidente ASI).
La faida tra Nuova Camorra Organizzata (NCO) con a capo Raffaele Cutolo e Nuova Famiglia (NF) con a capo Antonio Bardellino fu un conflitto armato tra le organizzazioni camorristiche presenti nelle province di Napoli e Caserta, svoltosi tra la fine degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta del XX secolo. La lotta tra le fazioni fu alquanto sanguinosa. Negli anni peggiori ci furono: 71 vittime nel 1979, 134 nel 1980, 193 nel 1981, 237 nel 1982, 238 nel 1983 e 114 nel 1984. Alla fine degli anni ‘80 una serie di blitz e una catena di omicidi (tra cui quello del figlio di Cutolo, Roberto, e quello del suo avvocato, Enrico Madonna), decretarono il tramonto della Nuova Camorra Organizzata.
Franco Imposimato, sindacalista e ambientalista
Nella data dell’11 ottobre 2013 ricadeva il 30° anniversario dell’uccisione di Francesco Imposimato: un operaio vittima della barbarie omicida della camorra e del terrorismo, per il suo impegno politico, sociale ed ecologista. È stato una delle tante vittime innocenti del clima di violenza che in quegli anni ha insanguinato il nostro paese e la nostra provincia, con un pesante attacco alle condizioni di vita sindacale, democratica e civile. Oggi è importante ricordare queste figure per non dimenticare i pericoli che abbiamo corso. Da questo punto di vista è apprezzabile l’iniziativa promossa dall’Amministrazione e dal Presidio Libera di Maddaloni per ricordare Franco con una manifestazione pubblica.
Nello stesso tempo vanno ricordati i tratti salienti e la ricchezza della sua personalità: in primo luogo il suo impegno di uomo politico, di un militante comunista rigoroso. Era un cittadino attivo (un vero “homo civicus” per dirla con Franco Cassano) in difesa dei fondamentali diritti sociali ed ambientali, in fabbrica e nel territorio per salvare i Tifatini dallo scempio delle cave, per tutelare un bene comune come il paesaggio (così come prevede l’Art. 9 della Costituzione). La sua esecuzione fu molto spettacolare, per il modo con cui venne trucidato in auto (mentre la moglie Maria Luisa Rossi restò ferita), davanti ai cancelli della sua fabbrica la Face Standard di Maddaloni. Come è stato ricordato in una nota della Fondazione Polis, che sta svolgendo un ottimo lavoro di documentazione e di memoria storica sulle vittime delle mafie, Imposimato era un iscritto al PCI, molto attivo nella vita politica e sindacale.
Ricordo i suoi interventi appassionati, di vero militante FIOM CGIL, nelle assemblee di fabbrica e nelle manifestazioni. Nello stesso tempo svolgeva una intensa attività culturale, con un particolare interesse alla salvaguardia dell’ambiente e dei centri storici. Memorabili restano le sue battaglie contro lo sfascio delle cave sui Monti Tifatini, che purtroppo nel tempo è continuato con danni irreparabili. Per i suoi assassini aveva una grave colpa: era il fratello del giudice Ferdinando, in servizio presso il tribunale di Roma. Per questo la “cupola” mafiosa decise la sua morte, che era già scritta da tempo: nel marzo del 1983 gli rubano la Ritmo (poi utilizzata nell’agguato) e veniva pedinato. Il fratello giudice, Ferdinando Imposimato, comprese l’esistenza di un reale pericolo: si rivolse ai carabinieri perché venisse allestito un servizio di scorta e sollecitò il direttore generale della Face Standard a trasferire il fratello.
Dalle indagini e dai processi emerse subito la matrice mafioso-camorrista del crimine: si è voluto colpire il giudice Ferdinando Imposimato con un’azione trasversale. All’origine dell’omicidio del sindacalista c’era un patto di ferro fra banda della Magliana, mafia e camorra. Come è emerso dalle sentenze e condanne, a volere l’omicidio furono Pippo Calò, considerato il cassiere della mafia, ed Ernesto Diotallevi, uomo di punta della banda della Magliana. Visto che Franco Imposimato viveva in Campania, era coinvolto anche Lorenzo Nuvoletta. Secondo la ricostruzione dei magistrati, i due decisero di uccidere il giudice Imposimato quando questi arrivò a loro nel corso delle indagini sull’omicidio di Domenico Balducci e su una serie di speculazioni edilizie nella capitale. I due compresero che un agguato non sarebbe stato possibile, ma non per questo rinunciarono al loro obiettivo. Spostarono soltanto il tiro: il magistrato avrebbe, comunque, capito il messaggio e si sarebbe fermato. Allora si rivolsero ai Nuvoletta che erano interessati ad eliminare proprio Franco Imposimato. Il sindacalista, infatti, aveva avviato una battaglia per fermare le cave abusive sui monti Tifatini, da dove è estratto il materiale per costruire dei tratti ferroviari i cui appalti erano affidati a ditte che facevano capo al boss di Marano. Appariva chiaro che l’impegno di Imposimato fosse tutt’altro che gradito al potente clan. La morte di Franco rientra nelle classiche vendette trasversali in quanto risultava impossibile colpire il fratello giudice. È ancora viva la commozione che suscitò la notizia del suo assassinio, a cui seguì una forte mobilitazione unitaria del sindacato con una grande manifestazione dai cancelli della fabbrica per le strade di Maddaloni. Tutta la città si strinse commossa intorno al feretro di Franco, a fianco della moglie e dei figli. Toccò a me fare l’intervento conclusivo (a nome di CGIL-CISL-UIL), insieme ad Antonio Bassolino ed al fratello Ferdinando.
Per ricordare la figura di Franco, la CGIL e la FIOM di Caserta – insieme alla rete di associazioni del terzo settore ed alla piazza del sapere – stanno valutando una iniziativa che si terrà a Caserta.
Angelo D’Aiello, detto Cacianiello
Così come nel capitolo precedente, una parte molto interessante della tesi di laurea di Andrea Iorio su “Lotte contadine e sociali in Terra di Lavoro” è stata dedicata ad una delle figure mitiche del movimento operaio, Angelo D’Aiello, comunemente detto Cacianiello, un vero capopopolo. Come ha ben ricostruito l’autore, in quella contingenza storica l’intervento dei militanti comunisti si diresse anche verso delle vere e proprie forme di “educazione popolare”. Molti militanti e studenti universitari si impegnarono in delle campagne di istruzione per le classi popolari, poiché in quegli anni l’analfabetismo era ancora molto diffuso. Questo impegno educativo derivava dalla convinzione che l’istruzione fosse un importante mezzo per sconfiggere quella che Vergani definiva come “servitù politica” delle masse contadine.
Un altro elemento molto importante stava nel fatto che la promulgazione della Costituzione fu percepita come un elemento di garanzia nei confronti dei diritti dei lavoratori. Un famoso militante comunista di Maddaloni, soprannominato “Cacianiello” era solito conservare una copia del testo costituzionale in tasca per poterla citare più agevolmente durante i suoi interventi politici. Una sorta di bibbia dei laici! Questo episodio è particolarmente emblematico in quanto dimostra il valore del nostro testo costituzionale, un concreto ed attuale riferimento per ogni riforma democratica del nostro Paese.
Leggiamo ancora la narrazione di Salvatore Pellegrino: «Il partito in questo modo si radicò su tutto il territorio del comune di Maddaloni; noi andavamo in ogni quartiere a leggere l’Unità a persone che erano per lo più analfabete. E così creammo delle scuole serali organizzate da noi che eravamo per lo più studenti. Noi cercavamo di porre rimedio a questo (l’ignoranza e l’analfabetismo diffuso “nota mia”) facendo scuola ai contadini, insegnandogli a leggere. Ad es. fui proprio io che feci iscrivere al partito Cacianiello che imparò a leggere grazie a l’attività politica». In un volumetto, edito di recente, riguardo l’intensa vita di “Cacianiello”, Pellegrino ricorda altri momenti: «Inoltre leggeva le riviste sindacali, quelle, in particolar modo, riguardanti i lavoratori del settore edile ed agricolo. Egli si disperava che a volte non comprendeva a pieno ciò che leggeva e per questo si dava pugni in testa, per sforzarsi di capire. Gli regalai un piccolo vocabolario della lingua italiana che per lui fu una grande scoperta e quando leggeva consultava il vocabolario per capire il relativo significato delle parole, a volte riuscendoci ed altre no. In questi ultimi casi veniva da me a chiedere spiegazioni».
“Cacianiello” era il soprannome di Angelo d’Aiello un combattivo militante comunista, chiamato così perché era un pastore e “caciano” era il nomignolo di una sua pecora. Il mestiere di pastore era particolarmente disprezzato, ed i pastori venivano considerati selvatici e rozzi. Ad esempio lo stesso Graziadei in un suo scritto criticherà la scelta della Coldiretti di scegliere un pastore di bufale come rappresentante dei contadini all’interno di una commissione. Anche in altre città meridionali vi furono dei pastori che divennero figure “mitologiche” e considerati come ferventi antifascisti. Grazie al suo impegno e alle “scuole popolari” Cacianiello riuscì ad alfabetizzarsi, imparando il valore della cultura, ed il suo ruolo emancipatore. Egli infatti diede sempre importanza all’istruzione delle classi popolari. Infatti quando era difficile far intendere dei messaggi e dei concetti al proletariato maddalonese, Cacianiello li trascriveva in dialetto affinché ognuno li potesse comprendere.
Egli partecipò alle prime lotte sindacali di Maddaloni assieme allo stesso Salvatore Pellegrino ed Attilio Esposto. Cacianiello fu poi tra i protagonisti delle occupazioni di terra del 1948-49. Anche in altre cittadine del Sud contadini analfabeti divennero leader delle lotte contadine. È il caso ad esempio delle lotte della zona di Melissa, in Calabria, dove il contadino “Carrubba” guidò le occupazioni. Durante le occupazioni del 1949 la zona della provincia di Caserta dove era più vasto il latifondo (Basso Volturno e carinolese), fu divisa idealmente in alcuni settori. Da ognuno di questi settori, una volta che fu stabilito l’inizio delle mobilitazioni, doveva partire una colonna di braccianti a occupare un determinato terreno. Cacianiello fu responsabile della colonna composta dai contadini poveri e braccianti della zona di Capodrise e Macerata.
In una recente pubblicazione lo stesso Angelo d’Aiello, purtroppo defunto, racconta il periodo delle occupazioni: «La colonna da me diretta, che partì alle tre del mattino da Capodrise per Macerata, si doveva incontrare con l’altra proveniente dalla zona aversana. Al bivio di Capua ci siamo incontrati e abbiamo formato un’unica colonna di circa 3000 persone con tamburi, bandiere rosse, zappe, vanghe, semi per coltivare simbolicamente la terra. Dopo tre giorni fui distaccato dalla zona di Capodrise-Lusciano alla zona sessana. Prima avevo occupato le terre di Fossataro e di altri agrari».
Nel 1947 ci fu anche un’altra importante lotta popolare che riguardava la costruzione del complesso INA case nella zona detta “Starza”. L’appaltatore non rispettava i contratti previsti per i lavoratori, scatenando uno sciopero ad oltranza guidato dal nostro protagonista, che era responsabile della locale CDL. Dopo alcuni giorni di sciopero le maestranze incominciarono a percepire serie difficoltà. Caciano, allora, andò nelle varie salumerie e comprò il cibo per gli operai, accollandosi tutte le spese. Dopo alcuni giorni i negozianti non gli riconobbero più il credito. Questa difficile situazione lo convinse a cercare l’intervento del massimo dirigente della CGIL, Giuseppe di Vittorio. Il dirigente pugliese contestò la direzione della lotta, in quanto uno sciopero ad oltranza era una protesta troppo estrema, e dopo di esso “c’era solo la rivoluzione”. Di Vittorio allora consigliò di “diluire” la protesta in una serie di scioperi ad intermittenza, che potessero permettere ai lavoratori di sopravvivere.
Questo attivista partecipò al movimento dei disoccupati di Maddaloni e degli scioperi “a rovescio”. I disoccupati infatti si organizzarono in squadre di attuando lavori di pubblica utilità (come per esempio per quanto riguarda i lavori di miglioramento di via Calabricito a Maddaloni). Egli continuò a partecipare a tutte le lotte popolari della sua città, alcune delle quali furono particolarmente dure e difficili. Cacianiello diventò cosi “leader indiscusso della CGIL” e “punto di riferimento del mondo lavorativo maddalonese,” capo storico della massa dei disoccupati. Egli diresse alcune tra le lotte più dure della storia popolare di Maddaloni, ed anche della intera provincia. Nel 1960 occupa assieme alle maestranze lo stabilimento “Boccolatte” per un intero mese. Nel 1970 è la volta della azienda alimentare “CISA” che viene occupata per due settimane, per arrivare poi al 1974 quando, dopo il licenziamento di alcuni cavatori, egli partecipò alla occupazione dello stabilimento e della locale stazione ferroviaria.
Nel 1981 divenne pensionato, ma questo periodo non costituì per lui la fine delle lotte e l’inizio del riposo. Egli continuò ad essere un combattivo militante dei pensionati, diventandone leader e riuscendo a tesserarne 1.180 nel sindacato di categoria. Purtroppo, nonostante queste importanti lotte popolari, la sua figura assieme a quella di tanti altri, come Graziadei, Tarigetto e Tucci è stata dimenticata. In questo caso specifico l’oblio generale è stato particolarmente crudele. Infatti egli “è morto solo e abbandonato, senza poter contare nemmeno sull’assistenza pubblica.
In memoria di Ruggero Cutillo, compagno di tante lotte per i diritti
Dopo una lunga sofferenza, stroncato da un male inesorabile, nel mese di aprile del 2017 ci ha lasciato, compagno fraterno, uno dei più combattivi e valorosi esponenti del movimento operaio e sindacale in Campania ed in Terra di Lavoro, che ricordo sempre molto attivo nei lavori della segreteria provinciale CGIL insieme con Riccardo De Filippo e Giovanni de Santo (anche loro due da poco scomparsi). Mi rimane impresso nella memoria il ricordo di tante battaglie combattute insieme in difesa dei fondamentali diritti umani e sociali, a partire da quelle che lo videro in prima fila per affermare la legalità democratica e i valori di una cittadinanza attiva nelle terre natie dell’agro aversano.
Negli anni ‘70 fu protagonista delle lotte giovanili per il diritto allo studio e per il lavoro, con la costituzione della FGCI (Federazione Giovanile Comunista Provinciale), avanguardia di tante battaglie di civiltà e di libertà, come quelle per la pace nel mondo, a fianco dei popoli oppressi, fino al divorzio ed emancipazione delle donne. Come sindacalista si è sempre distinto per il suo appassionato impegno a favore dei diritti dei lavoratori, a partire dalle esperienze a fianco del movimento bracciantile e nell’Alleanza Contadini; a sostegno dei migranti per affermare la loro dignità di cittadini. Lo ricordo sempre in prima fila nei giorni infuocati a Villa Literno quando ammazzarono l’esule JE Masslo.
Negli anni 80 fu animatore e protagonista delle prime manifestazioni e mobilitazioni popolari organizzate in diverse città contro la camorra e la delinquenza organizzata, che lui affrontava sempre a viso aperto, senza alcuna remora o timore. In quegli anni seguì tante vertenze sindacali in difesa dell’occupazione e per salvare pezzi dell’apparato industriale (dalla lndesit alla Texas, dalla Lollini a tanti cantieri edili) di quella che una volta veniva definita come una Brianza del Sud (di cui ora resta ben poco).
Come tanti di noi, amava la buona letteratura, la buona cucina della dieta mediterranea, i viaggi con la famiglia; gli piaceva fare sport, in particolare il calcio ed il nuoto (la pesca sub) ed aveva una passione particolare per il biliardo, che giocava a livelli di professionista. Con lui se ne è andato una figura di cittadino democratico di spessore – e possiamo dire rivoluzionario per il suo rigore.
Pur essendo di qualche anno più giovane di me, mi rimane impresso nella memoria il ricordo di tante battaglie combattute insieme in difesa dei fondamentali diritti umani e sociali, a partire da quelle che lo videro in prima fila per affermare la legalità democratica e i valori di una cittadinanza attiva nelle terre natie dell’agro aversano.
Con lui se ne è andato una figura di cittadino democratico di spessore – e possiamo dire rivoluzionario per il suo rigore. A Gabriella, sua compagna per una buona parte della sua vita, ai suoi figli ed ai familiari va il mio cordoglio, insieme con la CGIL e con tutti/e i compagni di tante lotte civili e sociali.
Andrea Sparaco e la modernizzazione di Terra di Lavoro
In un evento dedicato alla “Giornata della memoria” nell’Archivio di Stato di Caserta, Paola Broccoli esordì esprimendo il suo ringraziamento alla direttrice dell’Archivio di Stato dottoressa Grillo, al personale che aveva collaborato alla realizzazione di questo evento e a coloro che erano intervenuti a Domeniche di Carta, giornata straordinaria di apertura degli Archivi di Stato dedicata a Caserta ad Andrea Sparaco. In quella occasione raccontò con commozione la biografia di Andrea Sparaco, nato a Marcianise (il Comune di Capodrise era stato soppresso ed il territorio annesso a Marcianise) il 1 ottobre 1936, all’epoca provincia di Napoli in seguito alla soppressione della Provincia di Terra di Lavoro operata da Mussolini nel 1927. Dopo aver frequentato le scuole medie, si iscrive all’Istituto d’Arte di Napoli e successivamente all’ Accademia di Belle Arti - indirizzo scenografia. Superato il concorso a cattedra nel 1958, ottiene il primo incarico da docente a Sessa Aurunca. L’anno seguente fu trasferito a Teano, dove conobbe la collega Lina De Gennaro sua futura moglie e dal matrimonio nasceva Marina. I genitori di Andrea, Luigi e Maria ebbero cinque figli, quattro maschi e una femmina. Luigi, era un artigiano del legno e nella sua bottega Andrea trascorse gran parte dell’infanzia, assimilando la passione per il lavoro artigianale, per il legno, per la cura dei dettagli e per la politica. Luigi ed altri artigiani costituirono il nucleo comunista di quel territorio.
Lo stessa Andrea scrive che i primi “approcci con la politica e, quindi con l’arte risalgono al tempo in cui portavo i pantaloncini corti. Allora i partiti non sapevano né leggere né scrivere”, quando si lottava per la sopravvivenza e la rivendicazione più abusata era “pane e lavoro”. Il suo itinerario di artista si svilupperà seguendo il binomio arte e politica. Dopo la morte del padre Luigi avvenuta nel 1965 a 64 anni, Maria che era casalinga fu costretta ad emigrare in America per trovare un lavoro con cui sostenere la famiglia, ritornerà in Italia alcuni anni dopo. L’impegno artistico per Andrea si attuava “da sempre come attività al servizio dell’uomo, come contributo ideativo e culturale ai nobili obiettivi della politica e campo di sperimentazione per le sue più ardite mediazioni”. Giovanissimo si iscrive alla CGIL, una scelta di campo di cui era molto orgoglioso: “Ho scoperto che le categorie in essa associate, proletari, lavoratori, contadini, intellettuali, si confrontano, in un clima di tolleranza e di amicizia”, a partire dalle necessità delle categorie più disagiate. La CGIL chiederà ad Andrea ed altri artisti di realizzare i pannelli che venivano esposti nei cortei in occasione del I Maggio o altre manifestazioni e circostanze importanti.
La prima mostra di Andrea si tenne a Caserta a metà degli anni ’50: “Allora i paesi erano piccole comunità separate; le distanze erano enormi, Caserta lontanissima!”. Qui si era costituito il gruppo “il Cavalletto”, con l’intento di smuovere la pigrizia ed il conservatorismo casertano. Seguiva a questa prima iniziativa l’apertura della “Galleria il Braciere”, che divenne ben presto un luogo di incontro in cui si iniziava a discutere del ruolo degli artisti nelle lotte democratiche. In quegli anni l’ Italia si trovava di fronte al « decollo del capitalismo avanzato, il passaggio da una società agricolo–industriale a una società industriale-agricola, con uno spostamento migratorio di forza lavoro dal sud contadino al nord industriale». Questo processo si sviluppava nel Mezzogiorno in maniera disarmonica e soprattutto funzionale agli interessi delle imprese del Nord, incentivate ad investire al Sud per la manodopera abbondante e a basso costo, per le ingenti agevolazioni economiche statali e per decongestionare le aree industrializzate di Milano e Torino, non più in grado di assorbire ulteriore emigrazione.
Andrea aveva capito che l’ antica civiltà contadina sarebbe stata spazzata via dalla modernità: «L’industrializzazione della nostra provincia era stata, per come è stata concepita e voluta, una forzatura strutturale violenta che ha prodotto guasti incalcolabili», tuttavia era consapevole che il processo era inarrestabile, che si sarebbe compiuto «senza armonizzazione» mentre «le disarmonie sociali sono sempre più visibili» e « i tradizionali valori della civiltà contadina ed artigiana, mortificati e stravolti dalla cosiddetta civiltà dei consumi, sopravvivono nelle pieghe di un modernismo di facciata », per cui il sotto salario e la non applicazione delle norme sociali e previdenziali nell’industria ed in agricoltura erano una costante. La lucidità con cui Andrea leggeva gli avvenimenti in corso non era un rifiuto alla modernità, ma una critica radicale alle logiche del capitalismo. Sempre a fianco dei lavoratori, si iscrisse al PCI, partito per cui ha ricoperto la carica di consigliere comunale di Capodrise nelle elezioni amministrative dell’ 8 giugno 1980 in una coalizione PCI- PSI capeggiata da Arcangelo Vastano.
Andrea sempre di più veniva identificato come il più coerente intellettuale organico al PCI, un ruolo di cui era particolarmente orgoglioso: nel 1969 alla Federazione Provinciale del PCI giungeva una lettera scritta di pugno da Enrico Berlinguer che ringraziava i compagni per il manifesto inviatogli, un manifesto utilizzato come copertina de “Il progresso di Terra di Lavoro”, giornale della Federazione casertana del PCI.
Attraverso la mediazione del partito Andrea riuscì a fissare un incontro con il Maestro Renato Guttuso, un incontro che dopo lunghe trattative fu fissato nella durata di 5 minuti, presso la dimora del Maestro. Tra il ’68 e il ’69 a Caserta si registrava un significativo fermento culturale cui contribuivano le iniziative degli artisti dei gruppi “il Triangolo, Proposta 66 e La Comune”, promotori di un incontro « organico» con il movimento operaio attraverso manifesti e mostre. Andrea era parte attiva di questi gruppi e nel 1969 con “La Comune» realizzavano l’opera in vetro qui esposta in sostegno alle lotte degli operai della Saint Gobain. Lo scontro sociale era violento tanto che in soli tre mesi del 1969 vi furono 284 denunzie contro i lavoratori tra cui anche operai della Saint Gobain”.
Andrea era sempre in prima linea nelle iniziative di solidarietà contro l’Apartheid, per la liberazione del Vietnam, per la democrazia in Grecia, per l ‘indipendenza dei paesi africani promosse dalla CGIL. Il suo laboratorio in Via Mazzocchi al centro di Caserta divenne un vero centro culturale per artisti, giovani, amici e compagni, in quelle enormi stanze zeppe di materiali di ogni sorta, di opere, di schizzi, di progetti e sperimentazioni, si respirava un’atmosfera di creazione di nuove forme dello stare insieme. La sua produzione è vastissima: pannelli, disegni, pizzini, statue, appunti e riflessioni, che rappresentano una fonte preziosa per rileggere la storia degli anni della “Golden Age” di Terra di Lavoro. Altrettanto preziosi sono i manifesti, come scrisse il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un messaggio del 2007 indirizzato alla ex direttrice dell’Archivio di Stato di Caserta Dottoressa Imma Ascione in occasione della pubblicazione del Catalogo Manifesti e Aforismi grafici edito da Electa a cura dell ‘Ente Provincia di Caserta per i 100 anni della CGIL: il “manifesto, mezzo di comunicazione mantiene nel tempo la sua forza evocativa”.
Tante sono le mostre, gli eventi, le pubblicazioni, che gli hanno consentito di stabilire connessioni con esponenti della cultura italiana. Come dirà Cacciari in risposta ad una cartella di disegni sulla guerra del Kossovo che qui viene esposta “la tua passione la tua sfida la tua sensibilità non sono il rifugio dell’inetto, ma il contributo fattivo ed importante del responsabile”. Per Andrea l’uomo vive nella precarietà, “sospeso tra un profondo passato da cui proviene ed un profondo futuro verso cui si dirige” il suo impegno è stato sempre teso a realizzare «una comunità fondata su un diffuso senso civico e un profondo sentimento di solidarietà e di amicizia». L’aforisma che Andrea scelse per aprire la carrellata di meravigliose immagini in bianco e nero in Quegli istanti a ridosso del futuro racchiude il senso di questa giornata: «siamo abitati da tutto quello che è accaduto prima di noi, e noi, insieme a tutto questo abitiamo nei linguaggi che utilizziamo per comunicare !» In quella stessa occasione Gaia Salvatori (docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Unicampania), osservò che in un’epoca come quella che attualmente viviamo, caratterizzata da una sorta di amnesia diffusa, il tema della memoria ritorna ad essere centrale e ci impone un nuovo impegno sollecitato dall’esigenza di uno scatto di dignità. Il poeta Lello Agretti, amico caro di Andrea, nel 2010 scrisse che “non tutte quelle che riteniamo poesie devono, per il solo fatto d’averle scritte, trovare posto in un libro”. E’ giusto, invece, che tutte le “carte” di Andrea Sparaco trovino posto in Archivio, ma a una condizione: che queste non rimangano isolate dalle altre e che non vadano solo ad arricchire un deposito, il luogo più lontano possibile dalla Memoria. Ed aggiunse: “Un artista in un archivio, come in un museo, ci sta bene se il suo operato è presentato per sollecitare chiunque ci si avvicini alla visita, alla lettura, alla consultazione. Per attingere, in sostanza, a tutto quanto la sua opera suggerisca di riprendere, rielaborare, sviluppare. Ebbene, si può dire che da sempre chiunque abbia scritto di Andrea Sparaco ha attinto pienamente al suo pensiero (citando con convinzione i suoi densi aforismi, per esempio), usandolo spesso come una chiave di lettura del presente: così i critici, ma anche gli artisti che si sono fatti interpreti degli innumerevoli spunti offerti dai suoi “pensieri disegnati”, come sono stati opportunamente definiti”.
Riccardo Dalisi, per esempio, si è spinto a dichiarare che «Andrea Sparaco entra nella materia, la scalfisce e punto per punto la ricompone in residui depositi sulla riva del mare. Lì qualcosa li avvolge e con mano amorosa li dispone con il lavoro faticoso della memoria». Stelio Maria Martini, poi, in uno scritto inedito del 1991, ha ragionato sulla “Porta e la maschera” come metafore di apertura e chiusura, luoghi di confine, quindi, ma anche “schermo fra passato e futuro, ricordando, fra le altre cose, uno dei titoli dati da Sparaco ad un suo assemblaggio di oggetti: “la memoria ha un grande futuro”. Solo in questa chiave si comprende a pieno quanto la sua opera sia considerabile “solida” e “solidale” (secondo Massimo Cacciari): pronta a costituire un bagaglio di spunti di riflessione a cui, appunto, attingere senza risparmio. Ce ne convinciamo, in particolare, proprio ponendo attenzione non solo alla sua multiforme e densa produzione plastica e grafica, o ai fulminanti aforismi, ma anche semplicemente ai suoi titoli, alle didascalie che Sparaco appone alle opere. Queste «entrano nella categoria degli stimoli – o anche dei pretesti – che provocano “l’intelligenza a verificarne la corrispondenza con quanto le immagini hanno costruito, al loro primo rapporto, nel lettore» (Flavio Quarantotto).
Amedeo Marzaioli
In data 18 agosto 1989 ci ha lasciati Amedeo marzaioli, per anni uomo di punta della Cgil anche a livello regionale, è stato dirigente anche del Partito comunista. I primi incarichi importanti nel sindacato risalgono al 1972 quando entrò nella segreteria di Caserta della Cgil. Un impegno, quello nel sindacato, cominciato giovanissimo nella segreteria della Cgil Caserta, tra il 1972 e il 1973, cui seguì l’impegno come dirigente provinciale del Pci, dove continua a seguire da vicino i temi del lavoro. Un impegno costante che portò avanti fino agli Novanta quando, ritornato in Cgil Campania, fu prima tesoriere e poi formatore dei quadri dirigenti. Sotto la sua guida si sono formati numerosi dirigenti campani e napoletani che oggi ricoprono incarichi di segretaria nazionale all’interno della Cgil e delle categorie. Curò anche l’archivio storico della Cgil Campania, unendo così passato, presente e futuro dell’organizzazione. L’ultimo impegno è stato quello di direttore del CAAF Cgil Campania, incarico al quale si era affacciato con l’entusiasmo, la passione e la competenza che hanno contraddistinto tutta la sua intensa vita. La Cgil Campania, unendosi al dolore della famiglia per questa improvvisa scomparsa che lascia senza fiato, terrà sempre vivo il suo ricordo per la scomparsa di uno dei suoi uomini più rappresentativi degli ultimi 40 anni. “Con Amedeo Marzaioli se ne va un pezzo della storia recente della Cgil e della sinistra campana – ricorda la segreteria regionale della Cgil.
Quella di Marzaioli è una famiglia impegnatissima. Il fratello Mimmo Marzaioli è stato consigliere comunale a Caserta dell’amministrazione Bulzoni oltre che dirigente di Confesercenti.
Con Amedeo Marzaioli se ne va un pezzo della storia recente della Cgil e della sinistra campana. Un impegno, quello nel sindacato, cominciato giovanissimo nella segreteria della Cgil Caserta, tra il 1972 e il 1973, cui seguì l’impegno come dirigente provinciale del Pci, dove continua a seguire da vicino i temi del lavoro. Un impegno costante che portò avanti fino agli Novanta quando, ritornato in Cgil Campania, fu prima tesoriere e poi formatore dei quadri dirigenti. Sotto la sua guida si sono formati numerosi dirigenti campani e napoletani che oggi ricoprono incarichi di segretaria nazionale all’interno della Cgil e delle categorie. Curò anche l’archivio storico della Cgil Campania, unendo così passato, presente e futuro dell’organizzazione. L’ultimo impegno è stato quello di direttore del CAAF Cgil Campania, incarico al quale si era affacciato con l’entusiasmo, la passione e la competenza che hanno contraddistinto tutta la sua intensa vita. La Cgil Campania, unendosi al dolore della famiglia per questa improvvisa scomparsa che lascia senza fiato, terrà sempre vivo il suo ricordo.
**CGIL Campania
Lutto nel mondo del sindacato e della politica, scompare Amedeo Marzaioli
L’uomo è stato per decenni storico sindacalista dirigente della CGIL casertana ed ex dirigente del Partito Comunista. Il fratello Domenico Marzaioli è stato consigliere comunale a Caserta dell’amministrazione Bulzoni ed ex dirigente di Confesercenti. L’uomo è venuto a mancare prematuramente e improvvisamente all’affetto dei suoi cari, comunità sotto shock. Numerosi i messaggi di cordoglio e addio che stanno giungendo ai familiari di Marzaioli.
Filcams CGIL Campania: “Apprendiamo con dolore e commozione, della improvvisa scomparsa del compagno Amedeo Marzaioli. Sotto la sua guida si sono formati numerosi dirigenti campani che oggi ricoprono incarichi di segretaria all’interno della CGIL e delle categorie. Con lui, se ne va un pezzo della storia recente della nostra organizzazione e della sinistra campana. La Filcams CGIL Campania si unisce al cordoglio di tutta la CGIL, esprimendo forte vicinanza alla famiglia. Ciao Amedeo, che la terra ti sia lieve!”
Fiom-Cgil Campania: “Ciao Compagno Amedeo Con Amedeo Marzaioli, se ne va un pezzo della storia recente della Cgil e della sinistra campana. Un impegno, quello nel sindacato, cominciato giovanissimo nella segreteria della Cgil Caserta, tra il 1972 e il 1973, cui seguì l’impegno come dirigente provinciale del Pci, continua a seguire da vicino i temi del lavoro. Un impegno costante che portò avanti fino agli Novanta quando, ritornato in Cgil Campania, fu prima tesoriere e poi formatore dei quadri dirigenti. Sotto la sua guida si sono formati numerosi dirigenti campani e napoletani che oggi ricoprono incarichi di segretaria nazionale all’interno della Cgil e delle categorie. Curò anche l’archivio storico della Cgil Campania, unendo così passato, presente e futuro dell’organizzazione. L’ultimo impegno è stato quello di direttore del CAAF Cgil Campania, incarico al quale si era affacciato con l’entusiasmo, la passione e la competenza che hanno contraddistinto tutta la sua intensa vita. La Cgil Campania, unendosi al dolore della famiglia per questa improvvisa scomparsa che lascia senza fiato, terrà sempre vivo il suo ricordo.”
Adolfo Villani: “Franco Capobianco mi ha dato una notizia che non avrei mai voluto avere. Amedeo Marzaioli ci ha lasciato improvvisamente. Con lui se ne va un pezzo importante della mia vita. Gli studi insieme all’istituto Michelangelo Buonarroti di Caserta, la comune militanza nel movimento studentesco, poi nella Federazione Giovanile Comunista Italiana e nel Partito Comunista Italiano, l’esperienza da funzionari della CGIL e nella segreteria della Federazione Comunista di Caserta. Un amico molto caro, un compagno preparatissimo, di estrema serietà e rigore morale, di grande umanità. Una vita interamente dedicata alla sinistra, al sindacato e ai lavoratori. Ciao Amedeo riposa in pace. Un abbraccio a Mimmo Marzaioli condoglianze alla famiglia.”
Adolfo Villani: “Franco Capobianco mi ha dato una notizia che non avrei mai voluto avere. Amedeo Marzaioli ci ha lasciato improvvisamente. Con lui se ne va un pezzo importante della mia vita. Gli studi insieme all’istituto Michelangelo Buonarroti di Caserta, la comune militanza nel movimento studentesco, poi nella Federazione Giovanile Comunista Italiana e nel Partito Comunista Italiano, l’esperienza da funzionari della CGIL e nella segreteria della Federazione Comunista di Caserta. Un amico molto caro, un compagno preparatissimo, di estrema serietà e rigore morale, di grande umanità. Una vita interamente dedicata alla sinistra, al sindacato e ai lavoratori. Ciao Amedeo riposa in pace.Un abbraccio a Mimmo Marzaioli condoglianze alla famiglia.“
Morto Antonio Garofalo, una vita per il sindacato
Il cordoglio della Cgil Campania e di Caserta: “Il 26 marzo 2019 È scomparso Antonio Garofalo, 63 anni, dirigente sindacale, compagno e amico. Responsabile dell’ufficio vertenze, già segretario generale dello Spi e Nidil Caserta nonché segretario della Camera del lavoro con delega all’organizzazione”. Ne danno notizia in una nota la Cgil Campania e di Caserta, che “si stringono intorno alla moglie e ai figli in questo momento di grande dolore. Dall’esperienza nei movimenti giovanili, Garofalo si è avvicinato alla Cgil subito dopo il terremoto del 1980, mettendo fin da subito a disposizione dell’organizzazione tutto se stesso. “È stato tra i protagonisti dell’ufficio vertenze legali della Cgil Caserta – ricorda il segretario generale della Camera del lavoro, Matteo Coppola – e in quella veste si è messo completamente a disposizione dell’organizzazione non facendo mai mancare il suo impegno. Di lui ci mancherà la sobrietà, la discrezione e l’eleganza”.
“Antonio – ricorda Camilla Bernabei, della segreteria Cgil Campania – ha dato tutta la sua vita all’organizzazione, mettendoci sempre al fianco dei più deboli e al completo servizio dell’organizzazione. La sua è una perdita incolmabile per la famiglia e per il sindacato”.
Un anno fa veniva a mancare il sindacalista della Cgil di Maddaloni Antonio Garofalo. Questa mattina l’organizzazione sindacale ha voluto ricordarlo con un post su Facebook. Oggi abbiamo avuto il piacere di rivolgere qualche domanda al segretario Cgil della provincia di Caserta Matteo Coppola che con Garofano ha condiviso il percorso all’interno del sindacato Stamane la Cgil ha ricordato Tonino Garofalo ad un anno dalla sua scomparsa. Che tipo di persona era? “Inizio col dire che Antonio mi manca tanto. Antonio, nel suo essere estremamente persona per bene, trasparente, era un amico ed un compagno che non ti lasciava mai solo. Me lo sono trovato a fianco diverse volte, sempre con spontaneità, schiettezza. Si faceva vedere e si faceva sentire nonostante la sua tranquillità”
Lei è oggi segretario provinciale della Cgil. Che tipo di sindacalista era Antonio? “Antonio era una persona pratica, concreta. Una persona che nella difesa dei diritti delle persone, soprattutto di quelle maggiormente in difficoltà economiche e sociali, c’è sempre stato. Questo suo essere ha caratterizzato il corso della sua carriera sindacale, nei suoi incarichi. Da giovane è stato dirigente del sindacato dei pensionati. Questa esperienza l’ha formato, l’ha forgiato riempendolo di contenuto di estrema concretezza, di disponibilità verso questa fascia sociale maggiormente esposta alle diseguaglianze. E’ stato anche responsabile dell’organizzazione della Cgil, quindi pratico, concreto nell’affrontare le difficoltà quotidiane, le problematiche che si aprono. Antonio è stato molto forte in questo compito. E lo è stato anche nell’ultimo incarico che ha ricoperto, ovvero quello di responsabile dell’ufficio vertenze, che lui ha costruito dal nulla perché noi non l’avevamo. E’ diventato un importante punto di riferimento per i lavoratori, per i professionisti del settore e per le istituzioni”.
Facendo parte della stessa generazione ed avendo militato nella stessa organizzazione sindacale, qualche ricordo particolare? “Noi siamo nati insieme anche politicamente avendo militato nel Partito Socialista alla fine degli anni ‘70. Ne abbiamo fatto di strada insieme. In particolare serbo un ricordo che può far capire come era Antonio. Io ero nella segreteria della camera del lavoro 7 o 8 anni fa. Avevamo un’assemblea infuocata con un gruppo di lavoratori che erano stati licenziati e che chiedevano percorsi di tutela, di reddito. Restare senza lavoro e reddito è una situazione non facile. Stavamo facendo questa assemblea che ad un certo punto divenne un vero e proprio bollitore di latte: qualche sedia volò e ci fu un po' di trambusto. Tonino era nel suo ufficio al piano superiore ed in un baleno me lo trovai a fianco senza che nessun di noi lo avesse chiamato. Me lo trovai vicino con quella sua prorompenza fisica rassicurante. Io me lo immagino sempre così. Antonio aveva un posto negli uffici della camera del lavoro da dove riusciva a guardare tutte le stanze che affacciavano sul corridoio. Ogni tanto me l’immagino ancora nello stesso punto che guarda verso la porta del mio ufficio, quella di segretario generale. Fu proprio lui a sostenermi durante tutta la fase congressuale. Antonio mi manca proprio in queste cose”.
Qual è stato il contributo di Antonio Garofalo al movimento sindacale locale? “L’ho detto l’anno scorso ad un mese dalla sua scomparsa quando l’abbiamo ricordato a Maddaloni. Antonio era pratico, concreto, ma anche un idealista. Credeva in quei principi che ci caratterizzano. Antonio ha lasciato traccia in ogni suo incarico. La stessa forza lo ha motivato anche quando, su mio suggerimento, gli affidammo la gestione della nascita dei Nidl (nuove identità di lavoro). Lui, in un’età non più giovanissima, diede la disponibilità completa a gestire quella fase. Tonino si adattava a tutto. Una risposta di qualità e soprattutto di responsabilità”.
Gianni De Luca
Gianni è stato un dirigente storico del Sindacato dei Bancari a Napoli ed in Campania. Agli inizi degli anni '90 ha fatto parte della segreteria regionale della Cgil Campania. Nel 1996 divenne Presidente del neonato Istituto di Ricerche Economiche e Sociali IRES Campania. Assunse poi la carica di Segretario di Organizzazione della Cgil e completò così il suo mandato. Successivamente collaborò con il Sindacato dei Pensionati fino alla sua quiescenza. Ha speso il suo impegno politico dal PCI al PD, con il quale ha mantenuto rapporti di partecipazione attiva fino ad oggi. Io l'ho conosciuto ed ho lavorato con lui per tutto il periodo della sua Presidenza. L'ho stimato per quella onesta, brava ed educata persona che è stato. Era piacevole dialogare con lui perchè persona di raffinata cultura. La sua sensibilità umana lo ha fatto soffrire per tante piccole e grandi cose della vita. Ora ha trovato la pace che per tanto tempo ha cercato.Resto affranto e frastornato per questa sua morte inaspettata. Carissimo Gianni, non doveva finire così.
**Gianni De Falco Presidente Ires Campania
Ieri sera 26 gennaio 2021 sono rimasto sconvolto dalla notizia della tragica fine di Gianni De Luca, un bancario colto e raffinato, nostro caro e fraterno compagno di tante battaglie per i diritti sociali e civili. Con lui ho lavorato fianco a fianco nella CGIL Campania alla fine degli anni ’90 ed inizio del nuovo secolo duemila. La sua triste scomparsa mi porta a ricordare quegli anni, che in buona parte ho già raccontato in alcuni volumi come “Una vita per i diritti”, edito da Rubbettino e “Diritti e lotte sociali in Terra di Lavoro nel XIX secolo”, edito da Guida. In primo luogo mi fa piacere ricordare il ruolo importante che Gianni svolse in quegli anni, prima alla guida del sindacato dei bancari, poi della CdLM di Napoli ed infine nella segreteria CGIL Campania e della Federconsumatori (che lui fondò). In quegli anni capitò che ai massimi vertici della confederazione vennero eletti alcuni dirigenti provenienti da Caserta. Infatti, c’era Michele Gravano a Napoli (la più importante CdL del Mezzogiorno), Berardo Marino alla Federbraccianti poi divenuta FLAI, Antonio Crispi divenne segretario generale ed a me toccò di assumere la carica di primo presidente del Comitato Direttivo, il massimo organo di governo dell’organizzazione. Nello stesso tempo, grazie ad una intuizione di Andrea Ranieri e Bruno Trentin, venne costituita la FFR (Federazione Formazione e Ricerca), un sindacato originale in cui per la prima volta si creava una forte integrazione di saperi e di competenze unificando le vecchie categorie della scuola, dell’università e della ricerca.
Mi venne proposto di assumerne la direzione e grazie al supporto attento e creativo di dirigenti come Gianni per la prima volta il sindacato del Sud fu protagonista di importanti iniziative sui temi della ricerca e della innovazione posti a base dello sviluppo locale: mi ricordo bene il contributo che venne offerto al dibattito nazionale, grazie anche al contributo di personalità dell’università e del mondo della ricerca, con eventi ed iniziative che si svolgevano dentro le sedi universitarie e del CNR, con la presenza degli studenti, dei ricercatori e di eminenti scienziati come i prof. Luigi Nicolais, Luigi Carrino, Mario Raffa, Nicola Melone (solo per ricordarne alcuni). In quegli anni il movimento sindacale unitario a Napoli e in Campania fu protagoniste di lotte e di vertenze, che in primo luogo ponevano al centro la difesa dell’occupazione in una fase di ristrutturazione dell’apparato industriale ed agroalimentare. Ma queste lotte non si chiudevano nei recinti delle fabbriche (spesso occupate), ma si aprivano al territorio grazie ad una visione culturale che poneva la fabbrica quale motore trainante dello sviluppo e della coesione sociale. In quella stagione in tutte le province campane vi fu un apporto significativo del movimento sindacale con i “patti territoriali per lo sviluppo”. Emblematici furono alcune grandi manifestazioni e i convegni che organizzammo al CNR e nelle università per coniugare insieme i temi del lavoro con quelli della ricerca scientifica e dell’innovazione, con il contributo di studiosi ed anche di imprenditori, come Achille Flora, Bruno Schettini (un pedagogista di livello mondiale, anche lui da poco scomparso), Alfredo Loso, Bruno Scuotto: fu un segnale molto forte che venne dal Mezzogiorno e che oggi sarebbe utile riprendere.
L’altro filone di intervento fu quello dell’istruzione e della formazione delle competenze, anche con il rafforzamento dell’IRES CGIL e del centro per la formazione dei quadri (diretto da un altro casertano, Amedeo Marzaioli, anche lui da poco scomparso). In quegli anni svolse un ruolo decisivo per la formazione nelle fabbriche l’OBR Campania con Confindustria – ed anche gli altri enti bilaterali di settore – con cui vennero promossi dei veri e propri progetti di educazione ed apprendimento permanente, che segnarono una grande innovazione anche culturale per il movimento sindacale, con tante assemblee ed incontri, con i corsi di EDA (educazione degli adulti) in cui parteciparono tanti lavoratori (anche non iscritti al sindacato). Un’altra esperienza interessante, una vera e propria buona pratica, venne realizzata con la Regione Campania (diretta da Antonio Bassolino, con Adriana Buffardi assessore all’istruzione) tramite i viaggi di studio con ampie delegazioni nei vari sistemi di educazione degli adulti, che ci portarono a contatto con le realtà più avanzate nei vari paesi europei, a partire da quelle della Francia fino alla Spagna, dalla Scozia fino al Portogallo, dalla Finlandia alla Svezia, dalla Danimarca alla Germania.
Come ben ha commentato il Segretario CGIL Campania N. Ricci: "Siamo attoniti e senza parole. La Cgil Campania e la Cgil Napoli si uniscono al dolore della famiglia per la tragica scomparsa del compagno Gianni De Luca”. Nella sua nota ha ben sottolineato che Gianni è stato un dirigente storico del sindacato dei bancari a Napoli e in Campania. Agli inizi degli anni Novanta ha fatto parte della Segreteria Regionale della Cgil. Nel 1996 divenne Presidente del riorganizzato Ires Campania. Assunse poi la carica di Vice Segretario della CGIL Campania con delega all'organizzazione, ricoperta dal 1996 al 2001, in una grande stagione di lotte e rivendicazioni sindacali.
Successivamente, dal 2001 al 2008 è stato vice presidente di Federconsumatori collaborando poi con il Sindacato Pensionati fino alla quiescenza. Ha speso il suo impegno politico dal PCI fino al PD, con il quale ha mantenuto rapporti di partecipazione attiva fino ad oggi. Si può ben dire che egli “ha vissuto e ha rappresentato una fase politica importante per la nostra organizzazione, dallo scenario nazionale sotto la guida di Trentin e di Cofferati a quello delle manifestazioni e delle lotte in Campania in difesa del lavoro, su tutte le vertenze dei metalmeccanici nel 1999 e, ancora, la grande iniziativa per il rilancio del sindacato con la conferenza d'organizzazione”.
**Pasquale Iorio, già Presidente CD CGIL Campania
Morte Gianni De Luca tra sgomento e ricordi
La scomparsa e poi il ritrovamento del corpo senza vita in una stanza d'albergo del corso Meridionale. Chi lo aveva visto per l'ultima volta in strada prima della sparizione aveva notato la sua irrequietezza, ma niente lasciava presagire quello che poi sarebbe accaduto. Prima la scomparsa per 24 lunghe ore dopo aver detto di dover andare in banca al Centro Direzionale, con l'appello del figlio e poi il ritrovamento del corpo senza vita in un albergo del corso Meridionale. E' finita così la vita di Gianni De Luca, ex vicesegretario regionale campano della Cgil, molto stimato nel mondo del sindacato e della politica (era stato anche segretario generale bancari Campania e presidente regionale di Federconsumatori). Nessuno può credere che abbia potuto compiere un gesto estremo, ma le indagini sulla sua morte al momento lasciano pochi dubbi.
"Il suo compagno di vita Gianni De Luca se ne è purtroppo andato per sempre. Gianni era un grande uomo e lo dimostrava, tra le altre cose, il suo modo generoso e discreto di essere al fianco di una donna tanto forte come Maria Fortuna. Gianni era un uomo dolce, mite, intelligente, presente, amorevole, deciso, con i suoi percorsi, i suoi riferimenti, le sue passioni. Un uomo affettuoso con tutti e un padre presente per i suoi figli. Un compagno affidabile per il sindacato e per le categorie per le quali ha lavorato. A Maria Fortuna e ai suoi figli dico: non possiamo colmare questo vuoto enorme, non possiamo alleviare la vostra sofferenza, ma possiamo esservi accanto. Il figlio Enrico aveva lanciato anche un appello via social network per rintracciare il padre. Gianni De Luca, oltre ad aver ricoperto diversi incarichi apicali nel mondo del sindacato campano e di Federconsumatori, era sposato anche con Maria Fortuna Incostante, parlamentare del Pd, ex assessore regionale comunale e con una lunga militanza con ruoli di primo piano nel partito", scrive su Facebook Valeria Valente, senatrice del Pd.
"Un dolore sordo mi travolge in queste ore Il mio amico di sempre, l’amico con il quale ho diviso gioie, dolori, risate e litigate ha deciso di andar via , di chiudere il suo percorso in una stanza d’albergo. Mi chiedo se sono stata distratta, se ormai ognuno di noi si è definitivamente chiuso in un mostruoso lockdown. Gianni caro con te se ne va gran parte della mia vita Il cinema che tanto amavamo, i pranzi della domenica e tanto altro. Ti prometto che la tua famiglia continuerà ad essere la mia e che stringerò sempre al cuore Maria Fortuna, Viviane ed Enrico", è il ricordo di Graziella Pagano di Italia Viva.
"Siamo attoniti e senza parole. La Cgil Campania e la Cgil Napoli si uniscono al dolore della famiglia per la tragica scomparsa del compagno Gianni De Luca". Così in una nota il segretario generale Cgil Napoli e Campania Nicola Ricci esprime il cordoglio della confederazione campana e napoletana alla notizia della morte di Gianni De Luca.
"Gianni De Luca - si legge nella nota - è stato un dirigente storico del sindacato dei bancari a Napoli e in Campania. Agli inizi degli anni Novanta ha fatto parte della segreteria regionale della Cgil. Nel 1996 divenne Presidente del riorganizzato Ires Campania. Assunse poi la carica di Vice Segretario della CGIL Campania con delega all'organizzazione, ricoperta dal 1996 al 2001, in una grande stagione di lotte e rivendicazioni sindacali. Successivamente, dal 2001 al 2008, è stato vice presidente di Federconsumatori collaborando, poi, con il Sindacato Pensionati fino alla quiescenza. Ha speso il suo impegno politico dal PCI fino al PD, con il quale ha mantenuto rapporti di partecipazione attiva fino ad oggi".
"Gianni - ricorda ancora il segretario generale Nicola Ricci - ha vissuto e ha rappresentato una fase politica importante per la nostra organizzazione, dallo scenario nazionale sotto la guida di Cofferati a quello delle manifestazioni e delle lotte in Campania in difesa del lavoro, su tutte le vertenze dei metalmeccanici nel 1999 e, ancora, la grande iniziativa per il rilancio del sindacato con la conferenza d'organizzazione. Il suo impegno, la sua passione politica e sindacale resteranno punti significativi costanti nel nostro lavoro quotidiano. Di sicuro - ha concluso Ricci - da oggi la Cgil ha perduto un importante dirigente coerente, sempre, con le sue idee. Addio Gianni".
In memoria di Massimo Montelpari militante di lungo corso della Cgil
In serata ho appreso della scomparsa di Massimo Montelpari, un compagno e maestro, che all’inizio degli anni 80 del secolo scorso mi avviò alla militanza nella CGIL di Caserta (allora Comprensorio). Dopo qualche nel 1984 anno lasciò la guida della CdL a me e ad una leva di dirigenti provenienti dalla realtà casertana, come Antonio Crispi – poi divenuto segretario Regionale CGIL Campania, Riccardo de Filippo e Ruggiero Cutillo, anche loro scomparsi prematuramente, Michele Colamonici, proveniente dalla Filtea ora segretario provinciale dello SPI e Benedetto Santangelo, anche lui del sindacato dei chimici e Matteo Coppola, attuale segretario provinciale CGIL. Massimo proveniva dal movimento delle lotte studentesche e sindacali romane: dal 1977 è stato impegnato nella segreteria della CdlM di Napoli, di cui divenne segretario generale nel 1984. Fu protagonista delle battaglie in favore dei braccianti tra gli anni 80 e 90, riuscendo a coinvolgere esponenti della società civile, intellettuali e professionisti, in un momento particolare per la storia e l’industria di Terra di Lavoro e dell’intera regione.
Nel 1990 venne eletto nella segreteria regionale della CGIL, dove venne sostituito nel 1996 da un altro Casertano, Antonio Crispi, mentre a me toccò il compito di presiedere le attività del Comitato direttivo. In quegli anni con Massimo tra Caserta e Napoli abbiamo condiviso tante lotte per i diritti e per il lavoro, in particolare nelle battaglie per la difesa della legalità democratica in un periodo in cui le varie camorre dei Cutolo e dei Bardellino seminavano sangue e violenza nella Campania Felix. Come è stato sottolineato in un comunicato della CGIL di Napoli si può definire un “sindacalista illuminato”, colto e raffinato. Federico Libertini lo ricorda come “un compagno di altissimo profilo morale, sindacale, politico. Un intellettuale rigoroso e raffinato, un galantuomo. Gli anni della sua segreteria generale della Camera del Lavoro di Napoli sono coincisi, in parte, con la mia segreteria alla federazione dei trasporti, trovando in lui un compagno sempre disponibile, attento e una guida sicura nei processi di trasformazione del settore. Da non napoletano amava Napoli come pochi e si è sempre battuto, in prima linea contro i poteri criminali e affaristici, per una Città in grado di sprigionare le sue migliori energie produttive, culturali, civili”.
Mentre Vincenzo Barbato rievoca “l'ultima volta ci siamo incontrati a Roma il 16 ottobre 2021 alla manifestazione di Piazza San Giovanni dopo l'assalto squadrista alla sede nazionale della Cgil. Sentimmo il bisogno di abbracciarci. Un abbraccio spontaneo, tra due compagni che avevano visto la loro casa violentata, ma nello stesso tempo fu come se avessimo avuto il presentimento che quella sarebbe stata l'ultima manifestazione delle tante fatte insieme. Poi sei scomparso tra i manifestanti, e non ti ho più visto”. Lo saluta commosso come “un dirigente di grande valore morale e politico. Un compagno. Una bella persona”. Inoltre, Vito Nocera “con grande dispiacere lo descrive con il suo sguardo dolce capace di cogliere ogni asprezza sociale”, anche per suo attaccamento alla nostra comunità che restava al centro di ogni sua attenzione.
Infine, Patrizia Capua nel 2002 su La Repubblica scrisse una bella nota su M. Montelpari nel 1984 quando aveva 59 anni, era il segretario della Camera del Lavoro di Napoli. Lo è stato fino al '90, in quella fase ultimo segretario comunista della Cgil Partenopea. Nel marzo '84, mentre Berlinguer era il segretario del Pci e il leader della sua confederazione era Luciano Lama, lui organizzò a Napoli i lavoratori per la manifestazione di Roma contro il governo Craxi che toglieva i tre punti di scala mobile. Riportiamo una parte dell’intervista in risposta alla domanda su come ricorda quell' avvenimento e che differenze trova con oggi? Così rispose: “Furono circa 40 mila a partire dalla Campania, ci fu una grossa partecipazione. Io andai a tutte le assemblee di preparazione, compresa quella alla Seda di Salvatore D' Amato, il padre dell’attuale presidente di Confindustria. A Napoli c’era una forte classe operaia di sinistra che fu il fulcro della manifestazione. Dopo decenni mi sembra di rivedere quei giorni. Eravamo in tanti in piazza per l’articolo 18 e con la voglia di reagire anche alla violenza brigatista. Ci sono differenze, come no. Questa è una nuova classe operaia, che viene per lo più da piccole e medie aziende, un mucchio di giovani con contratti di lavoro atipici”.
Dopo gli anni di crisi del sindacato, la giornalista gli chiese se lui vedeva in quella mobilitazione una nuova primavera nella battaglia per i diritti dei lavoratori. Ecco la sua risposta: “C'è una ripresa forte della coscienza sindacale, i giovani sentono molto la precarietà del lavoro e la Cgil riesce a interpretare questo disagio. Nell' 84 c’era solo la corrente comunista a scontrarsi con il governo, anche la Cgil era spaccata. Del Turco, segretario aggiunto, restò a casa. C'erano anche i gruppi che contestavano da sinistra. Oggi intorno alla Cgil si è ricomposto un quadro che comprende intellettuali, vecchi operai, giovani, un’opinione pubblica democratica, di centrosinistra che vede nella Cgil un punto di riferimento e di resistenza all' attacco allo stato sociale». In questa fase difficile, torna sulla scena il terrorismo. Così conclude: «Il terrorismo noi l’abbiamo avuta nelle fabbriche napoletane, pezzi delle Brigate rosse all' Italsider, all' Alfa, a Caserta. Ce ne accorgemmo, lo denunciammo. Il sindacato, in questo senso, era più esposto di oggi».
*Pasquale Iorio
Massimo Montelpari è morto...
O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambìto premio è conquistato...
... ...
O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane;
risorgo - per te è issata la bandiera - per te squillano le trombe,
per te fiori e ghirlande ornate di nastri - per te le coste affollate...
... ...
Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili,
non sente il padre il mio braccio, non ha più energia né volontà,
la nave è all'ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito...
Tratte dalla poesia "O capitano! mio capitano"

di Walt Whitman
Può sembrare pura retorica il ricorso a questi versi di Walt Whitman resi famosi dal film "L'attimo fuggente" per ricordare a tutti Massimo Montelpari (esperto e appassionato cinefilo egli stesso), ma se ci fosse la necessità di saltare su un banco per rendere omaggio a quest'uomo io lo farei certamente.
L'ho conosciuto, Massimo, quando fu Segretario Generale della Camera del Lavoro di Napoli ed io ebbi la fortuna di collaborare con quella segreteria ancor prima di essere distaccato a legge 300.
Quella Camera del Lavoro (Allocati, D'Agostino, Esposito, America, Ciancio) potrà passare alla storia della nostra Cgil come quella più prolifica di iniziative e soprattutto di idee. Quella che riuscì a chiamare alla sua causa i professionisti, gli studiosi, gli intellettuali più noti, che riuscì a segnare profondamente i rapporti con l'organizzazione nazionale, con le università, con i luoghi di lavoro proponendosi, in un periodo politico difficile che ebbe sbocco poi con la tangentopoli, come "baluardo" democratico capace di confrontarsi con i grandi temi dell'epoca, a cominciare con l'organizzazione delle politiche per la vivibilità di una città metropolitana complessa e difficile come Napoli.
Industria, trasporti, sanità, telecomunicazioni, ambiente... su tutti questi temi la Camera del Lavoro di Montelpari si misurò senza limitarsi alla critica senza costrutto ma costruendo tesi e proposte alternative di altrettanto peso quanto quelle in campo.
Vivere e lavorare nella zona orientale di Napoli, iniziativa che portò a Napoli l'allora Segretario nazionale Pizzinato, aprì la pista al progetto Technopolis, realizzato dalla Filcea (oggi Filctem) CGIL con la collaborazione della Facoltà di Architettura di Napoli retta dal prof. Uberto Siola, per un progetto di risanamento e recupero, anche industriale, della zona orientale (Ponticelli, Barra, S. Giovanni).
Con l'istituzione dell'Osservatorio sui processi di sviluppo dell'Area metropolitana di Napoli sviluppò visioni metropolitane per lo sviluppo del territorio riportate anche in due libri editi all'epoca: 'O ministro di Andrea Cinquegrana, Enrico Fierro e Rita Pennarola e La via napoletana all'urbanistica di Bruno Discepolo.
Quella Camera del Lavoro donò al Comune di Napoli (1988, sindaco Pietro Lezzi) il progetto per la pedonalizzazione di Piazza del Plebiscito, ripreso ed attuato dal sindaco Bassolino soltanto nel 1994.
Con l'iniziativa Il futuro ha 3000 anni si confrontò con le questioni del turismo, della cultura e dell'artigianato nell'area storica napoletana, ne nacque una iniziativa editoriale di Cgil Informa (pubblicazione sindacale) che fu curata da me, da Antonio Schioppa e dal fotografo Guido Giannini distribuito nelle edicole del centro storico ed andata esaurita nel giro di una settimana.
Il futuro ha 3000 anni si misurò perfino con l'iniziativa di portata nazionale sotenuta dalla politica dei tempi Il regno del possibile, progetto generato da personali reti di relazioni, costruita sulla base di legami familiari, amicizie, interessi comuni, capacità di muovere risorse e fare favori, serviva per mediare i vari interessi e le varie pressioni provenienti da un elettorato molto ampio ed esigente che, però, con la città e la sua cultura nulla aveva a che spartire (si parlò di una seconda edizione di Le mani sulla città). Quella iniziativa fu ispirata dalla ricerca (poi anche portata in mostra) Per il futuro del Centro Antico di Napoli realizzata dal professore Attilio Belli.
Non dimenticherei l'iniziativa in difesa del "marchio Cirio" come "marchio di una città e di una cultura industriale" che i proprietari della fabbrica intendevano "cancellare".
Massimo ha guidato quella Camera del Lavoro come un capitano la propria nave. Negli ultimi giorni del suo mandato soleva attraversare i corridoi del nono piano ripetendo, come cantilena, tra il serio e il faceto: Mi rimpiangerete... mi rimpiangerete. Non credo avesse capacità divinatorie ma... in molti lo abbiamo rimpianto. Qui scrivo del Massimo che ho conosciuto, un "signore" del sindacato... ma ho personalmente scoperto un "grande" personaggio attraverso la ricostruzione delle sue esperienze e le sue storie da studente di Agraria a Portici (Manlio Rossi Doria) a dirigente sindacale dei braccianti, da segeretario della Camera del Lavoro di Caserta a segretario della Camera del Lavoro di Napoli... per chi volesse riascoltare questa storia e rivedere Massimo può farlo collegandosi a youtube... con altri compagni (Rosario Messina, Enzo Esposito e Nino Cavaliere) avremmo voluto realizzare un archivio audiovisivo con interviste ai dirigenti sindacali in conclusione della loro carriera e Massimo fu intervistato da noi per l'iniziativa "La fabbrica della storia" (2012) che non ha ricevuto nè interesse nè risorse (peccato).
Ciao Massimo, ciao compagno Montelpari, ciao mio (e nostro) capitano...
Raffaele Lieto, avanguardia del movimento operaio, militante, sindacalista e organizzatore.
Raffaele Lieto nasce il 14 Febbraio 1954 a Baiano, punta estrema ad ovest della provincia di Avellino, area a forte connotazione agricola. Il padre emigrante in Germania, ed emigrante lui stesso, prima in Germania dal 1970 al 1972, poi in Piemonte dove lavora in alcune aziende del calzaturiero Valsesia, già attivista politico in formazioni della sinistra extraparlamentare, e poi aderente al Pci. In Germania matura, fin da ragazzo, la sua coscienza di classe nel complesso industriale della Telefunken, dove svolge attività politica e sindacale, subendo tre licenziamenti per rappresaglia con altrettante riassunzioni.
Tornato in Irpinia, nel 1975 comincia a collaborare con la Federbraccianti Cgil, prima come volontario e riferimento di zona del Baianese e Valle di Lauro, dove riesce a sindacalizzare molte aziende agroalimentari, fra lavoratori forestali e braccianti, poi come funzionario e componente della segreteria Federbraccianti di Avellino dal 1978 al 1984. Nel periodo dell’immediato post terremoto del 23 novembre 1980 viene indicato unitariamente quale responsabile della gestione degli aiuti raccolti da Cgil, Cisl, Uil, che arrivano a Baiano per essere smistati verso le aree colpite dal sisma.
Una vicenda umana che per Raffaele è stata scuola di sindacato e di militanza politica, fatta di fabbrica, lotte sindacali e preparazione culturale da autodidatta nell’impegno politico e negli approfondimenti sulle materie giuridiche e sulla legislazione del lavoro, che lo hanno condotto ai vertici della Cgil in Irpinia e in Campania, con tante iniziative coraggiose, prime tra tutte quelle della tutela del bene comune, della salute umana e delle specie viventi e dell’ambiente. Per tutte vale il duro contrasto, condotto dalla Cgil irpina tra gli anni ’80 e ’90, contro l’ex-Isochimica di Borgo Ferrovia, ad Avellino, la fabbrica della morte per le contaminazioni d’amianto.
Nel 1984 è eletto segretario generale della Filcea, segue il distretto della Concia di Solofra. Raffaele colloca la Cdlt di Avellino in prima fila nelle battaglie legali e sindacali contro l’amianto e per la tutela degli esposti, facendo dei temi della qualità del lavoro e dell’ambiente, non solo in fabbrica ma anche nel territorio, le coordinate della sua azione sindacale, e creando le premesse di un forte sviluppo di una coscienza ecologista e ambientalista. Ambiente, sicurezza, lavoro dignitoso, così come la ricerca costante di una pratica sindacale unitaria, l’autonomia sindacale o meglio indipendenza sindacale dai partiti politici (seppur attivista e militante politico) negli anni delle correnti e delle “cinghie di trasmissione”: sono i punti cardinali della sua azione e attività sindacale a cui sino all’ultimo ha dedicato il massimo impegno.
Nel suo pensiero ambiente, tutela del territorio, industrializzazione rispettosa delle regole e della qualità della vita sono inscindibili. E queste idee, la capacità di farle vivere sindacalmente e politicamente tra lavoratrici e lavoratori, l’hanno portato ad essere eletto nella segreteria Cgil di Avellino nel 1992 e nel 1994 a divenirne segretario generale. Con le Cgil di Benevento, Campobasso, Foggia e Potenza avvia un protocollo per lo sviluppo infraregionale. Diventa punto di riferimento nella Cgil e della sinistra sindacale nel territorio e nella regione per il suo rigore morale, onestà e sobrietà, e per la visione di cui era portatore atta a promuovere il rilancio delle zone interne della Campania e del Mezzogiorno.
Da giugno 2001 entra nella segreteria regionale campana, dove continua ad occuparsi di ambiente e territorio, di dissesto idrogeologico con la tragedia della frana di Sarno e quella di Quindici di Nola, di tutela del territorio da inquinamento e rifiuti, di ciclo integrato delle acque. Si occupa anche di politiche attive del lavoro. Con grande intuito e capacità di innovare, sviluppa una serie di convenzioni con l’Università Vanvitelli di Caserta e con la Federico II di Napoli, per corsi di formazione e approfondimenti tematici rivolti a delegati e giovani funzionari sindacali su ambiente, ecologia e sviluppo sostenibile. Apre una vertenza sulla messa in sicurezza della centrale nucleare del Garigliano. Riconosciuto per il suo rigore e per la sua capacità di lavoro, nel novembre 2008 gli viene chiesto di occuparsi della categoria dei servizi e del commercio. Poi la malattia, che dal 2016 l’ha colpito, gli ha impedito di completare il percorso iniziato e portato avanti con tanti sacrifici personali e familiari. “Vi amo immensamente, avrei voluto farlo ancora e meglio”: con questo messaggio, scritto sul suo profilo facebook nel momento della consapevolezza della imminente fine, ha voluto salutare i suoi compagni. Questo era Raffaele Lieto!
**Eduardo Pizzo, sinistra sindacale ottobre 2022
Dirigenti politici e sindacali
Un ruolo fondamentale lo hanno avuto i luoghi della partecipazione attiva, espressione di una intensa cittadinanza democratica, che sono state le sezioni dei partiti (fino a qualche anno fa) ed in qualche modo anche gli oratori delle parrocchie, spesso delle vere e proprie palestre di formazione e di partecipazione consapevole, anche con funzioni di selezione delle classi dirigenti a livello locale, con lo studio, l’impegno e la militanza (si pensi ad esempio alla mobilitazione domenicale per la diffusione e per le feste de l’Unità). Gli uomini e le donne in carne ed ossa erano gli attori ed animatori volontari in tante città. Pensiamo a realtà come Aversa dove la Sezione del PCI era collocata nel centro storico, proprio a fianco del comune). Le funzioni di guida, di direzione e di organizzazione venivano svolte da figure come l’on. Angelo M. Jacazzi e la sorella Maria Teresa, (una delle prime donne ad essere elette in consiglio comunale), entrambi con ruoli di spicco a livello provinciale e nazionale. Molto attivi erano anche alcuni giovani provenienti dal movimento studentesco, come Bruno Lamberti, Tommaso Pagano, due sindacalisti del settore trasporti come Mauro Andreozzi ed Aniello Coscione.
Nella vicina S. Maria CV si distinsero il dott. Armando Del Prete, una vera autorità morale e professionale nel campo della sanità, insieme con il sen. Francesco Lugnano, divenuto Presidente della Commissione Antimafia nel Parlamento. Infine, Umberto Barra che ha diretto l’organizzazione del PCI in anni difficili, fino a diventare Consigliere Regionale, e Raffaele Laurenza fondatore del sindacato pensionati a livello provinciale.
A Maddaloni nel passato vi è sempre stata una certa vivacità nella vita politica e sociale, grazie alla presenza di alcune personalità come il sen. Salvatore Pellegrino (protagonista nelle lotte per le terre incolte), il sen Ferdinando Imposimato (il giudice sceriffo). Qui, come in altri centri della conurbazione casertana, vi sono state anche significative lotte in difesa dell’ambiente, alcune delle quali hanno fatto registrare delle vere e proprie sconfitte, come nel caso dello scempio e della devastazione delle Colline Tifatine, a seguito di scelte politiche fondate sulla speculazione edilizia, spesso in connivenza con la criminalità organizzata. Infine, non si possono dimenticare alcune figure di amministratori e di sindaci intorno a cui si animarono intere comunità: vedi Silano Tarigetto a Macerata Campania, Arcangelo Vastano a Capodrise, Leopoldo Cappabianca ed Antonio Simoncelli a S. Maria CV, Antonio Romeo a Sparanise e Alfonso Vitalba a Lusciano.
In quegli anni la sinistra ed il movimento operaio hanno marcato una forte presenza nei comuni dell’area aversana, prima con le lotte bracciantili e contadine; poi con la spinta operaia delle grandi fabbriche industriali e multinazionali (dalla Indesit alla Texas Instruments), come Mimì Verde. Sono tanti gli esempi di militanti che possiamo ricordare, che hanno fatto la storia del movimento sindacale: dai capilega di Parete e Lusciano (come Stefano Capone, G. Maiale e Pietro di Sarno, storico leader della potente Federbraccianti) fino ai vari leader metalmeccanici dei Consigli di fabbrica dell’area Gricignano, Carinaro e Teverola. Un riferimento va fatto anche al medico chirurgo e scrittore Enzo Girone, nativo di Aversa e vissuto a Caserta negli anni ’50.
Anche nelle zone interne si registrano casi analoghi: nel vairanese con il capolega Giuseppe Costanzo e nel matesino con i protagonisti delle lotte nelle aziende agroalimentari delle PP SS e della Cirio.
Per finire con Santo Pastore, dirigente della Filcea il sindacato dei chimici, e Giovanni De Santo, proveniente dall’Alfa Romeo e componente della Segreteria Provinciale, senza dimenticare Ruggero Cutillo e Riccardo de Filippo, da poco scomparsi. Tra il gruppo di giovani, che prima animarono la FGCI e poi si impegnarono nel sindacato, ricordiamo a Capua Enzo Ligas, prematuramente scomparso, Amedeo Marzaioli (da poco scomparso, nella CGIL comprensoriale e poi responsabile formazione e archivio della CGIL Campania), Antonia Bianco, poi dirigente della funzione Pubblica CGIL). Nella zona di Capua Nord vi era un forte nucleo operaio alla Vavid di Pastorano con Nino De Gennaro e a Vitulazio con Ambrogio Cioppa, leader del CdF Italtel e Fiom Cgil.
Negli anni’80 la Provincia di Caserta venne investita da un processo di modernizzazione e di trasformazione produttiva, che modificò gli assetti sociali senza riuscire ad intaccare e modificare gli assetti di potere politico/amministrativo, che rimase ben saldo nelle mani della DC e dei suoi alleati. In quegli anni vi furono grandi lotte sindacali per rivendicare politiche innovative di sostegno allo sviluppo locale e per riqualificare l’occupazione. Basti pensare che allora qui si insediarono alcune delle più importanti imprese manifatturiere, grazie ai fondi ed incentivi della Cassa del Mezzogiorno, che fecero delocalizzare nelle aree ASI del Sud anche grandi multinazionali, oltre che gruppi privati nazionali e del settore delle partecipazioni statali. Addirittura Caserta divenne per dimensione ed addetti il secondo Polo dell’Elettronica civile dopo Milano: per questo venne definita come una sorta di “Brianza del Sud”. In quella fase alla guida delle tre confederazioni sindacali si alternarono alcuni dei dirigenti storici del movimento sindacale, spesso di grande carisma ed anche di prestigio culturale: a partire dal socialista Antonio Piccolo, che guidò la CGIL insieme con Paolo P. Broccoli e Gino Guadalupo (oggi impegnato nel CAI), fino ai leader storici della CISL e dei cristiani sociali, come Salvatore Caristo, Ciro Adinolfi, Raffaele De Mizio (leader della FLM). In una fase successiva, quando si avviò un processo di ristrutturazione industriale, alla guida del sindacato (in particolare della CGIL) ritroviamo alcuni dirigenti provenienti da salde esperienze di livello regionale e nazionale, come Salvatore Staiano e Massimo Montelpari che divennero segretari provinciali, provenendo da strutture napoletane.
Nel mondo delle associazioni di categorie vanno ricordati Pasquale Vernile e Mimì Sciorio dirigenti della Alleanza Contadini (oggi si chiama CIA), molto attivi anche sul piano politico nelle zone del carinolese e del sessano. Tra i contributi più notevoli dedicati alla storia di Terra di Lavoro vanno menzionati gli studi e le ricerche pubblicati negli ultimi decenni, che ci guidano e ci aiutano a fare luce anche su alcune comunità locali. Ora ci dedichiamo ad alcune opere significative e ad alcuni lavori di narrazione e di ricostruzione dei contesti territoriali. Possiamo cominciare dalle importanti pubblicazioni e dalle opere pionieristiche di Corrado Graziadei, di Peppino Capobianco e di Carmine Cimmino, che si integrano con gli studi di storici di livello nazionale come i prof. Guido D’Agostino, Franco Barbagallo ed Aurelio Lepre. Ritornando al contesto locale ritroviamo gli studi e le ricerche fondamentali di Olindo Isernia, di Felicio Corvese, Gianni Cerchia e Paola Broccoli, che rappresentano degli affreschi illuminanti su interi periodi storici, come quelli del Risorgimento e della Resistenza. Non da meno sono le opere di Giuseppe Pasquariello a Caserta su socialismo e antifascismo ed a Capua e dintorni; come pure i lavori di Carmine Cimmino e Salvatore Delli Paoli dedicati alla zona di Marcianise; fino a quelli di Bruno Iorio e Carmelo M. Greco sulla vita letteraria e teatrale nella conurbazione tra Caserta e Maddaloni. Se ci spostiamo nel Basso Volturno abbiamo le narrazioni e rievocazioni di Mario Luise e Alfonso Caprio su Castel Volturno, nell’area Domiziana ed in quella dei Mazzoni (Basso Volturno).
Teresa Nato + Antonia Bianco
Luigi Santoro + Santo Pastore
Mario De Rosa + Salvatore Staiano
Giovanni De Santo

 

Cultura e coesione sociale
La cultura come fattore di coesione sociale. Gli intellettuali
Bruno Schettini. Un maestro di educazione per la cittadinanza
A poco più di un mese dalla sua scomparsa abbiamo sentito il bisogno di ricordare in modo corale Bruno Schettini, Vice Preside della Facoltà di Psicologia della SUN, un amico ed un compagno – come lui preferiva definirsi – ma soprattutto un maestro di educazione per la cittadinanza. A poco più di un mese dalla sua scomparsa il 1° febbraio 2012 nella piazza del sapere della Feltrinelli di Caserta ci siamo incontrati con tanti colleghi, provenienti da tutta Italia. Con Bruno ci siamo conosciuti agli inizi degli anni 2000, in una stagione molto intensa per i temi dell’educazione degli adulti, quando venne varata l’importante normativa nazionale in coerenza con gli indirizzi comunitari sul lifelong learning. In particolare abbiamo condiviso una esperienza molto intensa all’interno del Comitato Regionale EDA, varato dalle giunte di centro sinistra nel decennio. Sicuramente è stato uno dei luoghi più intensi e produttivi delle politiche di concertazione in materia di istruzione e formazione. In quel periodo, grazie ad una fase ricca di partecipazione e di elaborazione, con il confronto tra istituzioni e forze sociali, sono state definite le Linee Guida per l’EDA – uno dei pochi casi tra le regioni italiane.
In quella fase l’esperienza campana si confrontò con le migliori “buone pratiche” nel campo dell’apprendimento permanente, sia a livello nazionale ma anche europeo. In merito vanno ricordati i viaggi di studi organizzati con la partecipazione dei maggiori esperti per conoscere ed approfondire le realtà più avanzate in materia di EDA: dalla Svezia alla Norvegia, dalla Spagna alla Francia, dalla Finlandia al Portogallo. Sono state occasioni di crescita e di arricchimento culturale, nelle quali Bruno interveniva con entusiasmo e curiosità, con la voglia e l’umiltà di apprendere sempre, caratteristiche del vero studioso, senza alcuna supponenza di tipo accademico. In lui era forte il bisogno di collegare il suo lavoro di ricercatore e di studioso con il mondo che lo circondava: ogni sforzo era teso ad avvicinare quei rapporti – non sempre facili in Campania – tra università e territorio. Provenendo da Napoli, mi aveva chiesto un aiuto per facilitare le sue relazioni con il mondo delle imprese e dei sindacati, ma soprattutto con la rete di associazioni del terzo settore e del volontariato, a cui non faceva mancare mai il suo contributo.
Per questo obiettivo da anni si era battuto per dotare la SUN di una struttura dedicata a sviluppare le attività di apprendimento permanente, aperta all’esterno. Con grande soddisfazione era riuscito a completare tutte le procedure necessarie per avviare il Centro di Ateneo – grazie all’apporto del Rettore e dei Presidi delle varie facoltà. Aveva ricevuto anche l’incarico di coordinare e dirigere il Comitato Scientifico preposto a programmare le attività. Non a caso il primo progetto realizzato è stato quello di avviare un percorso con seminari dedicati ai grandi protagonisti dell’EDA – che lui aveva raffigurato e sintetizzato in modo brillante in un albero con tutti i grandi maestri della pedagogia sociale. Ora questi seminari si stanno realizzando nella piazza del sapere della Feltrinelli di Caserta. Purtroppo lui ha avuto modo di partecipare solo al primo incontro per la presentazione del progetto, che noi continueremo a portare avanti anche in omaggio al suo apporto straordinario.
In conclusione è utile ricordare i tratti salienti della sua biografia di uomo e di studioso: professore straordinario di pedagogia sociale, era anche membro del collegio dei docenti della scuola di dottorato in Filosofie e Scienze Umane dell’Università di Verona e Direttore del Ce.Ri.Form (Centro Ricerca Interventi e Formazione di Benevento), di cui dirigeva la collana “Quaderni di Ricerca”. Tra le sue pubblicazioni vanno ricordati i due Rapporti di ricerca dal titolo: “Il progetto SAPA - Regione Campania. Pubblici resistenti e domanda sociale debole” (QdR1, 2009) e “Quale governante per l’educazione degli adulti in Campania” (QdR2, 2009). Sempre al tema della governance nel 2010 ha curato e dato alla stampa per la ESI il volume a più voci: “Governare il lifelong learning. Prospettive di educazione degli adulti”. Va segnalata la sua traduzione di uno dei libri fondamentali di Ettore Gelpi dal titolo “Lavoro futuro. La formazione come progetto politico”, e la pubblicazione del volume dedicato a Paolo Freire su “Educazione, Etica, Politica”, Liguori 2008.
runo era anche molto attivo in campo internazionale, in particolare nel Mato Grosso in Brasile, nel Sud America, in Europa e a Malta. Qui aveva avuto relazioni e scambi professionali con alcuni dei più autorevoli studiosi in pedagogia sociale (da Peter Mayo a Paolo Freire, da Ettore Gelpi a tanti altri). Bruno sovente parla a noi di libertà. Ne parla attraverso il valore di quanti morendo sanno farsi artefici di libertà. Riprendo un passo della sua relazione tenuta a Perugia, in occasione del Fantasio Festival, il 25 aprile 2009.
Credo sia una necessità impellente dare un senso alla nostra morte, non tanto alla nostra vita, ma alla nostra morte, perché al di là delle credenze che ciascuno di noi può avere c’è un senso immanente che dobbiamo necessariamente dare alle giovani generazioni che ci interpellano, che è il senso del come moriamo, posto che quando uno muore non può fare più tesoro della sua esperienza di morte ma certamente può dare un’esperienza agli altri. Solo chi muore per un’aspirazione di libertà è un facitore di libertà. E io credo che morire per la testimonianza di democrazia cognitiva, o politicamente per la libertà, perché nessuno possa mai esercitare il potere dell’uomo sull’uomo, sia una gran bella morte.
Queste parole oggi vivono in noi di altra luce. Grande l’eredità che Bruno lascia a noi di Amica Sofia, avendo appreso da Bruno la grande lezione dell’educazione come pratica di libertà, sempre in costruzione nello svelamento continuo di ciò da cui esplicitamente e/o occultamente dipendiamo. Nello stesso tempo risalta la sua passione etica e civile, di una persona che non separava mai la sua attività di studioso da quella di un militante impegnato in tante battaglie civiche, con una partecipazione attiva alle varie iniziative sociali promosse sul territorio, in primo luogo del mondo de lavoro e del terzo settore: Negli ultimi anni era particolarmente attivo ed interessato alle attività del sindacato e del volontariato. In tal senso sono emblematiche le testimonianze delle sue presenze alle iniziative di Amica Sofia e della Pedagogia in piazza a Frattamaggiore; del sostegno ai soggetti più deboli ed emarginati nelle carceri minorili o per gli immigrati di Castel Volturno – dove riuscì ad organizzare un convegno internazionale su Paolo Freire). Per dare continuità a questa ricerca sarà compito dell’università – attraverso la sua Facoltà di Psicologia e del Centro di Apprendimento Permanente della SUN – continuare l’approfondimento scientifico della sua opera, per far emergere i tratti salienti di Bruno Schettini, di docente sempre aperto al dialogo con i suoi allievi, di studioso rigoroso e di ricercatore “glocale” – un neologismo che gli piaceva molto – nel campo delle scienze umane e filosofiche.
Per ora ci rimane solo un rammarico: constatare la scarsa attenzione e partecipazione al questo nostro sforzo collettivo – vorrei dire “corale” – da parte della SUN, in particolare della Facoltà di Psicologia, a cui Bruno aveva dedicato tanto lavoro e tanta passione di studioso e ricercatore. E questo ci dimostra quanto siano ancora difficili i rapporti del mondo accademico con il territorio, in primo luogo con le forze più vive ed attente ai temi dello sviluppo locale e dell’innovazione. Per cercare di colmare questo divario Bruno aveva impegnato le ultime sue forze per la costituzione del nuovo Centro di Apprendimento Permanente (CAP), che ora speriamo si mostri all’altezza degli obiettivi strategici da lui indicati: da un lato, educare alla cittadinanza attiva e alla partecipazione consapevole; dall’altro, formare le competenze per uno sviluppo ecosostenibile e per la coesione sociale.
L’agorà dedicata a Bruno Schettini. In una fase di crisi dei valori dell’etica politica, acquista un particolare significato la decisione della conferenza dei capigruppo di dedicare una commemorazione solenne nell’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale dell’11-09 per ricordare la figura di Bruno Schettini, in attuazione di una precedente Delibera della Giunta.
Come è stato ricordato dai vari saggi contenuti nel volume “Educare alla cittadinanza democratica. Tra teoria e prassi – Ediesse”, la testimonianza di personalità del mondo culturale ed accademico come il prof. Schettini (Vice preside della allora Facoltà di Psicologia) è di grande attualità per il suo ruolo di studioso eminente e di ricercatore rigoroso della pedagogia sociale (noto ed apprezzato in tutto il mondo). Nello stesso tempo ripropone con forza una scelta di campo di chi decide di aprire i saperi e le conoscenze alla comunità dei vari contesti territoriali, al mondo sociale, del lavoro e del volontariato, a cui Schettini ha dedicato sempre tanta attenzione e cura. Il suo insegnamento può servire da sprone per ricostruire nuove forme di collaborazione tra alta formazione, università e contesti locali tesi a promuovere azioni di sviluppo e di innovazione. Schettini può essere considerato come espressione di un neoumanesimo, come figura tesa a costruire ponti tra discipline e saperi diversi (interculturale), che considerava la “formazione come progetto politico” (dal titolo di un bel libro di Ettore Gelpi,da lui tradotto in Italiano). Quando abbiamo deciso insieme di dare vita alle piazze del sapere (pochi mesi prima della sua scomparsa), ci tenne a caratterizzare questa originale esperienza come una occasione per promuovere la cultura come bene comune, come fattore di coesione sociale, di apprendimento permanente e di partecipazione consapevole.
La nobile decisione del comune di Caserta segue altri importanti attestati e riconoscimenti già avvenuti in queste settimane: con il conferimento della cittadinanza onoraria da parte del comune di Piedimonte Matese, con il convegno nella sede prestigiosa del CNR di Roma e con la targa consegnata proprio ieri ad Oliveto Citra nel contesto del prestigioso Premio meridionalistico Sele d’Oro (insieme ad altre personalità illustri). La decisione assunta dal comune di Caserta – su proposta di alcune associazioni della rete delle piazze del sapere, dell’Auser Caserta e di Carta 48 - pone anche degli obiettivi concreti di promozione civile e culturale, a partire dalla intitolazione della piazza interna della grande biblioteca civica – che si chiamerà “Agorà Bruno Schettini” – e dall’intenzione di sostenere delle borse di studio per giovani laureati della SUN sui temi dei diritti nell’era della conoscenza, in collaborazione con il Rettore e il Dipartimento di Psicologia, per la cui realizzazione saranno chiesti contributi anche da altri enti (come la Camera di Commercio) ed eventuali imprese come sponsor.
Carmine Cimmino, uno storico socialista
In un saggio denso di empatia (pubblicato nella sua Rivista Storica) Nicola Terracciano ha delineato un profilo biografico di alto spessore dedicato a Carmine Cimmino, uomo politico socialista dedito ai beni comuni, educatore e promotore culturale, storico e ricercatore sociale di grande valore. Si inizia con la sua data di nascita il 25 maggio 1934 a Capodrise (allora frazione di Marcianise), paese agricolo di circa 5.000 abitanti, vicinissimo a Caserta, legato soprattutto alla cultura del tabacco – e prima ancora della canapa. Apparteneva ad una distinta famiglia di professionisti (il padre Antonio era docente), nella quale la cultura e l’impegno civile erano stati sempre valori fondamentali: si pensi ai legami di parentela col poeta Elpidio Jenco (a cui Cimmino dedicò un numero della sua rivista) ed alla militanza a sinistra nel secondo dopoguerra della stessa madre di Cimmino Francesca Moriello nell’Unione donne Italiane (UDI). L’influsso materno fu fondamentale, avendo Carmine perso il padre quando era ragazzo ed era rimasto solo con la sorella Carmina e la zia materna Maddalena. Mentre i Moriello erano originari di Capodrise, la famiglia paterna veniva da Frattamaggiore (Provincia di Napoli) ed il nonno Francesco era un noto professionista.
Incisero sulla sua formazione anche l’esempio dello zio sacerdote don Carmine Moriello (da cui il nome), di tendenze progressiste, che svolse il suo ministero anche negli stati Uniti, ed i legami con l’altro zio materno Federico, funzionario di banca, che giovanissimo si era trasferito a Milano e con cui la famiglia Cimmino ebbe sempre un rapporto costante ed intenso.
Frequentò gli studi a Caserta presso il Liceo Classico P. Giannone, iniziando a coltivare già allora i primi interessi storici e letterari, stringendo amicizie che conservò per tutta la vita, come quella con i fratelli Gaglione, l’avv. Valerio ed il giudice Massimo. Oscillando nella scelta tra studi di giurisprudenza ed umanistici, si iscrisse infine alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Federico II di Napoli, si laureò in Lettere Classiche, ma con una tesi in storia con il prof. Enrico Pontieri, che colse già allora la spiccata vocazione alla ricerca di Carmine ed avrebbe voluto che rimanesse nell’ambiente universitario. Ma per esigenze di famiglia dovette subito dedicarsi all’insegnamento, non tralasciando tuttavia la sua fondamentale vocazione di ricercatore e storico. Fino al termine della carriera è stato docente di italiano e storia negli istituti secondari superiori (in modo particolare presso l’ITIS di Marcianise), con una dedizione pedagogica che lo distingueva per la capacità di coinvolgere gli alunni dentro e fuori l’aula, data la sua vasta cultura ed esperienza. Era solito portare gli alunni in visita agli archivi ed ai musei, facendoli così uscire da un’ottica solo nozionistica o aridamente scolastica.
Lo stimolo culturale che promanava dalla sua personalità si estendeva nell’ambiente scolastico anche sui colleghi, che traevano dall’amicizia e dalla frequentazione con lui spunti e stimoli di arricchimento didattico e culturale. Molti colleghi hanno partecipato nel tempo ad alcune delle tante iniziative ed animazioni educative da lui promosse. La sua natura pedagogica trapassava dalla scuola alla società locale e Carmine avrebbe voluto che i giovani coltivassero di più l’interesse culturale e la passione civile. L’impegno politico fu precoce ed assorbente, tanto che aderì giovanissimo al PCI, diventando animatore di battaglie locali, sociali ed amministrative nella dura situazione degli anni cinquanta, quando la militanza costava in termini personali e familiari. Non aveva ambizioni da burocrate o da professionista politico, ma sentiva preminente e fondamentale solo il dovere dello schierarsi e del lottare in modo disinteressato a fianco degli umili e dei subalterni, per la loro emancipazione sociale e culturale, anche contro le linee ufficiali del partito, allora su posizioni staliniste sia a livello centrale che periferico.
Pur dopo l’uscita drammatica dal Partito, i militanti di base della sinistra capodrisana continuarono a mantenere una stima affettuosa verso quell’intellettuale che – pur di estrazione piccolo borghese – tanto aveva dato alla causa del socialismo e quando si presentò alle elezioni nelle liste del PSI, al quale nel frattempo aveva aderito, ebbe sempre un ampio consenso della base e la vicinanza affettuosa e fedele di compagni, come il prof. Mastroianni. Anche gli avversari politici lo stimavano per il suo stile corretto e mai aggressivo, come ricorda il suo amico prof. Andrea De Filippo. Oltre che consigliere, Carmine fu a Capodrise anche assessore ai lavori pubblici nei primi anni ottanta.
Noti erano il suo rigore e la sua dedizione al bene comune. La passione politica non venne mai meno anche dopo la crisi del partito socialista e fino alla fine seguì le vicende della sinistra, attento a che i valori nobili ed imperituri della tradizione socialista di Turati e Matteotti, di Pertini e De Martino non andassero perduti o smarriti. Aveva la religione laica della vita come serietà e lavoro, per cui anche quando si recava nell’amata Formia portava con sé materiali di ricerca da riordinare o scritti da completare. Aveva deciso di andare in pensione con qualche anno di anticipo proprio per potersi dedicare in modo più costante alla ricerca e completare tanti lavori che aveva avviato. L’instancabile ansia di lavoro non lo abbandonò nemmeno negli ultimi giorni, quando avanzava l’inesorabile male, piegandosi a correggere le ultime bozze del testo che doveva completare e lo fece con l’annata 1994 della sua amata Rivista.
Le stesse amicizie più tenaci e più profonde erano quelle che in qualche modo si legavano alla sua assorbente ed egemone vocazione intellettuale ed alla sua sensibilità civile e politica (es. Alosco, Aragno, Compasso, De Majo, Di Biasio, Di Donato, Isernia). Sapeva essere amico in modo riservato, ma sincero e generoso. Dedicando le sue migliori energie alla ricerca storica e a suscitare incessanti iniziative culturali, si segnalò nel 1974 con il fondamentale volume Democrazia e socialismo in Terra di lavoro (1861-1915). Due anni dopo fondò la Rivista Storica di Terra di Lavoro, che ha diretto fino alla morte, e più tardi nel 1978 promosse il comitato di Caserta dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, di cui assunse la Presidenza. Cimmino ha aperto nuovi sentieri non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche da quello metodologico, nella ricerca della storia moderna e contemporanea di Terra di Lavoro, entità storico-territoriale dall’estensione interregionale, se si pensa che inglobava anche i distretti di Gaeta, di Sora e di Nola. Con lui la storia locale è uscita dal municipalismo, dal dilettantismo, dall’episodicità per elevarsi finalmente a livelli di rigore, di apertura, che si ritrovano nella più seria ricerca universitaria.
Resta come un demoralizzante segnale di incapacità a valorizzare le migliori energie il fatto che pur con la sua rilevante produzione scientifica, non gli siano state aperte le porte dell’università, così larghe a volte per tanti mediocri. All’interno di interessi di storia locale, nei versanti della demografia e dell’economia, egli ha scoperto e messo in circolazione fonti prima ignorate, tra le quali la fondamentale statistica Murattiana del 1811, pubblicata nella Rivista e poi nel volume Suolo, risorse, popolazione di Terra di Lavoro nel Risorgimento del 1978, sia nella relazione generale che in quelle distrettuali. Essa permette una ricognizione minuta della concreta vita quotidiana della gente nella provincia per quanto riguarda le abitazioni, l’alimentazione, il vestire, le malattie e le condizioni di lavoro. Accanto alla Statistica si pone come fonte privilegiata per una nuova storia provinciale la stampa periodica, vera miniera di conoscenza storica, alla quale Cimmino dedicò ricerche particolari, come Stampa periodica in Terra di Lavoro (1840-1927) del 1988. È stato il mondo delle classi umili, di quelle subalterne, che Cimmino ha inteso mettere al centro della ricerca storica, della memoria collettiva, in una concezione della storiografia come militanza etico-politica.
Ed anche il suo interesse risorgimentale si legava profondamente a questo sentimento popolare di riscatto, nel voler rintracciare e riproporre le figure alte e nobili di quanti erano stati protagonisti a livello provinciale della costruzione dell’ethos risorgimentale come combattenti incarcerati o che avevano pagato con la vita e i beni la dedizione agli ideali. L’occhio dell’indagine si allargò anche all’Italia postunitaria per seguire le vicende della politica, nel suo versante di lotta sempre a favore delle classi subalterne, espressa dai rappresentanti di sinistra, dai primi deputati socialisti nelle forme cooperativistiche, comunque associative, attraverso cui le classi lavoratrici di Terra di Lavoro avevano cercato di far sentire anche la loro voce, vivendo il loro protagonismo storico accanto alle altre classi sociali.
Così si spiega il suo costante interesse verso la vicenda socialista locale e regionale, che dal citato primo lavoro si estende alla cura degli scritti politici di Francesco De Martino, ai saggi pubblicati presso gli editori Laterza e Guida nel 1992, ed al saggio pubblicato nell’ultimo numero della Rivista del 1994 Economia e Socialismo a Napoli e in Campania dalla fine dell’’800 al fascismo. Il socialismo fu sempre da lui inteso (e tenacemente rivendicato contro i tradimenti degli opportunisti socialisti di tangentopoli) fino agli ultimi giorni di vita come “quanto di più nobile l’uomo può proporsi di realizzare nella vita e trasmettere alle generazioni future”. Rivendicò il valore di una tradizione che resta “per quel che di più alto essa ha voluto rappresentare: il miglioramento delle condizioni di vita, l’innalzamento dei livelli culturali delle masse popolari, delle città come delle campagne, e la trasformazione in senso democratico dei vecchi regimi e delle vecchie istituzioni liberali” (Rivista 1994).
Ebbe la stima e l’amicizia di docenti universitari non solo a lui vicini (come Pisanti, Scirocco e Villani), ma di varie parti del Paese. La storia fu la sua grande passione, a cui dedicò le migliori energie e tutti i mezzi possibili, con una dedizione quotidiana incessante, che si esprimeva non solo nei lunghi tempi trascorsi presso gli Archivi di Caserta, di Capua, di Napoli, ma anche nella promozione di tante iniziative, coinvolgendo nella ricerca amici locali ed organizzando convegni, tra i quali furono notevoli quello di Arpino su Economia e società civile nella Valle del Liri nel XIX secolo del 1981 e quello di Vairano-Caianello su Garibaldi del 1982, raccolti in preziosi volumi.
Pur interessandosi a tutta l’area di Terra di Lavoro da Arpino a Isola Liri (di cui aveva studiato le singole vicende industriali dagli inizi ottocenteschi fino al suo tracollo dopo un secolo) a Sessa Aurunca, a Mondragone, un sentimento particolare espresse con lavori specifici verso il paese natio Capodrise e verso la contigua Marcianise, sede del suo lavoro di docente e del suo impegno culturale.
Ma l’interesse storiografico riguardava anche Napoli, la Campania e il Mezzogiorno in generale. La sua casa era un laboratorio storico, dove aveva sede la rivista, si spedivano le varie pubblicazioni legate alle sue iniziative, si andava costituendo una biblioteca-archivio, che è diventato un patrimonio storico e culturale preziosissimo. Inoltre, è stato vincitore del concorso su titoli bandito dal Ministero PI per l’assegnazione presso l’istituto Regionale di Ricerca, Sperimentazione ed Aggiornamento della Campania. La Rivista Storica di Terra di Lavoro – Semestrale di studi storici ed archivistici da lui fondata – ha ottenuto il riconoscimento da parte del Presidente del Consiglio come pubblicazione di alto valore culturale.
Ha collaborato con Caserta Economica – Rivista Mensile della Camera di Commercio di Caserta ed alla Rassegna Storica del Risorgimento. È stato tra i fondatori e direttore responsabile della rivista Storia Meridionale Contemporanea. Ha insegnato Storia Sociale del Mezzogiorno presso la scuola Superiore dei Servizi Sociali di Caserta. Ha tenuto attività di aggiornamento in queste di relatore presso l’ITIS di Marcianise sul tema “La Questione meridionale”. Attraverso l’Istituto per la storia del Risorgimento ha organizzato il corso su Storia nazionale e storia locale – metodologia e didattica, come direttore e relatore, rivolto agli insegnanti di scuola media superiore. Ha tenuto conferenze e dibattiti a Capua sulla storia della città millenaria ed il suo agro nel Settecento e Ottocento, a Piedimonte Matese su il movimento radicale in Terra di lavoro 1876-1990, a Guardia Sanframondi sulla cittadina sannita in età francese, a Frosinone su trasformazioni industriali nella Media Valle del Liri nell’età moderna e contemporanea, con Scirocco, Rubino, De Majo, Viscogliosi, Pescosolido, Dell’Orefice e Mancini. Ha organizzato presso i licei della Provincia di Caserta conferenze sulla criminalità organizzata ieri e oggi, con Silvio De Majo.
Ha collaborato al dibattito organizzato dalla rivista Meridiana, diretto da P. Bevilacqua, su gli “Orientamenti sulla più recente storiografia sul Mezzogiorno in età risorgimentale”. Ha partecipato con sue relazioni ai seguenti convegni: XXVII congresso nazionale di storia della medicina nel 1975 con la comunicazione su Condizioni igienico-sanitarie e livelli di vita ed alimentazione della popolazione di Terra di Lavoro nell’età del Risorgimento; al congresso dell’Istituto per la Storia del Risorgimento a Viterbo nel 1978 con la comunicazione su Lanifici nella Valle del Liri nell’Ottocento; Istituto di Studi Storici “G. Salvemini” di Messina con la relazione su Economia e socialismo in Terra di Lavoro nell’età giolittiana; Istituto di Studi Storici “G. M. Galanti” a S. Croce del Sannio (BN)con la comunicazione su Agricoltura, attività manifatturiera e pluriattività a Piedimonte MT nell’Ottocento. Infine, ha affrontato con dignità e coraggio la tragica esperienza della malattia, con l’amore ed il conforto fino ai suoi ultimi istanti di vita della moglie Virginia, a cui era legatissimo. È morto il 17 novembre del 1994 destando unanime e commosso cordoglio.
Bruno Iorio. Il profilo di uno studioso di alto valore
Qualche mese dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 2003, il periodico Nuovo Meridionalismo – a cui Bruno Iorio collaborava – gli dedicò alcuni commenti di amici e colleghi. In primo luogo ne delineò i caratteri di un intenso profilo umano e dello studioso. Bruno Iorio, nato a Maddaloni (CE) il 16.8.1950, ricercatore confermato in prima tornata, con decorrenza giuridica 1.8. 1980 (Storia delle Dottrine Politiche) presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Napoli, è stato docente di Storia delle Istituzioni politiche nella Facoltà di Economia dell’Università degli Studi del Molise negli anni accademici dal 1991 al 1996. Dal 1996/’97 ha insegnato Storia del pensiero politico contemporaneo presso la medesima Università. Dal 1993 al 1995 ha tenuto anche il corso di Storia delle istituzioni politiche nell’ambito del D. U. Scuola per assistenti sociali dell’Università del Molise. Dall’anno accademico 1998/99 ha insegnato Storia dei partiti e movimenti politici nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Federico Il Napoli. Poi ha partecipato all’attività del Dipartimento di Scienze dello Stato: il 27/04/1999 ha tenuto una lezione dal titolo "Modello romano e modellò italico alle origini del liberalismo risorgimentale" nell’ambito del seminario istituzionale organizzato dal Dipartimento sul tema "Il potere tra Centro e Periferia".
Allievo di G. Santonastaso, il prof. B. Iorio ha proseguito i suoi studi con il prof. R. Campa, interessandosi in prevalenza del pensiero politico italiano e non, moderno e contemporaneo. Ha dedicato una prima serie di lavori alla ricostruzione del pensiero italiano durante gli anni del fascismo (saggi su Croce, Gobetti, Gramsci, recensioni sulla “Nuova Antologia”). Da segnalare ancora sulla “Nuova Antologia” un contributo su Aristotele e il giusnaturalismo antico (1976). Seguono una serie di ricognizioni sul pensiero di Nietzsche inteso quale punto di riferimento essenziale per la comprensione del nostro tempo; a Nietzsche sono stati dedicati due lavori: Crisi del pensiero rappresentativo, Napoli 1981, e Oltre il politico: F. Nietzsche, Napoli 1983 (ora ristampati insieme con il titolo Su Nietzsche).
L’interesse per il problema della teologia politica si è precisato nella monografia dedicata a C. Schmitt, pubblicata nei Quaderni della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università federiciana nel 1987 (segnalata nell’ultimo volume di N. Abbagnano-G. Fornero, Storia della Filosofia, UTET 1995; ora anche in C. Galli, Genealogia della politica, Bologna ‘96). Nel solco dell’analisi della dottrina controrivoluzionaria si colloca il lavoro su Giacinto de’ Sivo, ormai giunto alla Il edizione, (‘88/’90). Di questo pensatore e storico controrivoluzionario, lo scrivente ha curato la ripubblicazione de L’elogio di Ferdinando Nunziante (1852), testo poco conosciuto ma estremamente importante per la ricognizione del panorama contro rivoluzionario italiano (Salerno 1989). Nel 1995 ha curato la riedizione dell’importante ‘ G. de’ Sivo, Discorso pe’ morti del Volturno (1861), con introduzione e note critiche. Sono da ricordare ancora i saggi su Merlino (1983), su Dorso (1987), su Sturzo (1988). A fianco di questi vanno segnalate le relazioni al Convegno dell’Università di Napoli su “Guerra e pace” 1985, al Convegno internazionale dell’Università di Roma su “A. Tilgher” 1988, al Convegno napoletano sulla “Democrazia in Italia”1989, al Convegno promosso ancora a Napoli dalla rivista “Progresso del Mezzogiorno” sul tema “Storia e valori”, 1990: la relazione presentata sulla filosofia politica di N. Abbagnano è stata pubblicata negli atti (1992). Poi ha pubblicato il saggio Usurpazione e rivoluzione in Locke, Napoli 1990 e il volume La falsa libertà, Napoli 1990: una analisi del rapporto tra religione crociana della libertà e liberalismo protestante.
Il prof. B. Iorio ha collaborato alle seguenti riviste: "Progresso del Mezzogiorno", "Nuovo meridionalismo", "Civiltà aurunca" e al periodico "Orizzonti". Ha partecipato a numerose conferenze e dibattiti su temi di politica e cultura. Ha tenuto il corso di Storia delle Dottrine Politiche nella Scuola di Formazione politica dell’Istituto di Scienze religiose “Giovanni Paolo Il” a Cerreto Sannita (BN), nell’a.a. 1989/’90; ha tenuto anche lezioni alla Scuola di formazione civica di Napoli nell’anno 1990 e di Teano (CE), nel 1991 e nell’anno seguente 1992. Nel 1991 ha pubblicato il volume Politica del Gattopardo (premiato al XV Minturnae), ha ottenuto il Premio della cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il premio V. De Caprariis per la saggistica. Ha partecipato in quell’anno al Convegno “Crisi della modernità” (Napoli 24/25 ottobre 1991) con una relazione su A. Del Noce (ora in AA. VV., Filosofia e democrazia in A. Del Noce, Roma 1993). Ha anche collaborato alla pagina culturale del quotidiano "Roma" di Napoli. Ha partecipato nel 1992 al Convegno internazionale su G. Ferrero (LUISS Roma/Napoli 3/4/5 dicembre 1992) e al Convegno organizzato dalla Università di Campobasso (1 6.10.1992) in occasione dei Cinquecento anni dalla scoperta dell’America (la relazione è citata in M. Cacciari, Geo filosofia dell’Europa, Milano 1994). In seguito venne anche pubblicata la seconda edizione de La falsa libertà, che divenne un’autentica mappa del pensiero liberale del nostro Novecento (1995).
Ha partecipato nel novembre 1993 a Caserta alle Giornate di studio in occasione delle celebrazioni per il 1500 anniversario della traslazione del Capitolo Cattedrale. La sua relazione è stata incentrata sull’opera di Giacinto de’ Sivo di cui è stata proposta una prima integrale lettura dell’opera omnia (ora ESI 1995). Negli ultimi tempi lavorava ad una ricerca sulla prima polemica antipartitocratica nel nostro Paese (Maranini, Sturzo, Perticone, ecc.). Polemica in cui si trovano numerosi spunti di grande attualità, purtroppo ignorati e dimenticati. Un primo abbozzo è stato pubblicato in Tre studi sulla società aperta, Loffredo, Napoli 1996 (con altri contributi di A. Omaggio e A.M. Rufino). Dal 1990 ha tenuto periodiche conferenze seminariali di Storia delle istituzioni politiche europee presso l’Istituto superiore per Interpreti e traduttori di Maddaloni. Ha partecipato nell’ottobre 1996 al Convegno Napoletano su Giovanni Amendola a 70 anni dalla morte. Collaborava al quotidiano "Roma" di Napoli e "Avanti!". Ha curato la ristampa di G. Amendola, La democrazia in Italia dopo il VI aprile 1924 (Loffredo ‘98) e pubblicato la lezione tenuta a Campobasso ai dottorandi in Istituzioni giuridiche, ed evoluzione economico-sociale. Il ruolo del Centro nel sistema politico italiano (Prog. Mezz. l/’ 98). Infine è stata stampata la riedizione da lui curata del Primato napoletano di Giacinto de’ Sivo.
Ha insegnato per l’anno accademico 2002/2003 Scienze Politiche al Master organizzato dall’UNISOB sede Salerno. Ha tenuto un modulo didattico sul tema "Autorità e famiglia" per il Corso di perfezionamento post laurea in “Mediazione Familiare” - UNISOB-Napoli. Nello stesso tempo, Generoso Benigni lo descrive con queste parole: “Conobbi Bruno Iorio alla fine degli anni ottanta, nell’ occasione di un convegno organizzato da Nuovo Meridionalismo, per ricordare Guido Dorso. I ricordi si affollano e si confondono: una giornata dedicata a Vittorio De Capraris, un convegno ad Eboli, un incontro nella biblioteca di Maddaloni, una manifestazione a favore di un referendum, talvolta insieme al comune amico Tommaso Pisanti”. Bruno è stato tra l’altro un profondo studioso del pensiero politico e giuridico di Carl Schmitt. E il suo approdo alla democrazia liberale nasce da un’analisi scientifica e puntigliosa di tutte le teorie, che costituiscono le premesse a volte inconsapevoli dei totalitarismi.
L’adesione al liberalismo di Bruno Iorio non è adesione viscerale od intuitiva; è il punto di arrivo di una ricerca approfondita, rigorosa, che si rinnova quotidianamente, quasi come "una sfida" nell’intento di individuare quali regole possano guidare una comunità civile. Le regole non saranno mai perfette, saranno soltanto quelle che conterranno meno errori rispetto alle altre. Nei suoi scritti, cosi come nei suoi discorsi, Bruno Iorio non è mai "categorico" e cioè non comunica agli altri certezze assolute; comunica le conclusioni delle sue ricerche e – quel che è più importante – spiega sempre il processo logico, che egli ha percorso per pervenire a quelle conclusioni. La metodologia di B. Iorio è nel solco della migliore tradizione laica e volterrana di mettere il dubbio al centro della ricerca, perché l’uomo e lo studioso sono sempre alla ricerca della verità, e mai potranno raggiungerla. È questa consapevolezza di laica imperfezione, che guida l’intellettuale con spiccata preferenza per la politica a ricercare continuamente le ragioni dell’impegno e delle scelte; e rimettere in discussione ogni giorno le scelte fatte, per farne di diverse, se occorre, o per rafforzarne le motivazioni nel confronto con l’esperienza della storia e della vita.
Quel che ci ha sempre colpito in Bruno Iorio, quasi come una connotazione incredibilmente singolare del suo modo di essere saggista e politico, era ed è là sua capacità di distinguere il rigore scientifico del ragionamento scritto o parlato negli studi filosofici e politici, dai suoi sentimenti personali e dalle sue convinzioni ideali. È davvero straordinaria questa capacità di Bruno di apparire freddo e distaccato nell’elaborazione dei suoi ragionamenti, pur essendo nell’anima persona di incredibile sensibilità.
Bruno, infatti, accanto al prevalente impegno di docente universitario (Professore di Storia dei Partiti Politici presso la facoltà di Scienze Politiche della l’Università Federico II di Napoli) ha scritto di storia, di filosofia, di letteratura, di arte e soprattutto di politica, ma non solo per approfondire e studiare i fatti politici del passato e del presente. Egli è stato un "intellettuale organico", che più volte nei suoi saggi ha offerto alla politica suggerimenti e soluzioni ai problemi concreti della società contemporanea. E non si è limitato soltanto a scrivere, rimanendo al di sopra ed al di fuori della mischia: quando il suo grande cuore gli ha suggerito di impegnarsi ancora più direttamente, ebbene Bruno non ha avuto esitazioni a scendere direttamente in campo con il giovanile furore della sua anima candida. Si è candidato con il partito radicale nelle elezioni politiche, per partecipare attivamente e direttamente alla competizione. Lo ha fatto, senza secondi fini, con la nobile convinzione che le idee non bisogna soltanto professarle, occorre confrontarle con gli altri, sottoporle alla valutazione degli altri. Ed ha voluto mettere in discussione, partecipando ad una elezione politica, anche la sua persona di cittadino, che non ha mai "nascosto" le sue idee e le sue convinzioni, anche quando il conformismo dominante della classe intellettuale gli avrebbe dovuto "consigliare" altre scelte con altre "terrene" finalità.
Ed ha pagato di persona il prezzo del suo sconfinato amore per la "Libertà"! Ricordiamo Bruno nell’intimità della sua biblioteca, quasi custode di cose semplici e buone. Ricordiamo di lui la spontaneità, quasi fanciullesca, del marito felice e orgoglioso (grazie… Annamaria!). Ricordiamo il padre tenero ed a volte entusiasta, anche perché Giuseppe gli appariva più concreto, come forse egli riteneva di non essere stato. Ricordiamo, infine, l’amico candido ed ineguagliabile: grazie Bruno perché ti abbiamo conosciuto! Infine, è utile riportare anche alcuni brani del testo di Toni Iermano :“In ricordo di uno studioso e di un amico”. Egli ricorda con emozione che in una lontana serata del dicembre 1989 nella sala del Consiglio Provinciale di Caserta si presentava il volume di autori vari Benedetto Croce e la cultura del Novecento. Alla discussione parteciparono Raffaello Franchini, Tommaso Pisanti, Giuseppe De Nitto, Mario Giordano, Toni Iermano e Bruno Iorio. “In quella occasione ebbi modo di conoscere Bruno e di apprezzare da subito la sua generosità e intelligenza critica. Parlammo a lungo della presenza del pensiero crociano nella società italiana del primo novecento e, ospite della sua casa colma di libri, della cultura meridionale dell’Ottocento e dello storico borbonico Giacinto De’ Sivo, un conterraneo verso il quale il Nostro, sulla scia di una remota sollecitazione crociana, nutriva un anticonformistico e mai nostalgico interesse.
Tra i miei libri conservo Un “eroe” borbonico, la ristampa dell’Elogio che De’ Sivo dedicò al generale Ferdinando Nunziante, apparsa a cura di Bruno, pei tipi di Galzerano editore nell’ormai lontano 1988. Così continua il suo racconto: “A Caserta, credo fosse l’inverno del 1998, presentammo e discutemmo insieme la ripubblicazione di Napoli a occhio nudo di Renato Fucini nella Biblioteca del Seminario Vescovile. Come sempre anche in quell’ occasione concordammo su vari argo menti del dibattito storiografico meridionalistico. Parlammo anche dell’opera narrativa di Anna Maria Ortese e mi colpì ancora una volta la vasta competenza letteraria di Bruno. Le sue riflessioni si orientavano, infatti, verso lo studio del pensiero politico europeo ma non trascuravano il campo dell’indagine meridionalista, coltivata con passione e vigore. Da sincero e leale studioso di problemi politici non nascondeva le sue idee né il suo interessamento per la vita pubblica. A differenza di tanti qualunquisti, memore delle riflessioni del Croce di Etica e politica, preferiva poco censurare l’andamento della pubblica amministrazione per dedicarsi, invece, alla concretezza del proprio lavoro intellettuale”.
Una conoscenza robusta del pensiero liberale classico portava B. Iorio a condividere una tradizione in cui s’intrecciavano rigore etico e sensibilità verso le questioni sociali, religione della libertà e profonda vocazione al rispetto delle regole della democrazia. In questa direzione notevole resta la sua indagine sulla riflessione politica di Carl Schmitt e sulle teorie del totalitarismo, raccolta nel volume Cari Schmitt e la nostalgia del tiranno, edita a da Giannini nel 1987. Un contributo incisivo e duraturo su una questione che ha incuriosito e sollecitato l’intelligenza critica di Iorio nel corso degli anni. Con questo richiamo letterario, si conclude il ricordo di Iermano: “Croce in una pagina dedicata ai trapassati ha scritto che la nostra vita non è altro che un correre alla morte, alla morte dell’individualità. Per chi come Bruno Iorio ha dedicato tutta la propria breve ma operosa esistenza alla scienza della politica nel nome della sincerità e della buona fede resterà opera, distante e vivente, oramai, dall’ineluttabile scomparsa della fragile esistenza”.
Tommaso Pisanti, studioso di letteratura americana e docente universitario
Come sono stati ricordati sul sito www.liberalsocialisti.org nel 2013, da qualche anno è scomparso a Caserta il prof. Tommaso Pisanti, docente universitario di letteratura anglo-americana, dantista, traduttore, comparativista, raro testimone e promotore di vita culturale e civile. Con lui si è spenta una vivida e preziosa luce di cultura vera, di umanità rara, di appassionata tensione civile. Tommaso Pisanti ha incarnato da testimone indimenticabile quella Italia civile, seria, operosa, partecipe, umbratile, che non sale nelle cronache clamorose superficiali, che affollano e stordiscono il quotidiano, ma che sola mantiene ed alimenta il fondo etico di una società, di una nazione, come l’Italia, esposta nella sua storia recente a tanti sbandamenti, a tanti smarrimenti. Tommaso amava profondamente questa nostra patria italiana repubblicana liberale e democratica, erede di quel Risorgimento che ne aveva realizzato le fondamentali premesse e condizioni storiche di unità e di costituzionalismo, dopo secoli di divisione, di soggezioni straniere, di dispotismi vari.
Circolava nelle sue vene anche sangue garibaldino, avendo avuto un avo volontario combattente ai Ponte a Valle di quella Maddaloni che era la sua città natale (1930), sempre nostalgicamente e caramente presente nella sua memoria, benché avesse poi scelto di risiedere a Caserta, il capoluogo della provincia amatissima, studiatissima, percorsa paese per paese (i suoi memorabili “micro viaggi”, ricchi di esperienze e lezioni a volte più dei “macro viaggi”), ma sempre vicina a Maddaloni. La patria italiana, la nazione italiana, il loro destino, la loro memoria nobile, il loro progresso e la loro modernità erano stelle polari e aspirazioni del suo universo umano, morale, civile, culturale ed aveva scelto di assumere come figura centrale del suo primo, ma costante impegno di studioso e di animatore culturale, la solenne figura di Dante, il creatore della lingua italiana, padre del nostro popolo e insieme uno dei geni della letteratura universale. Su Dante Pisanti ha scritto opere fondamentali e originali, come quella sulla sua presenza nella letteratura americana, altro suo fondamentale settore di impegno di studioso, che lo ha portato poi a raggiungere e ad assumerne la cattedra universitaria presso l’Università di Salerno.
Pisanti è stato dirigente della “Società Dante Alighieri”, ha fatto della sua casa la sede del Comitato provinciale con sua moglie, la prof.ssa Rosa, forza e conforto della sua vita, di rara sensibilità, distinzione, cordialità umana, di grande finezza culturale, profondamente consonante con gli interessi vari e vasti man mano coltivati dal suo Tommaso, il cui prodigioso lavoro di saggista e di traduttore non si può comprendere senza quella costante, diuturna, forte vicinanza.
A nome della “Dante Alighieri” Pisanti ha portato in varie città del mondo, con predilezioni verso i paesi scandinavi, la dignità, l’altezza della cultura italiana con la luce vivida della sua intelligenza critica, che sapeva sovranamente con sapienza, forza e chiarezza muoversi sui più complessi e vari temi, dominando come pochi non solo la letteratura italiana e quella anglo-americana, ma anche e profondamente le letterature greca e latina, francese, spagnola, tedesca. Da quei viaggi sapeva trarre non solo arricchimenti e relazioni culturali e personali, ma anche preziosi e illuminanti indicazioni e spunti più generali sul carattere dei popoli conosciuti, ampliando le spettro della sua sensibilità e della sua visione dell’umano colto sempre più nella sua poliedricità (perciò l’attrazione sempre più fervida con studi e traduzioni verso l’altro grande genio della letteratura mondiale, Shakespeare) e ne faceva partecipi con calda generosità e festosità gli amici che, con sincerità e fedeltà, lo frequentavano e attorniavano tra Caserta, Minturno, Formia, dove era solito trascorrere con gioia e distensione le sue estati.
La curiosità del più vasto mondo, accanto a quella locale, per la cara Terra di Lavoro, nella sua storica ampia configurazione dall’estremo Lazio meridionale all’area nolana, si innestava anche sulla grata memoria del padre emigrante temporaneo tra Europa ed Africa e si era concentrata sul singolare mondo americano, così nodale e decisivo nella storia novecentesca e attuale del mondo. Pisanti ha esplorato e illuminato con saggi e libri memorabili la letteratura, la cultura e quindi la sensibilità e la visione del mondo e gli ordinamenti delle colonie americane, prima subalterne all’Inghilterra monarchica, poi divenute Stati Uniti repubblicani liberi e indipendenti con memorabile rivoluzione e con più memorabile Costituzione, che ebbe l’ardire di porre accanto alla centralità della libertà, della democrazia, del federalismo, il più memorabile rilievo dell’umana individualità, col diritto riconosciuto solennemente a realizzare finanche la felicità.
Poter realizzare il proprio destino, la propria vocazione, poter vivere liberamente la propria fede, poter espandere nel modo più ampio possibile la propria personalità creando un contesto, una società che ne potessero assicurare il raggiungimento e non essere o divenire invece ostacoli o nemici di esse, sono state e restano le stelle polari del mondo americano, verso cui Pisanti, libero di animo e di mente, ha rivolto costantemente, quasi naturalmente, lo sguardo di profonda curiosità e di approfondimento, contribuendo a sostituire l’immagine superficiale e deformata della letteratura americana (e quindi del mondo americano, spesso ridotto al film western e alla coca cola) con una visione filologicamente e criticamente più fedele, più vera, quindi più feconda di positivi effetti culturali, civili, anche politici, per l’Italia e l’Europa, malati di esiziali, sempre incombenti, etnocentrismi.
Quel vasto mondo di spazi e natura, poi di progressi economici e tecnologici straordinari, che nemmeno con l’immaginazione si può cogliere, ma solo vivendolo o visitandolo da costa a costa, dall’Atlantico al Pacifico, lentamente e attentamente, come hanno fatto Tommaso e Rosa, ha visto configurarsi un tipo di umanità maschile e femminile, una società singolari, con limiti e contraddizioni, ma con una caratteristica forza, una energia mobilitata al diapason, di immigrati religiosi e non, che avevano rotto definitivamente, col viaggio senza ritorno, con l’Europa degli assolutismi religiosi, politici, degli irrigidimenti e degli immobilismi sociali ed economici, contrapponendosi programmaticamente e sistematicamente ad essi. Tommaso sapeva bene che quell’individualismo estremo, nel mentre esaltava giustamente la libertà, la individualità, la personalità, aveva reso daltonici rispetto al valore dell’eguaglianza, vista sempre come antitetica alla libertà, ma pagandolo con tragiche cadute costanti nella discriminazione, razziale e sociale, e nell’abbandono al pauperismo e alla emarginazione di fasce vaste della popolazione.
Perciò la sua predilezione andava verso le società scandinave, dove i valori della libertà, della individualità, della dignità personale, della democrazia non erano mai disgiunti dai valori della solidarietà sociale, della non emarginazione, compiti di uno stato liberale e democratico, ma anche di ispirazione socialista e cristiana, incarnato ed esaltato dai governi specialmente a guida socialdemocratica.
Egli è stato politicamente insieme liberale e socialdemocratico, dalla giovinezza e fino alla fine, cogliendo in quelle posizioni, con acutezza profetica, specialmente contro le tragiche ubriacature socialcomuniste che guardavano a Mosca stalinista, la loro storica superiorità in termini umanistici, sociali, economici, civili, culturali. Abbiamo avuto modo di conoscerlo tardi, in alcuni incontri sulla letteratura organizzati nella Piazza del Sapere della Feltrinelli, di cui fu uno dei primi entusiastici sostenitori, sempre partecipe con il suo acume di studioso rigoroso e pieno di curiosità. In particolare ricordo la serata che organizzammo in omaggio a lnge Feltrinelli con il video libro a lei dedicato, che attraversava la storia della cultura italiana e mondiale. Anche in quella occasione non tralasciò di interloquire con la prestigiosa editrice.
Certamente alla sua biografia si connota bene il carattere che abbiamo inteso dare alle iniziative delle Piazze del Sapere, luoghi aperti, di promozione della vita culturale e della conoscenza. Possiamo dire che queste caratteristiche lo avvicinavano molto ad un altro intellettuale di spessore, morto poco prima di lui, quale fu Bruno Schettini, pedagogista sociale e intellettuale “glocale” (come lui amava definirsi), con le radici sempre ben piantate nella identità della sua terra ma con lo sguardo rivolto alla dimensione complessiva del mondo. Di sicuro questo fu il tratto saliente anche di Tommaso, che ci ha offerto tanti studi e ricerche sulle culture di altri mondi, a partire da quelle molto frequentate del continente americano. Basta scorrere la sua ricca bibliografia da cui emerge una sua attività critica in chiave prevalentemente comparatistica. Tra la sua produzione letteraria annotiamo: Poesia del Novecento americano (1978), Dantismo americano (1979), Il sogno di Olav e altra poesia norvegese (1983), Il ghiaccio e il fuoco (1986), Tutto il teatro di Shakespeare, Spoon River e altro Novecento (1990}, Le poesie di E.A. Poe (1990), I “saggi” di Emerson, L’un lido e l’altro. Circolazione dantesca e altri saggi (1993), Storia della letteratura americana (1994), Il fragile schermo. Incontri e confronti di letteratura comparata (1997), oltre a opere su F.S. Fitzgerald e di Virginia Woolf. Ha tenuto incontri e conferenze in Italia e all’estero. Pisanti, già docente di letteratura nordamericana alla Università di Salerno, è stato un insigne dantista, critico, saggista, traduttore A connotare il prestigio a lui riconosciuto anche a livello nazionale basta ricordare il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri; nel 1990, il premio “Minturno” per il giornalismo culturale. In tal senso va il ruolo svolto nel Consiglio nazionale della “Dante Alighieri”.
Come è stato sottolineato da un suo critico, per Pisanti “leggere è un atto doveroso per chi voglia essere veramente una uomo persona adulta, capace di interpretare gli eventi e di partecipare al loro svolgersi come cittadino attivo, consapevole e responsabile”. Giustamente egli riteneva che chi non legge e studia rimane un analfabeta della mente e dell’anima. Al riguardo si distingue un suo preziosissimo, essenziale (di appena 96 pagine, ma dense di cultura e di sapere) libro su ‘Storia della letteratura americana’, pubblicato nel 1994 dalla casa editrice romana ‘Newton Compton’ nella collana ‘Tascabili economici’ al prezzo di 1.000 lire, oggi meno di un euro. Questo saggio, dall’angolatura letteraria, ma ricco di preziosi riferimenti sulla storia civile e politica, offre un contributo preziosissimo per cogliere il volto vero, il profondo dell’anima americana, della storia americana, dalla prima emigrazione degli inizi del Seicento alla fine del Novecento.
Franco Carmelo Greco, una vita per la letteratura ed il teatro
Come viene documentato nel bel Blog che gli è stato dedicato dagli eredi, Franco Carmelo Greco, nato a Napoli il 2 marzo del 1942, dal ’50 al ’53 è stato con la famiglia in Argentina. Rientrato in Italia, ha completato le scuole medie a Sessa Aurunca in provincia di Caserta e ha frequentato il biennio del ginnasio in seminario a Benevento. Ha poi completato il liceo e ottenuto il diploma di maturità classica all’”Umberto” di Napoli. La famiglia si è spostata a Caserta nei primi anni Settanta. Tra il ’64 e il ’68 Franco Carmelo Greco è stato studente universitario. Si è laureato con lode in Lettere (indirizzo classico), discutendo con Salvatore Battaglia una tesi in Letteratura italiana su L’attività teatrale di G. B. Della Porta, in seguito divisa e pubblicata in quattro saggi. È divenuto titolare di cattedra di Italiano e Latino nei licei nell’anno ’73-74, ma il primo incarico di insegnamento, a Tora e Piccilli (in provincia di Caserta), risale al ’69-70, seguito da alcuni altri incarichi temporanei di docenza presso il Liceo Classico “Giordano Bruno” di Maddaloni e in altri istituti della provincia di Caserta. Nel frattempo, Greco ha vinto una Borsa di studio presso l’Istituto internazionale per la ricerca teatrale e la Fondazione “Giorgio Cini” di Venezia, successivamente una Borsa di ricerca e perfezionamento del Ministero della Pubblica Istruzione, biennale e rinnovabile, della quale godere presso la I Cattedra di Letteratura italiana dell’Università di Napoli, dove Aldo Vallone era subentrato allo scomparso Salvatore Battaglia. Greco ha percorso, fino al conseguimento della cattedra, le tappe intermedie del “cursus” universitario: borsista, assistente volontario, contrattista (dal ’74-75), assistente incaricato ed assistente ordinario (dal ’75 al ’77), poi docente associato di Letteratura teatrale italiana e infine di Storia del teatro moderno e contemporaneo, disciplina della quale è divenuto docente di ruolo presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Prima dell’istituzione per iniziativa di Greco, in una città dalla straordinaria tradizione teatrale come Napoli, non esisteva un insegnamento di storia del teatro.
Nelle lezioni universitarie di Franco Carmelo Greco, tra le più seguite e affollate del corso di laurea in Lettere dell’ateneo federiciano, sono stati costantemente coinvolti attori, registi, autori teatrali di fama nazionale e internazionale (Dario Fo, Leo De Berardinis, Toni Servillo, Geppi Glejeses, Luca De Filippo, Tato Russo, Mariano Rigillo, Enzo Moscato, Mario Martone, Maurizio Scaparro). Nell’ateneo federiciano e presso il Teatro di San Carlo, Greco ha promosso, nel marzo del 1985, una due giorni per ricordare Eduardo De Filippo a quattro mesi dalla morte: il convegno Eduardo e Napoli/Eduardo e l’Europa, in collaborazione con Università di Roma e Azienda Turismo. Greco ha inoltre ricostituito il CUT – Centro Universitario Teatrale “L’Arsenale delle Apparizioni” dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, del quale è stato responsabile scientifico. Nel 1989 ha fondato, presso il Teatro Bellini di Napoli, un’Accademia d’arte drammatica e l’ha diretta per un anno. Ha fatto parte del Comitato scientifico del Dottorato di ricerca in Italianistica dell’Università di Napoli e di quello in Storia del teatro dell’Università di Salerno (in convenzione con l’Istituto Universitario Orientale di Napoli). È stato docente del Corso di Perfezionamento in Discipline del Cinema, della Musica e del Teatro presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. È stato, infine, ripetutamente membro della Giunta del Dipartimento di Filologia Moderna dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Dal 1987 ha diretto la collana dell’”Archivio del Teatro e dello Spettacolo” per le Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli. Nel 1994 ha assunto la funzione di consulente scientifico della Bellini Editrice e ne ha diretto la collana “I preziosi”, per la quale sono usciti I pazzi di Roberto Bracco, Malìa di Luigi Capuana, Rosaura rapita di Salvatore Di Giacomo, Lucilla Costante di Silvio Fiorillo. Per la stessa collana, Greco ha curato e introdotto la sua traduzione con testo a fronte de L’isola degli schiavi di Marivaux, messo in scena nello stesso anno (1996) da Giorgio Strehler. Ha redatto un profilo del Teatro italiano del secondo Ottocento e uno del Teatro italiano del Novecento per l’editore Bollati Boringhieri di Torino, nel IV volume del Manuale di letteratura italiana, a cura di Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo (Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 995-1013 e pp. 1014-1080). Tra le sue pubblicazioni vanno ricordate: Teatro napoletano del ’700. Intellettuali e città fra scrittura e pratica della scena. Studio e testi, Napoli, Pironti, 1981; La tradizione ed il comico a Napoli dal XVIII secolo ad oggi, vol. IV di La scrittura e il gesto. Itinerari del teatro napoletano dal Cinquecento ad oggi, Cataloghi delle Mostre, 5 voll., Napoli, Guida, 1982; Il Teatro del Re. Il San Carlo da Napoli all’Europa, in collaborazione con G. Cantone, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987; Quante storie per Pulcinella/Combien d’histoires pour Polichinelle, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988; Pulcinella. Una maschera tra gli specchi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990; Pulcinella maschera del mondo. Pulcinella e le arti dal Cinquecento al Novecento, Napoli, Electa, 1990; La pittura napoletana dell’Ottocento, Napoli, Pironti, 1993; Eduardo e Napoli. Eduardo e l’Europa, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993; La scena illustrata. Teatro, pittura e città a Napoli nell’Ottocento, Napoli, Pironti, 1995; Doninzetti. Napoli. L’Europa, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000; I Percorsi della scena. Cultura e comunicazione del teatro nell’Europa del Settecento, Napoli, Luciano Editore, 2001.
Numerosi altri saggi sono comparsi su periodici letterari e artistici o in volumi miscellanei curati da altri studiosi: l’elenco è nella sezione di Bibliografia. Animatore culturale e appassionato organizzatore di rassegne spettacolari, di convegni e mostre, Franco C. Greco ha diretto l’Associazione e centro studi “Teatro Incontro”, fondata nel 1973, e l’Archivio del Teatro e dello Spettacolo, costituito nel 1982 presso la Cattedra di Letteratura teatrale italiana e poi attivo presso quella di Storia del teatro moderno e contemporaneo. Ha allestito varie mostre sul teatro: sulla commedia dell’arte, in collaborazione con Franco Mancini, nel 1982, curando il relativo Catalogo (Napoli, Guida, 1982); sulla tradizione teatrale a Napoli e il comico, nello stesso anno, curando il relativo Catalogo (Napoli, Guida, 1982); ha curato il Catalogo della Mostra sull’attore a Napoli negli anni Ottanta (Il segno della voce, Napoli, Electa, 1989); ha allestito, presso il Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes di Napoli, una mostra su Pulcinella maschera del mondo. Pulcinella e le arti dal Cinquecento al Novecento (novembre 1990 – gennaio 1991), che ha avuto grande riscontro internazionale, e ne ha curato il Catalogo edito dall’Electa; su Titina De Filippo (Napoli, Teatro di San Carlo, settembre-novembre 1996), curandone il catalogo con Filippo Arriva (Napoli, Elio De Rosa, 1996).
Con l’Associazione “Teatro Incontro” e con l’Archivio del Teatro e dello Spettacolo Greco ha realizzato e allestito mostre d’arte e di scenografia, tra le quali: Illusione e pratica teatrale, in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, nel 1975 (catalogo curato da vari autori per le edizioni vicentine di Neri Pozza); spettacoli e rassegne di teatro e di musica (ultime in ordine di tempo: a Pasqua del 1992 gli Itinerari guidati nella musica della Napoli barocca di Ribera, parallelamente alla grande mostra su Ribera tenutasi in Castel Sant’Elmo di Napoli; dal dicembre 1992 all’aprile 1993 gli Itinerari guidati nella Napoli sacra, ciclo di concerti in trenta chiese napoletane riaperte alle visite, per il restauro di tre opere d’arte cittadine).
Inoltre, Greco ha collaborato con quotidiani, riviste e periodici; autore teatrale e radiofonico, ha realizzato spettacoli con Roberto Benigni, Marco Messeri, Paolo e Lucia Poli, Leopoldo Mastelloni, Lucio Colle e altri; per la RAI ha curato un ciclo di trasmissioni radiofoniche con Enrico Zummo, intitolato Teatri d’archivio, realizzato in collaborazione tra la Rai e l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Nel 1997 ha ideato e promosso un grandioso progetto (che poi non ha potuto portare a effetto) per una celebrazione teatrale del bicentenario della rivoluzione napoletana del 1799, in una collaborazione tra l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, il Comune di Napoli e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Il progetto, intitolato ‘A rivoluzione!, prevedeva una drammatizzazione della scena “rivoluzionaria” urbana attraverso una serie di spettacoli da scrivere e da rappresentare prima in ambito scolastico, in Campania e in tutto il sud Italia, poi nei luoghi storici legati alla memoria degli eventi rivoluzionari nella città di Napoli, insieme a conferenze, dibattiti, incontri, pubblicazioni, con dirette radiofoniche e televisive. La realizzazione del progetto avrebbe coinvolto, oltre agli istituti scolastici, anche le scuole e le accademie di teatro di Napoli, a partire dal Centro Universitario Teatrale della “Federico II”.
Nell’anno della improvvisa scomparsa a Napoli (il 19 agosto del 1998, all’età di cinquantasei anni), a Franco Carmelo Greco sono stati assegnati il Premio Utopia “Lamont Young” e il Premio PulciNellaMente (rassegna nazionale di teatro-scuola), alla prima edizione. Alla memoria dello studioso napoletano sono stati intitolati, a partire dalla stagione teatrale 2004/2005, una sezione del Premio Girulà – Teatro a Napoli, una sala del Teatro Comunale di Caserta e, ancora dal 2004, un premio della città di Caserta destinato a quanti, tra registi, attori, drammaturghi e studiosi, si siano distinti nell’attività e nel mondo del teatro. Il premio è stato assegnato, nella sua prima edizione, all’attore e drammaturgo Enzo Moscato, il 26 febbraio del 2004.
Ricercatore infaticabile ed entusiasta, scrittore, giornalista, organizzatore di eventi che hanno lasciato un segno nella vita culturale nazionale e internazionale, Greco è stato il primo docente di Discipline dello spettacolo nell’ateneo federiciano. Grazie a lui l’università scopriva il teatro, e con l’università moltissimi giovani e meno giovani, per i quali un immenso patrimonio di tradizione e di inventiva a Napoli e in tutto l’Occidente diventava improvvisamente un campo di analisi, di esplorazione e conoscenze. Nel corso del suo magistero, Greco, uomo eclettico e straordinario, ha incrociato e segnato inconfondibilmente la vita e la carriera di tanti. Come lo ha ricordato il suo collega ed amico Bruno Iorio (anche lui prematuramente scomparso), egli era intellettuale prima di tutto, avido, curioso, insaziabile di sapere, prolifico generatore di progetti, libri, riviste, conferenze, idee, spettacoli e ancora idee e ancora libri. “Fu giovane assistente di Battaglia, vulcanico, attivissimo, con i capelli mobilissimi, quasi cercava di afferrare e trasfigurare le cose dette ritrovandole già dinanzi al ragazzotto neolaureato con in testa l’Università (e Battaglia), ma più laico (più scettico), più mangia baroni e più mangia padroni, il mondo di ieri”.
Franco è stato protagonista di mille avventure e percorsi culturali, teatrali e non, nella sua Napoli nobilissima, a Caserta e all’estero, progettista e artefice, rapido ed efficace, promotore di molte iniziative meritorie di letteratura ed arte d’alto profilo, fu in fine autore di libri prestigiosi che presto si diranno fondamentali.
Perfino negli ultimi giorni quanti appunti di lavoro consegnati a parenti ed amici: aveva ancora un progetto da ultimare, qualcosa da fare, una pietra da portare ancora a destinazione nell’interminabile edificio della cultura. Già, Franco conosceva bene la poesia di Mario Luzi (da Nel magma, Milano, 1966, p. 23) che apre la celebre Mitografia del personaggio di Salvatore Battaglia, uscita, guarda caso, nel ’68: “Anche tu sei nel gioco, anche tu porti pietre rubate alle rovine verso i muri dell’edificio”. Nessuno meglio di Franco ha espresso questa dura e sacrificata religione della cultura come costruzione interminabile, pietra su pietra, opera su opera, spettacolo su spettacolo, libro su libro, memorie degli ultimi strappate alle rovine e consegnate al futuro. In quello stesso anno su La Repubblica il critico Giulio Baffi lo definì “L’uomo che scoprì il teatro dimenticato”. E commentò che nessuno come lui conosceva i segreti percorsi che dal teatro del Quattrocento e del Cinquecento hanno portato fino ai nostri giorni un bagaglio prezioso di comicità.
Franco Carmelo Greco sapeva il perché della comicità irresistibile e incosciente di tanti attori entrati a far parte di una entusiasmante leggenda; conosceva la scrittura di autori noti a pochi, trascurati da molti, che con i loro canovacci e le loro commedie avevano posto le fondamenta di un teatro capace di attraversare i secoli giungendo fino a noi. La sua era una scrittura irruenta e complessa, colta e popolarissima. Il critico ricorda anche il rapporto che Greco aveva con gli studenti, con i giovani che seguivano entusiasti le sue lezioni di Storia del teatro alla Federico II. Fu spettatore attento di tanti avvenimenti di teatro, protagonista di incontri, dibattiti, convegni, seminari. Instancabile e tenace. Quello della cultura napoletana era territorio in cui era pronto a dar battaglia sorridendo. “Storico del teatro, allievo di Salvatore Battaglia, i suoi libri, i saggi, le preziose raccolte che ha pubblicato, e soprattutto il lavoro lungo e puntiglioso come docente, sono una testimonianza che ci rimarrà a lungo. Quando sarà impallidito il ricordo della sua allegra, irruenta, cordiale, amichevole presenza”. Concludiamo questo ricordo di Franco C. Greco con le parole di Toni Servillo, grande attore: “Franco Greco era capace di coniugare l’interesse per il teatro del ‘700 con quello contemporaneo. Ricordo quando portò Benigni a Caserta, lo fece dormire a casa sua… Quando ero con lui, nel suo studio pieno di libri, mi sentivo come in una zona franca assolutamente decontestualizzata e quindi sprovincializzata. Con Franco condividevo il suo proiettarsi in una dimensione nazionale… Perdere Franco è significato perdere un compagno di strada. Quando decisi ad esempio di affrontare la tradizione napoletana, molti dei miei coetanei, da Mario Martone a Enzo Moscato, storsero il naso. Lui, invece, mi incoraggiò ad una rilettura moderna. Poi gli altri seguirono a ruota. Dico questo per spiegare che “aveva le antenne”, capiva quale direzione prendere. Ed univa una grande vitalità ad un estremo rigore filologico».
Gabriele Marino, artista
Il mondo dell'arte è in lutto per la scomparsa del maestro Gabriele Marino. Aveva 85 anni quando ci ha lasciati nel mese di marzo 2022. Originario di Succivo, cresciuto a Napoli, casertano di adozione. Viveva a San Prisco. È stato annoverato dalla rivista “Flash Art” tra i cento migliori artisti degli ultimi quarant’anni in Italia.
Gabriele Marino è stato certamente una figura chiave della storia artistica contemporanea generatasi in Campania. Va ricordato che fece da tramite e ponte di congiunzione tra i movimenti sperimentali napoletani degli anni Sessanta e i primi tentativi innovativi in Terra di Lavoro. La produzione di Gabriele Marino, pur essendo stata sempre in linea con la ricerca artistica internazionale, non ha mai tradito le origini. Negli anni ’60 si lascia influenzare dalla pop art americana con la sua arte che si è trasformata in impegno nei decenni a venire. Fu esponente di spicco dei movimenti sperimentali sorti con l’impulso dell’impegno culturale e politico che aprì una stagione di rivolta — in senso camusiano — anche in Campania a metà degni anni ‘60 del secolo scorso. Col trascorrere del tempo ha elaborato un linguaggio sempre più raffinato, evocativo. Una produzione citazionista, che si connota per una ripresa ironica e spregiudicata di capolavori della storia dell’arte. L’artista riesce a stabilire un rapporto fecondo con la citazione o l’oggetto manipolato, esaltando la funzione del cambiamento di registro e la consapevole contraddizione tra la serietà del modello e l’ironia della sua elaborazione.
Biografia. Era nato ad Atella di Napoli, oggi Succivo, vicino ad Aversa che all’epoca si chiamava Atella di Napoli, ha sempre lavorato a Napoli, cogliendo le stimolanti e rivoluzionarie proposte artistiche che si imponevano con il boom economico e finendo per connetterle ai fermenti di innovazione che si affacciavano, in quegli anni, anche in Terra di Lavoro. Esercitò pertanto un ruolo fondamentale, assieme al fratello Livio detto l’Atellano, nella corale opera di ridefinizione del linguaggio artistico — che coinvolse pittori di eccellente caratura come Crescenzo Del Vecchio, Andrea Sparaco, Antonio De Core, Peppe Ferraro, solo per citarne alcuni — esplorando attraverso il registro espressivo dell’ironia e della provocazione il mondo della tradizione e quello misterioso, tutto da costruire, ma libero di volare sulle ali della immaginazione. Fu una stagione irripetibile, quella degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso (basti citare l’esperienza del collettivo Linea Continua) nel quale Gabriele Marino e gli altri suoi compagni di ventura trovarono fertili opportunità di affermazione, con espressioni artistiche emergenti, ma con le radici ben piantate nelle tematiche sociali più scottanti.
Basta ricordare le varie iniziative a carattere culturale, politico e sociale che lo videro protagonista nelle Feste dell’Unità nella Flora; come quelle di solidarietà dedicate ai popoli e ai movimenti di emancipazione liberazione del terzo mondo e del sud America, sempre affiancato da altri protagonisti di quel “rinascimento artistico” casertano, come il suo carissimo amico Andrea Sparaco. Gabriele ha dedicato molti anni della sua vita al mondo dell’arte e della pittura. Dalla metà degli anni sessanta che il maestro, classe 1937, atellano di nascita, napoletano di formazione e casertano di adozione, è partecipe e protagonista dei movimenti innovativi nel campo dei linguaggi visivi, con vasta eco a livello nazionale. È stato una figura chiave della storia artistica contemporanea generatasi in Campania. Facendo da ponte di congiunzione tra i movimenti sperimentali napoletani degli anni Sessanta e i primi tentativi innovativi in Terra di Lavoro, insieme con il suo grande amico e collega Crescenzo Del Vecchio. A Caserta i due trovarono in figure come Andrea Sparaco e Antonio de Core i compagni di strada ideali per dare inizio a una vera e propria rivoluzione dei linguaggi visivi in Terra di Lavoro. Tale cambiamento radicale ebbe inizio nella seconda metà degli anni Sessanta e durò per tutti i Settanta portando Caserta, in sinergia con Napoli, ai massimi livelli nazionali, grazie anche al contributo di un critico come Enrico Crispolti, scomparso proprio nei giorni scorsi, che tanto seppe valorizzare l’arte nel sociale.
In memoria di Mario Raffa, un innovatore
Come ha ben sottolineato il prof. Giuseppe Zollo (suo amico fraterno e collega universitario al dipartimento di Ingegneria della Federico II), Mario Raffa è stato uno dei soci fondatori di Aislo. Fin dall’inizio ha sempre prestato grande attenzione ed ha sostenuto con impegno professionale e scientifico le sue iniziative, con il suo costante apporto creativo per le start up di nuove imprese fatte da giovani talenti.
In particolare va ricordato il suo ruolo trainante negli incontri internazionali di studio tenuti in Puglia e in Campania (a Bari, Barletta e Napoli Città della Scienza) sul tema: “città, sviluppo e innovazione”. In tali eventi tenne delle vere e proprie lectio magistralis, coordinando vari gruppi di lavoro e seminari tesi a far emergere il nesso stretto tra saperi moderni e competenze da porre alla base dei processi di sviluppo locale e coesione sociale nei vari contesti locali e territoriali, in un’ottica di grande apertura con la globalizzazione.
Biografia. Mario Raffa nato a Calvi San Nazzaro (BN) il 17.03.46 laureato in Ingegneria elettrica nel 1973, entrò da subito nel CSEI - Centro Studi di Economia Applicata all’Ingegneria, presieduto dal prof. Luigi Tocchetti. La sua formazione e le successive attività didattiche e scientifiche sono state segnate da questa esperienza e dal lavoro svolto in quegli anni nella Fondazione Politecnica per il Mezzogiorno d’Italia, il cui scopo è stato quello di far crescere la cultura scientifica nel Mezzogiorno. Nello stesso periodo ha lavorato in un piccolo stabilimento campano di una multinazionale, con funzione di staff del direttore tecnico, con il compito di collaborare alla riorganizzazione della funzione qualità sotto gli aspetti tecnico-logistico e gestionali.
Ha successivamente lasciato l’industria privata avendo vinto una Borsa di studio in Economia applicata all’Ingegneria presso la Facoltà di Ingegneria di Napoli, dove ha intrapreso il percorso di ricercatore universitario svolto in Italia e all’Estero. In particolare alla fine degli anni 80 è stato Borsista CNR presso l'Università di Newcastle Upon Tyne (UK) interessandosi dei sistemi di impresa “a rete” e delle imprese ad alta tecnologia (telecomunicazioni, software, aeronautico, telematico, auto, elettronico in senso lato), che in quegli anni rappresentavano la frontiera della ricerca per sostenere lo sviluppo delle aree industriali investite dai processi di crisi, nonché per riorganizzare la Pubblica Amministrazione di fronte a questi cambiamenti. Successivamente ha trascorso periodi di studio e ricerca negli Stati Uniti, in Giappone, oltre che in numerosi paesi europei (Svezia, Olanda, Spagna) interessandosi del rapporto tra nuove tecnologie, professionalità e cambiamento organizzativo sia nelle aziende private che nella Pubblica Amministrazione.
Una particolare attenzione è stata dedicata da sempre alla Campania con riferimento ai fenomeni di trasformazione del suo apparato produttivo. Negli ultimi anni si è interessato di imprenditorialità, creazione di nuove imprese, spin-off quali elementi centrali per lo sviluppo del territorio. È stato Professore Ordinario di Ingegneria Economico-Gestionale presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli Federico II, dove ha presieduto Consiglio di Corso di Laurea in Ingegneria Gestionale (1995-2002), Coordinatore del Dottorato di Ricerca in Ingegneria Economico-Gestionale (16°-18° ciclo) e Direttore del Dipartimento di Ingegneria Economico-Gestionale (2000-2005). Dal 1974 ha svolto attività didattica senza soluzione di continuità presso la Facoltà di Ingegneria di Napoli; dal 1991 al 2004 ha insegnato anche presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Dal 1997 ha fatto parte del corpo docente della Scuola Estiva per giovani ricercatori dell’IFPMM di Salisburgo sul "Supply Chain Management" diretta da Attila Chikan, già Ministro dell’Economia ungherese negli ultimi anni.
È stato tra i fondatori dell’Ingegneria Gestionale in Italia e a Napoli e Presidente dell’Associazione italiana di Ingegneria Gestionale nel biennio 2003-2005. Inoltre è stato delegato italiano per il comitato "Research for the benefit of Small and Medium Enterprises” del 7° Programma Quadro e Vice presidente europeo dell'ECSB (European Council for Small Business), la principale associazione europea di imprenditori, ricercatori ed esponenti di istituzioni che si interessano di imprenditorialità, sviluppo e piccole e medie imprese. Nel passato ha ricoperto diversi incarichi scientifici tra i quali quello di Componente del Consiglio Scientifico del CERIS-CNR (Torino). E’ autore o co-autore di alcune centinaia di pubblicazioni. Fa parte dei comitati editoriali di numerose riviste tra cui Journal of Purchasing e Supply Management, Journal of Small Business Management ed è stato vice direttore di Small Business/Piccola Impresa. È stato iscritto e ha collaborato con diverse associazioni scientifiche nazionali ed internazionali: AICA, ANIPLA, AICQ, AiIG, ECSB, ICSB, IPSERA, OMA. È stato responsabile organizzativo/chairman di numerose conferenze nazionali ed internazionali tra le quali la Conferenza mondiale ICSB sulle Piccole Imprese "Innovation and Economic Development: The Role of Entrepreneurship and SMES" nel giugno del 1999.
Tra i fondatori della Fondazione IDIS, ne è stato Vice presidente fino al Marzo 2008. Attualmente era Presidente dell’Associazione Campania Start-Up, il cui scopo è quello di valorizzare i nuovi progetti di imprese mettendo in contatto i proponenti dei progetti con i possibili finanziatori privati.
Nel Governo Prodi ha fatto parte del Gruppo di Lavoro “Ricerca e Innovazione” della Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stato il delegato italiano per il comitato “Research for the benefit of SMEs” del 7° Programma Quadro (nel bienno 2007-2008).
Dal maggio 2008 al giugno 2011 è stato Assessore allo Sviluppo del Comune di Napoli.
Dal 2009 è White Wilford Fellow (primo italiano dal 1977, anno di istituzione del prestigioso riconoscimento da parte dell’ICSB – International Council for Small Business), per meriti scientifici, culturali e politici sui temi dell’imprenditorialità e della nascita e sviluppo di nuove imprese.
Dal 2016 è ECSB Fellows (primo italiano ad essere insignito di tale carica dall’European Council for Small Business and Entrepreneurship) per meriti nel campo della ricerca/insegnamento nell’imprenditorialità.
Fino all’ultimo la sua attività di ricercatore e di progettista dell’innovazione è stata molto intensa, in particolare a fianco delle imprese e dei giovani impegnati a creare start up innovative. E’ venuto a mancare l’11 marzo del 2022.
"Con la scomparsa di Mario Raffa, Napoli perde un grande innovatore che ha sempre reso protagonisti i giovani valorizzandone il talento. Una grave perdita per la città che non dimenticherà il suo apporto alla comunità da docente e amministratore pubblico". Così il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi.
Come viene ricordato in una nota del suo ateneo, il professore Raffa è stato il principale promotore dell'Ingegneria Gestionale presso il nostro Ateneo ed esponente di rilievo della scuola italiana di Ingegneria Gestionale, dedicandosi con ininterrotta passione ed entusiasmo ad ampliare la cultura tradizionale dell'ingegnere ai problemi del territorio e dell'impresa, sottolineando sempre che la ricerca scientifica e l'attività formativa hanno senso solo se riescono a creare un valore per gli altri, in primo luogo gli studenti e il mondo del lavoro. Tra i meriti più significati del professore Raffa vi è senz'altro la capacità di aver intuito, fin dagli anni ottanta, che l'università non deve svolgere solo attività di ricerca e formazione, ma deve direttamente impegnarsi nella diffusione della conoscenza per la crescita economica e sociale del territorio. È stato un precursore della Terza Missione, promuovendo la nascita della Start Cup Federico II, di cui è stato il primo direttore. In questo ruolo ha realizzato innumerevoli iniziative di trasferimento tecnologico e sviluppo imprenditoriale insieme ad associazioni culturali ed imprese.
E' stato sempre impegnato nella internazionalizzazione delle attività di ricerca, con particolare riferimento alle piccole imprese (ECSB/ICSB) ed alle catene di subfornitura (IPSERA). Negli oltre cinquant'anni di attività didattica e di ricerca è stato un fondamentale punto di riferimento per i colleghi e per gli studenti, che hanno avuto modo di apprezzare la capacità di mobilitare le persone e coinvolgerle in sfide sempre più rilevanti, nella convinzione che un innovatore ha l'obbligo morale di non accontentarsi mai dei risultati raggiunti, ma deve essere un centro motore di iniziative e di aggregazione sociale.
Il suo ricordo rimarrà sempre vivo nei colleghi e negli studenti ed in tutti coloro che hanno avuto l'occasione di condividere con lui momenti di lavoro e conviviali. Le sue doti umane e la sua dedizione all'istituzione universitaria saranno sempre di insegnamento per i suoi allievi.
In una nota di Aeropolis si sottolinea che Mario Raffa è stato uomo pubblico e perbene, un professore e un politico serio e disinteressato che ha promosso l’Ingegneria Gestionale presso l’Ateneo di Napoli Federico Il. Negli anni era diventato tra gli esponenti di rilievo della scuola italiana di Ingegneria Gestionale, in sala stasera molti, troppi che lo ritenevano un sognatore, un ingenuo, salvo oggi a riconoscergli lungimiranza e meriti. Pochi, quando era utile farlo, hanno condiviso e sostenuto i suoi sogni. AEROPOLIS lo aveva fatto e continua oggi ancora a farlo. Mario aveva sempre aiutato e apprezzato fin dalla fondazione la nostra associazione. Ne aveva condiviso lo spirito di servizio e l’interesse per i giovani e lo sviluppo dell’economia di un territorio come quello napoletano mortificato, prima tra tutte le considerazioni possibili che possono venire in mente, dalla mediocrità della sua classe dirigente, includendo in essa, chiaramente, quella politica istituzionale e accademica.
Mario si era dedicato con ininterrotta passione ad ampliare la cultura dell’ingegnere ai problemi del territorio e dell’impresa, nella convinzione che la ricerca scientifica e l’attività formativa hanno senso solo se riescono a creare un valore per gli altri, in primo luogo per gli studenti e per il mondo del lavoro. Negli oltre quarant’anni di attività didattica e di ricerca è stato un fondamentale punto di riferimento per i colleghi e per gli studenti, che hanno avuto modo di apprezzare la capacità di mobilitare le persone e coinvolgerle in sfide sempre più rilevanti. È stato sempre guidato dalla convinzione che un innovatore ha l’obbligo morale di non accontentarsi mai dei risultati raggiunti, ma deve essere un centro motore di iniziative e di aggregazione sociale. Notevole è stato il suo impegno nella divulgazione scientifica, in particolare in qualità di direttore della Collana di Ingegneria Economico-Gestionale della ESI – Edizioni Scientifiche Italiane. Inoltre, ha collegato il suo impegno locale entro un contesto di relazioni Internazionali, ricoprendo ruoli di responsabilità nelle associazioni scientifiche ECSB/ICSB (European/lnternational Council for Small Business) e IPSERA (lnternational Purchasing e Supply, Education e Research Association).
Mario, fin dagli anni ’80, ha sostenuto la necessità per gli atenei di impegnarsi nella diffusione della conoscenza per la crescita economica e sociale del territorio. È stato un precursore della terza missione, promuovendo la nascita della Start Cup Federico Il, di cui è stato il primo direttore. In questo ruolo ha realizzato innumerevoli iniziative di trasferimento tecnologico e sviluppo imprenditoriale insieme ad associazioni culturali ed imprese. Chiamato a svolgere il ruolo di amministratore al Comune di Napoli ha sviluppato numerose iniziative a sostegno delle attività produttive della città. Tra i fondatori della Fondazione IDIS-Città della Scienza e presidente dell’Associazione Campania Start-Up, ha favorito l’incontro tra nuovi progetti di impresa e finanziatori privati, e non ha mai fatto mancare il proprio contributo di idee, di proposte e di sostegno alla crescita della comunità cittadina e dei giovani.
L’iniziativa del 6 maggio scorso è stata un momento di riflessione sul patrimonio morale che Mario ha lasciato, con l’obiettivo di rilanciare con maggiore determinazione il progetto di impegno culturale, civico e sociale dell’Ingegneria Gestionale a Napoli ed in Campania. Il suo ricordo rimarrà sempre vivo nei suoi amici e compagni e nei colleghi, negli studenti ed in tutti coloro che hanno avuto l’occasione di condividere con Lui momenti di lavoro, di impegno sociale e conviviali. Le sue doti umane e la sua dedizione all’istituzione universitaria saranno sempre di insegnamento per i suoi allievi e per quanti lo hanno conosciuto e apprezzato.
Biografia. Mario Raffa, già professore ordinario di Ingegneria Economico-Gestionale presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha ricoperto tra le altre, le cariche di Presidente del Consiglio di Corso di Laurea in Ingegneria Gestionale (dal 1995 al 2002), Direttore del DIEG – Dipartimento di Ingegneria Economico-Gestionale (dal 2000 al 2005), Coordinatore del Dottorato di Ricerca in Ingegneria Economico-Gestionale (16°-18° ciclo), responsabile scientifico di ODISSEO, Osservatorio sull’innovazione tecnologica e l’organizzazione. Dal 2003 al 2008 è stato Direttore della Start Cup Federico II; nel 2007 Direttore scientifico e nel 2017 referente nazionale del PNI – Premio Nazionale per l’Innovazione. La sua attività di ricerca – per la quale ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali riguarda le piccole imprese innovative, le relazioni di subfornitura, l’organizzazione industriale, l’imprenditorialità. È autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche nazionali e internazionali. È membro e collabora con numerose associazioni scientifiche nazionali ed internazionali tra cui l’Associazione italiana di Ingegneria Gestionale (AiIG) – di cui è stato Presidente nel biennio 2003-2005, International Council for Small Business (ICSB), European Council for Small Business and Entrepreneurship (ECSB), International Purchasing e Supply Education e Research Association (IPSERA). È componente del board editoriale di numerose riviste, nazionali ed internazionali tra cui «Small Business/Piccola Impresa» e «Journal of Small Business Management». Ha fatto parte di numerosi comitati tecnico scientifici tra cui CIRA – Centro Italiano Ricerche Aerospaziali (fino al 2001), CERIS-CNR (Torino), Fondazione IDIS Città della Scienza (Napoli).
Nel Governo Prodi ha fatto parte del Gruppo di Lavoro “Ricerca e Innovazione” della Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stato il delegato italiano per il comitato “Research for the benefit of SMEs” del 7° Programma Quadro (nel biennio 2007-2008). Dal maggio 2008 al giugno 2011 è stato Assessore allo Sviluppo del Comune di Napoli.
Dal 2009 è White Wilford Fellow (primo italiano dal 1977, anno di istituzione del prestigioso riconoscimento da parte dell’ICSB – International Council for Small Business), per meriti scientifici, culturali e politici sui temi del’imprenditorialità e della nascita e sviluppo di nuove imprese. Dal 2016 è ECSB Fellows (primo italiano ad essere insignito di tale carica dall’European Council for Small Business and Entrepreneurship) per meriti nel campo della ricerca/insegnamento nell’imprenditorialità.
In ricordo di Pier Luigi Lo Presti
Nei giorni scorsi, dopo aver lottato con il suo male, ci ha lasciato Pier Luigi Lo Presti, già dirigente della Regione Campania, una persona intelligente, colta, impegnata e insieme attenta ai rapporti sociali e amicali (come lo ha ben ricordato Adriana Buffardi in un suo posto su FB). Si potrebbe definire un vero “homo civicus”, come piace dire a Franco Cassano.
Anche io come lei ho bei ricordi degli anni di lavoro comune sui temi della scuola e della cultura, in particolar modo durante gli assessorati della stessa Buffardi e di Corrado Gabriele nelle prime giunte di Bassolino in Regione Campania. Infatti Pier Luigi, dopo gli anni di lavoro nel Centro Servizi Culturali di Caserta, è passato a dirigere il settore della formazione a livello regionale, affiancato da una sua cara amica e preziosa collega, come Rita Crisci. Negli ultimi anni di lavoro si è anche occupato del tema delle carceri e dei diritti delle persone detenute.
Di lui mi rimane impresso il ricordo di una persona mite e colta, tenace e competenze nei settori di attività in cui ha operato, sempre disponibile al confronto con gli altri (in primo luogo con i suoi collaboratori). In particolar modo era molto aperto ed attento al confronto con le organizzazioni sindacali, quelle sociali e datoriali. Durante il periodo in cui ho ricoperto il ruolo di responsabile della Federazione Formazione e Ricerca (FFR) della CGIL Campania ho avuto modo di incontrarlo e di confrontarmi con lui in tante occasioni. In primo luogo tentammo di cambiare radicalmente un settore come quello della formazione professionale e dell’istruzione, con l’attuazione del primo piano regionale di EDA (Educazione degli Adulti) per favorire percorsi, formali e non, di apprendimento permanente lungo tutto il corso della vita.
Allora venne istituito un apposito comitato regionale come luogo di programmazione in una logica di integrazione tra istruzione e formazione, come luogo di confronto e di partecipazione attiva per le competenze necessarie alla crescita educativa ed anche professionale e lavorativa delle persone. Devo dire che in quella occasione si ebbe un forte contributo dal mondo della scuola e dell’università, come quelle offerte da esperti e studiosi del livello di Bruno Schettini e Vincenzo Sarracino della Seconda Università di Caserta e di Gina Melillo dell’Orientale di Napoli, come pure dal mondo delle imprese con l’OBR Campania.
In questa occasione il mio ricordo va ad una esperienza di studio e di conoscenza molto profonda che avemmo modo di fare in quegli anni con una serie di viaggi di studi negli altri paesi europei che erano più avanti di noi nel campo dell’EDA, grazie anche alle spinte che venivano dalla commissione Europea lifelong learning. Fu grazie alla sensibilità di Lo Presti – ed anche di Rita Crisci – che avemmo modo di poter conoscere e visitare tante buone pratiche in diversi paesi europei: dalla Francia alla Spagna, dalla Svezia alla Finlandia, oltre agli scambi con alcune regioni italiane all’avanguardia (come l’Emilia Romagna e la Toscana). Avemmo modo di confrontarci con alcuni dei centri più avanzati di EDA, con le università ed anche con le associazioni datoriali sindacali in prima fila.
Ricordo che in questi viaggi Pierluigi era sempre presente, con la immancabile e vivace Rita, anche loco ricchi di curiosità e voglia di apprendere quelle stimolanti esperienze per poi cercare di trasferirle in Campania. A questo va aggiunto un altro elemento caratterizzante della sua personalità: la curiosità e la passione per la vita culturale nella nostra città. Spesso ci vedevamo nella Feltrinelli o in altre librerie a curiosare tra le novità editoriali. Negli eventi più importanti delle Piazze del Sapere, quelli legati ai temi del sociale e dello sviluppo locale, lo vedevamo sempre in prima fila, attento e partecipe. Per tutti questi motivi ho chiesto a Rita Crisci di valutare insieme con i familiari la opportunità di organizzare insieme un incontro per ricordarlo, magari proprio nella Feltrinelli dove tante volte ci siamo incrociati.
Pasquale Iorio - Le Piazze del Sapere, Caserta, 5 maggio 2022

 

Lotta alla camorra
Nel ricordo di Jerry Masslo, il Sud che non vuole cedere alla camorra
Le nenie africane dei funerali di Masslo riecheggiavano ancora nella mente, insieme al ritmo festoso dei tamburi di latta della straordinaria manifestazione antirazzista del settembre di quell’anno. Eravamo nell’ottobre dell’89, anno cruciale della storia mondiale e d’Italia: a Tien an Men il regime comunista cinese mostra il suo volto più duro, con i carri armati che sparano su giovani studenti che vorrebbero una perestroika cinese, a Berlino cade il muro della vergogna e si avvia inesorabile la fine del colosso sovietico. In Italia le prime battute di tangentopoli e lo scioglimento del Pci, con la svolta della Bolognina operata da Occhetto, creano le premesse per la fine della Prima Repubblica; la mafia alza il tiro contro lo Stato con il primo attentato a Falcone, mentre va sempre più sviluppandosi un movimento di contrasto alla criminalità organizzata, spesso sotto la guida della Chiesa.
È questo l’anno in cui muore Jerry Essan Masslo, sudafricano rifugiatosi in Italia per sfuggire alle persecuzioni razziali del suo paese (pochi mesi dopo viene liberato in patria Nelson Mandela), ucciso nel corso di una rapina da giovani balordi di Villa Literno. Dopo quella morte milioni di cittadini in provincia di Caserta e in Italia acquistano coscienza del problema immigrazione; a Roma, un mese dopo l’assassinio, si svolge a settembre la più grande e straordinaria manifestazione antirazzista della storia d’Italia. Il 24 ottobre di quell’anno sei medici e un’assistente sociale (professor Armando Del Prete, dottor Nunziante Maisto, dottor Benedetto Caterino, dottoressa Angela Ruggiero, dottor Mario Pellegrino, il sottoscritto dottor Renato Franco Natale e l’assistente sociale Maddalena Ponticello) si ritrovano nello studio di un notaio a Caserta per dar vita ad un’associazione di volontariato, dedicata a Jerry Masslo; è presente anche Pasquale Iorio, responsabile della Cgil provinciale, che in qualche modo aveva contribuito alla formazione del gruppo e alla nascita dell’associazione. L’idea era sorta durante i funerali di Masslo e aveva trovato il sostegno, oltre che della Cgil casertana, anche dell’amministrazione comunale di Villa Literno (di cui era sindaco Biagio Ucciero). I sottoscrittori dell’atto costitutivo erano quasi tutti militanti del sindacato o di formazioni politiche di sinistra.
Da tempo impegnati a fianco degli immigrati, nei giorni convulsi che seguono alla morte violenta di Masslo, decidono che non è più possibile stare con le mani in mano, mentre c’è gente che soffre e muore per la mancanza di assistenza sanitaria in uno dei paesi più industrializzati del mondo, e che non è più sufficiente solo la battaglia politica per ottenere norme e leggi che garantiscano l’intervento dello Stato, ma è necessario rimboccarsi le maniche e da subito mettere a disposizione di chi ne ha bisogno la propria professionalità ed il proprio impegno volontario e gratuito. Primo presidente è eletto il professor Armando Del Prete, primario ortopedico dell’Ospedale Santobono di Napoli e docente universitario presso la Federico II (che lascerà l’incarico di presidente nell’aprile del ’98, per gravi motivi di salute e morirà di lì a poco).
Comincia così l’avventura dell’associazione di volontariato medicosociale Jerry Essan Masslo. Il Comune di Villa Literno mette a disposizione un locale trasformato in ambulatorio con una scrivania ed un lettino medico; lì dal febbraio del ’90 svolgiamo la nostra attività di assistenza sanitaria agli immigrati con turni bisettimanali che vedono impegnati i soci fondatori (soprattutto Giuseppe Pellegrino, Renato Natale e Nunzio Maisto, che, in quanto responsabile della Cgil Medici, organizzerà uno sciopero bianco dei sanitari di guardia medica, con la devoluzione di una giornata di lavoro alla nostra associazione), cui si aggiungerà, dopo pochi mesi, il dottor Corrado La Rocca. Restiamo in questa struttura circa un anno, durante il quale collaboriamo con il Comune in un programma di educazione sanitaria nelle scuole, e di prevenzione delle deformazioni della colonna vertebrale, con visite gratuite ai ragazzi della scuola dell’obbligo.
Nell’agosto del 1990 partecipiamo al Campo di accoglienza dei lavoratori immigrati a Villa Literno (il secondo in Italia dopo quello di Stornara in Puglia del 1989). In una tenda viene sistemato l’ambulatorio, e con i farmaci messici a disposizione dalle organizzazioni responsabili del Campo (Cgil, Arci, Fgci, organizzazioni cattoliche ecc.) cerchiamo di rispondere ai bisogni di salute dei tanti giovani africani venuti d’estate per la raccolta del pomodoro e degli altri prodotti agricoli. L’ambulatorio di Villa Literno resta aperto fino al novembre 1990, quando chiudiamo perché registriamo una riduzione notevole dell’utenza, dovuta non al calo delle presenze immigrate su quel territorio, ma ad una difficoltà a comunicare la nostra presenza ad una popolazione soggetta a frequenti trasmigrazioni, timorosa di rivolgersi a qualsiasi struttura o servizio pubblico, per le sue condizioni di clandestinità.
** Renato Natale (Sindaco di Casal di Principe)
Antonio Cangiano
Vice Sindaco (1988) e poi Sindaco (1993) di Casapesenna. Viene gambizzato dalla camorra nell’ottobre del 1988. Il 23 ottobre 2009 il suo fisico, così provato, non resiste più. Dopo 21 anni il piombo camorrista raggiunge il suo scopo.
25° anniversario del ferimento in piazza 1988-2013
Nel 1988, assessore a Casapesenna, si oppose alle ingerenze dei clan. Fu gambizzato e divenne "un uomo senza gambe che cammina dritto e libero"
Caserta - Mentre le indagini degli ultimi giorni gettavano nuovo fango sulla nostra classe dirigente, sulle nostre istituzioni, sul decoro e la dignità della nostra terra, venerdì 23 ottobre, all'ospedale di Caserta, è scomparso un politico che tanti anni fa, senza altri mezzi che il proprio coraggio e la propria determinazione, aveva cercato di porre un argine a quel malcostume nel quale stiamo sprofondando.
L'ingegner Antonio Cangiano, classe 1949, da ragazzo si era iscritto al Partito Comunista e a soli 24 anni, nel 1973, fu eletto nel primo Consiglio comunale del suo paese, appena distaccatosi da San Cipriano d'Aversa. Nel 1988, dopo anni spesi all'opposizione, il Pei passò in maggioranza attraverso un compromesso con socialisti e democristiani. Cangiano divenne vicesindaco e assessore ai lavori pubblici: una delega strategica e difficile da gestire, visti i ghiotti appetiti che suscitano da sempre gli appalti degli enti locali. Cangiano voleva mettere mano al piano regolatore e bloccare una serie di appalti concessi senza gare regolari ad imprese vicine alla camorra.
La tragedia. Il 4 ottobre 1988, in piazza Petrillo, "Tonino" Cangiano fu ferito alle gambe in un agguato di camorra e da allora era stato costretto a vivere su di una sedia a rotelle. Intanto la situazione politica del paese precipitava e il consiglio comunale venne sciolto nel 1991 con decreto del presidente della Repubblica per infiltrazione mafiosa.
Il 21 novembre 1993, dopo due anni di commissariamento, si tornò alle urne: con la nuova legge elettorale, per la prima volta, il sindaco sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini e non dai partiti presenti in consiglio. A pochi giorni dalla scadenza per presentare le liste il parroco di Casapesenna, don Luigi Menditto, e alcuni esponenti dei comitati dei cittadini proposero a Cangiano di candidarsi a sindaco per la lista civica Insieme per Casapesenna, espressione della società civile, delle associazioni dei cittadini e dell'Azione Cattolica.
La vittoria. Cangiano divenne sindaco con 4.000 voti. Ma la gioia durerà poco: dopo neanche due anni il primo cittadino, evidentemente stanco delle minacce e delle pressioni della camorra, sarà costretto alle dimissioni e l'ente nuovamente sciolto dal Governo. Con gli anni le condizioni di salute di Cangiano erano peggiorate, fino alla completa amputazione degli arti inferiori e alla prematura scomparsa. I funerali si sono tenuti ieri nella chiesa parrocchiale S. Croce di Casapesenna. Il messaggio ai giovani. A giugno, in occasione delle elezioni comunali, Cangiano aveva dichiarato il suo appoggio alla lista civica Insieme per Cambiare: "Ci vuole un forte ricambio nella gestione della cosa pubblica, c'è bisogno della discesa in campo di giovani di buona volontà che vogliono bene al proprio paese e vogliono impegnarsi per fare la cosa giusta, siamo arrivati al punto di non ritorno, è ora di migliorare la vita della gente del nostro territorio. I giovani non devono disinteressarsi alla politica perché è la politica che decide come devono vivere, se devono avere un posto di lavoro, se devono sperare di potersi costruire una casa e formarsi una famiglia. I giovani devono capire che ormai non possono più stare a guardare, devono fare. Sono i giovani i veri portatori di nuove idee. Sono i giovani che non conoscono i compromessi. Diventa Sindaco di Casapesenna, nel 1993 con un plebiscito di voti. E diventa subito il fulcro principale, anche di molti giovani che si affacciavano per la prima volta in politica. Un grande uomo, pronto a dare sempre il suo consiglio.
Tammaro Cirillo, a altre vittime di camorra
In un apposito documento presentato in occasione del congresso della Fillea di Caserta nel mese di ottobre 2018, si è sottolineato che nei secoli scorsi la Campania è stata protagonista di varie vicissitudini e il nome stesso, molto probabilmente, deriva da “Campania Felix”, Campagna Felice, scomparso poi nel tempo facendo posto a “Terra di Lavoro”, per poi ricomparire nel Cinquecento, quando le cartine geografiche portavano la dicitura “Terra Laboris olim Campania Felix”, dunque “Terra di Lavoro, anticamente Campania Felix”, che comprendeva più o meno l’attuale provincia di Caserta fino al Garigliano, Napoli e oltre, fino a Torre Annunziata, ad eccezione di Castellammare e della penisola Sorrentina. Una regione ampia, formata da 258 comuni, che inglobava inoltre parti dell’attuale Molise, del Sannio e dell’Irpinia, oltre ai comuni del basso Lazio. In quella pianura, dove i Romani con al centro Capua, la più grande città in Italia, apprezzavano i frutti e i suoi prodotti erano ricercatissimi sul mercato e sempre presenti sulle tavole dei consoli romani. È in quelle terre che si consuma un atto atroce, di barbarie inaudita e ignobile. Mai gli uomini di allora avrebbero immaginato che l’uomo e la camorra, un giorno, l’avrebbero trasformata in terra dei fuochi. Camillo Porzio, avvocato e storico scriveva: “Concordemente da tutti gli scrittori é stimata la più bella regione del mondo, per il clima temperato, la grassezza dei terreni, e per i luoghi piacevoli”. “Terra di Lavoro” era conosciuta in tutta Europa per la produzione di ortaggi e frutta, salumi e latticini, seta e lino, per la mozzarella di Bufala, le famosissime olive di Gaeta, e soprattutto per la laboriosità degli abitanti. La duttilità del cittadino di “Terra di Lavoro”, da filosofo a guerriero, capace di forgiare metalli e di fare serenate, sta nella sua storia, che in gran parte corre sulla via Appia, veicolo di culture e di conquiste. È la terra che vanta i primi documenti in Italiano, e quello fondamentale del Placito Capuano del 960.
Tammaro Cirillo era di questo luogo, di questa terra. Un uomo con un profondo senso di libertà e giustizia. Quella giustizia che non ti lascia indifferente difronte agli abusi, dove il diritto per l’uomo diventa aria del proprio respiro e la libertà la luce del proprio cammino. Chi è animato da un profondo senso di libertà e giustizia spesso è condannato ad essere considerato un diverso, uno fuori dal coro, uno di cui non ci si può fidare. Questo è il tratto distintivo che caratterizza uomini e donne che fanno della propria vita, di quel senso profondo di libertà e giustizia, il proprio modo di essere e di vivere. Non immaginava Tammaro che la sua battaglia per la giustizia l’avesse un giorno privato della sua libertà e addirittura della sua vita. Il 25 luglio 1980, la luce del suo cammino e l’aria del suo respiro trovavano fine in un letto di ospedale dopo 21 lunghissimi giorni di speranza e di agonia. 21 giorni di lotta contro un sistema penetrato nel profondo del tessuto sociale di un territorio occupato e violentato da uomini feroci, privi del ben minimo senso dello stato, nonché di qualsiasi principio etico, morale e sociale.
Siamo agli inizi degli anni ’80, gli anni in cui la vecchia e la nuova camorra tenta di imporre la propria presenza, il proprio ruolo, demarcando i propri confini, imponendo le proprie regole Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 149 150 Parte ottava - Le lotte per i diritti e la legalità democratica per il controllo di territorio e attività economiche da asservire alle faide camorristiche ancora oggi presente sulle nostre terre, una volta “terra di lavoro” trasformata poi in terra di camorra e oggi, sempre per mano della camorra, in terra dei fuochi. Sono anche gli anni del degrado politico, civile, morale e sociale. Sono gli anni di quell’assurdo intreccio politica/mafia/camorra, gli anni in cui lo stato decide di allearsi con chi gestisce il territorio illegalmente anziché combatterlo e affermare la sua presenza. Gli anni ’80 sono gli anni che vedono liberare un assessore regionale per un accordo Stato/Camorra e uccidere, sempre per strani intrecci del destino, pezzi importanti dello Stato come Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa e tanti e tanti rappresentanti delle istituzioni di ogni ordine e grado. Erano i cosiddetti anni di piombo per tutto il paese, ma su questo territorio lo erano ancora di più, dove vivere o schierarsi non era semplice nè facile. Erano gli anni in cui più che “esporsi” era più semplice, o forse tornava utile, “nascondersi” dietro un non so… non ho visto… non mi interessa.
Erano gli anni in cui chiunque si opponesse al progetto di conquista del territorio, dell’economia, delle istituzioni, diventava un ostacolo sulla strada della camorra. La camorra aveva deciso di mutare la sua azione, aveva deciso di entrare nel tessuto economico dello Stato. Tammaro sapeva di opporsi a queste forze, oscure, violente, non legali, così come sapeva che qualche ritorsione si sarebbe prima o poi abbattuta anche su di lui, ne sentiva l’odore, il pericolo, ma non immaginava che la ferocia che si sarebbe abbattuta su di lui lo avrebbe addirittura ucciso. L’orgoglio e la fierezza, di rappresentare i propri compagni, completava la missione di opporsi ad ogni forma di illegalità e di imposizione. Gli uomini spesso sanno essere più spietati e violenti delle bestie e la camorra su questo territorio lo è stato e, sotto certi aspetti lo è ancora oggi.
Tammaro non amava nascondersi, è caratteristica degli uomini con spiccato senso di giustizia e libertà. Non ammetteva che uomini imponessero su altri uomini il proprio volere. I “guardiani di giorno”, le “forniture imposte”, le “aziende amiche”, facevano parte di un disegno criminogeno che lui non tollerava. Lui con i suoi compagni a sudare, a sgobbare, per un lavoro dignitoso, altri ad imporre prezzi, tariffe, guadagni facili per persone che non lavoravano e che vivevano nel lusso e nel benessere. Lui che il sudore lo conosceva sin da ragazzo, per una vita per niente facile. Una vita trascorsa per lo più nei campi, di quel lavoro intriso di fatica e sudore.
Tammaro Cirillo (nato nel 1942), sesto di sette figli, era figlio di questa terra. A 38 anni lavorava in agricoltura con qualche breve esperienza in un’azienda come guardiano e operaio edile. La sua fu una vita caratterizzata dalla semplicità e dalla umiltà delle tipiche famiglie del Sud, di quelle che raccolgono il sudore delle proprie fatiche per poter cresce i propri figli. Figlio della cultura contadina, dove può mancare qualche soldo in tasca, ma si è ricchi dentro di dignità e di amore. La sua vita era lì nelle campagne di Villa Literno. Proprio lì nel cuore della “Campania Felix”, come usava chiamarla Plinio il Vecchio, terra ricca e fertile e di cui oggi è rimasto poco o nulla, eccetto le testimonianze di un passato glorioso. È lì, in “Terra di Lavoro”, dove la Campania molto probabilmente ha avuto origine, che Tammaro si è formato e cresciuto, ed è sempre lì che la camorra e il malaffare hanno violentato e consegnato ai giorni nostri un territorio coperto di veleni, ignoranza, devastazione sociale ed economica.
E lì, in un passato poi non così lontano, che bisognerebbe ritornare in quel territorio detto “Terra di Lavoro” per riconsegnarlo al mondo come un territorio florido e laborioso. Tammaro approda alla S.L.E.D. SpA di Napoli, un’azienda impegnata nella costruzione del depuratore di Villa Literno, in età avanzata e pochi mesi prima della sua uccisione. Era il suo primo impiego strutturato, alle dipendenze di un’azienda seria, come si dice da queste parti, e nonostante la sua breve esperienza di lavoratore dipendente si era calato subito nel ruolo che più le si addiceva, quello di difendere diritti e combattere ingiustizie, diventando di fatto un delegato della Fillea CGIL. Dopo anni di lavoro in proprio, in agricoltura, il lavoro edile significava avere un lavoro più dignitoso e remunerativo. Significava poter dare corpo e prospettiva al suo progetto di vita.
Sposato con Antonietta, morta poi nel 2011, e padre di 4 figli, Giuseppe, anche lui prematuramente scomparso alla sola età di 46 anni, Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 151 152 Parte ottava - Le lotte per i diritti e la legalità democratica nonché di Maria, Laura e Silvana. Tammaro sapeva che il semplice lavoro nei campi non offriva garanzia e l’edilizia, come spesso accade da queste parti, ma come avviene nella generalità del Mezzogiorno, è considerato un settore più concreto, un lavoro buono, soprattutto se svolto alle dipendenze di un’azienda che lavora in appalti pubblici.
“Lo avevo perso un po’ di vista” racconta con qualche difficoltà un suo carissimo amico nonché compagno di tanti trascorsi nei campi. “Era un tipo ribelle, un po’ fuori dalle regole, insomma uno di noi, di sinistra, sempre pronto alla contestazione, alla lotta”. L’impiego in quel cantiere li aveva allontanati, ma non li aveva mai separati, diverso l’impegno e il luogo del loro lavoro, ma sempre amici. I figli che crescono, le necessità pure e Tammaro doveva far fronte a queste nuove necessità. Il Sud è povero per tante cose, ma soprattutto è povero, avaro, nell’offrirti una prospettiva di vita per la famiglia e i propri figli. Ma al Sud basta poco per avere fiducia nel futuro, un’azienda che occupa un po’ di lavoratori in più, che casomai venga da fuori provincia o meglio ancora dal Nord e subito la macchina della speranza si mette in moto, il pensiero inizia a fantasticare sulla prospettiva di un impegno buono, che possa darti quel minimo di tranquillità per farti portare a casa una “mesata” buona, dignitosa, sufficiente a farti pensare che anche tu puoi iniziare a vivere dignitosamente e che i tuoi figli possano nutrire e vivere gli stessi diritti di altri. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta incontra il suo destino Tammaro, nel pieno di una guerra. Vecchia e Nuova camorra si affrontano a viso aperto. Vecchio e nuovo modo di fare affari si frappongono ai sogni di Tammaro, o è forse lui a frapporsi alle ambizioni della camorra? Era stato appena eletto rappresentante dei lavoratori e nel suo discorso all’assemblea di cantiere aveva espresso la ferma volontà di opporsi alla presenza dei sub appalti imposti dalla camorra, “… devono uscire fuori dal cantiere” disse. Tammaro, come la parte sana di questo territorio, sapeva che con l’arrivo di miliardi di lire per le opere di bonifica sarebbe arrivata anche la camorra, il malaffare, la corruzione, il guadagno illecito. Così come la camorra sapeva che chiunque si fosse opposto al suo progetto sarebbe stato un ostacolo da rimuovere e il sindacalismo di quei giorni era un ostacolo al progetto camorristico. Il suo era un impegno politico e sindacale, così come si usava dire allora.
Impegnato politicamente nel partito dei lavoratori con il P.C.I., e impegnato in trincea con il sindacato con la Fillea CGIL, per la tutela diretta dei diritti dei lavoratori. Dicono che volesse essere un’azione di intimidazione, una lezione per tutti da ricordare per sempre, volevano renderlo inoffensivo per il resto dei suoi giorni. Ma come spesso accade non è l’azione violenta della criminalità che rende inoffensivo un uomo, ma l’indifferenza della società, il dimenticarsi dei propri uomini che si sono sacrificati per quel senso di libertà e giustizia e che invece dovrebbe prevalere in ognuno di noi. Hanno atteso che tornasse a casa e lo hanno punito lì nella sua abitazione, in quel luogo che tutti riteniamo sicuro: la nostra casa. Lo hanno colpito alle spalle e alla presenza della propria figlia Maria. Nemmeno il coraggio di guardalo in faccia. Non hanno usato nessuna attenzione, come bestie si sono accanite su un essere indifeso e inerme, non curanti di chi vi fosse intorno. Gli spararono per intimorirlo, per dargli una lezione. Ma chi doveva fare il lavoro lo fece male e forse anche loro sono stati puniti per questo sgarro. Quanti ostacoli abbattuti, quanti silenzi. “Un uomo non muore quando una mano armata lo ammazza, ma quando è rimosso dai ricordi della gente”.
Tammaro Cirillo
Nato nel 1942, sesto di sette figli, era figlio di questa terra. A 38 anni lavorava in agricoltura con qualche breve esperienza in un’azienda come guardiano e operaio edile. La sua fu una vita caratterizzata dalla semplicità e dalla umiltà delle tipiche famiglie del Sud, di quelle che raccolgono il sudore delle proprie fatiche per poter cresce i propri figli. Figlio della cultura contadina, dove può mancare qualche soldo in tasca, ma si è ricchi dentro di dignità e di amore. A seguito di un attentato nei cantieri di Villa Literno, il 25 luglio 1980 la luce del suo cammino e l’aria del suo respiro trovavano fine in un letto di ospedale dopo 21 lunghissimi giorni di speranza e di agonia, di lotta contro un sistema penetrato nel profondo del tessuto sociale di un territorio occupato e violentato da uomini feroci, privi del ben minimo senso dello stato, nonché di qualsiasi principio etico, morale e sociale. Era stato appena eletto rappresentante dei lavoratori e nel suo discorso all’assemblea di cantiere aveva espresso la ferma volontà di opporsi alla presenza dei sub appalti imposti dalla camorra, “… devono uscire fuori dal cantiere” disse. Tammaro, come la parte sana di questo territorio, sapeva che con l’arrivo di miliardi di lire per le opere di bonifica sarebbe arrivata anche la camorra, il malaffare, la corruzione, il guadagno illecito. Così come la camorra sapeva che chiunque si fosse opposto al suo progetto sarebbe stato un ostacolo da rimuovere e il sindacalismo di quei giorni era un ostacolo al progetto camorristico. Il suo era un impegno politico e sindacale, così come si usava dire allora. Impegnato politicamente nel partito dei lavoratori con il P.C.I., e impegnato in trincea con il sindacato con la Fillea CGIL, per la tutela diretta dei diritti dei lavoratori.
Oggi va riconosciuto che fu grazie al sacrificio di queste persone e militanti, alla loro azione di resistenza civile – insieme all’opera di contrasto e repressione delle forze dell’ordine e della magistratura – è stato possibile ricostruire nuovi spazi di partecipazione consapevole e di cittadinanza democratica (come quelli realizzati con diverse buone pratiche di uso sociale e produttivo dei beni confiscati). Tutto questo è stato raccontato con le testimonianze raccolte nelle loro opere da giornalisti come Rosaria Capacchione e Raffaele Sardo, da storici come Paola Broccoli e Gianni Cerchia, da saggisti come Gianni Solino (Referente Provinciale di Libera) e Gigi di Fiore, da esponenti della chiesa come il VE Raffale Nogaro e S. Rita Giaretta, da me stesso nei volumi su “Il Sud che resiste” e in “Una vita per i diritti”. Tammaro era un figlio di questa terra, figlio della sinistra di questo territorio, figlio del sindacalismo di questo territorio e in quanto figlio non può e non deve essere dimenticato. La Fillea CGIL di Caserta lo ha voluto ricordare, perché vuole riappropriarsi della sua storia, dei suoi simboli, dei suoi uomini, dei suoi figli.
Raffaele Errichiello
Va ricordato come un’altra figura storica e miliare del sindacalismo di questo territorio: operaio, delegato e dirigente della Fillea CGIL di Caserta. Negli stessi anni in cui Tammaro viveva il suo drammatico epilogo, Raffaele era delegato dell’azienda consorella, la CEM, impegnata anch’essa nella realizzazione dei Regi Lagni, combatteva la sua battaglia di legalità con le stesse forze oscure presenti sul territorio. Anche lui come Tammaro subì pressioni e sollecitazioni a desistere dal ruolo di delegato e di rivendicazione. Ha vissuto il suo drammatico epilogo, Raffaele era delegato dell’azienda consorella, la CEM, impegnata anch’essa nella realizzazione dei Regi Lagni, combatteva la sua battaglia di legalità con le stesse forze oscure presenti sul territorio. Anche lui come Tammaro subì pressioni e sollecitazioni a desistere dal ruolo di delegato e di rivendicazione. Il suo destino non ha permesso che le sollecitazioni andassero oltre. Raffaele è morto qualche anno fa dopo una lunga militanza nella Fillea CGIL di Caserta come funzionario proprio su questo territorio. Oggi lui ci avrebbe potuto dare un conforto e un contributo di chiarezza e di verità.
Anche a lui vogliamo rivolgere il nostro pensiero e ricordo per le tante battaglie portate avanti. Come ci ammoniva don Peppe Diana, “… Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare”. Tammaro, come Raffaele stavano in questo solco, in questo pensiero e la Fillea, la CGIL, il sindacato sta in questa memoria. Come ha sottolineato la Segreteria Fillea: “Noi sindacalisti, soldati di trincea, siamo sentinelle, le prime, nell’azione di difesa dei diritti universali del lavoro e dei lavoratori e questo ruolo di sentinelle della legalità lo vogliamo svolgere fino in fondo, fino alla fine dei nostri giorni”.
Don Peppe Diana
Parroco di Casal di Principe (19.03.1994). Ucciso dalla camorra nella sua chiesa a Casal di Principe. Era il giorno del suo onomastico quando in chiesa entrarono due uomini gridando: “Chi è don Peppino?”, “Sono io” rispose il parroco. I sicari non se lo fecero ripetere due volte e spararono contro il prete cinque colpi di pistola. Don Giuseppe Diana (detto Peppe o Peppino) fu ucciso dalla camorra nella sua chiesa, mentre si accingeva a celebrare messa. La sua morte non è stata solo la scomparsa di una persona vitale, di un capo scout energico, di un insegnante generoso, di un testimone d’impegno civile: uccidere un prete, ucciderlo nella sua Chiesa, ucciderlo mentre si accingeva a celebrare messa, è diventato l’emblema della vita, della fede, del culto violati nella loro sacralità.
Renato Natale, sindaco di Casal di Principe, nel suo intervento di commemorazione di Tonino Cangiano di Casapesenna, morto anche lui per mano della camorra dopo essere stato ferito alle gambe, nel denunciare i rischi di un sistema camorristico, che stava conquistando pezzi della nostra economia territoriale, nonché delle nostre istituzioni e che si candidava direttamente alla gestione della cosa pubblica, stabilendo una vera e propria dittatura militare, non esitò a ricordare Tammaro come uno di noi, di colui che insieme a Don Peppe Diana hanno pagato il prezzo più alto. È grazie a lui, alla promessa fatta allora che “tutti questi morti per mano della camorra non devono essere dimenticati”, che la Fillea CGIL di Caserta ha voluto ricordare l’azione e il sacrificio di Tammaro Cirillo.
Franco imposimato, sindacalista e ambientalista Nella data dell’11 ottobre 2013 ricadeva il 30° anniversario dell’uccisione di Francesco Imposimato: un operaio vittima della barbarie omicida della camorra e del terrorismo, per il suo impegno politico, sociale ed ecologista. È stato una delle tante vittime innocenti del clima di violenza che in quegli anni ha insanguinato il nostro paese e la nostra provincia, con un pesante attacco alle condizioni di vita sindacale, democratica e civile. Oggi è importante ricordare queste figure per non dimenticare i pericoli che abbiamo corso. Da questo punto di vista è apprezza- Diritti e lotte sociali nel XX secolo. Storie e protagonisti di Terra di Lavoro 155 156 Parte ottava - Le lotte per i diritti e la legalità democratica bile l’iniziativa promossa dall’Amministrazione e dal Presidio Libera di Maddaloni per ricordare Franco con una manifestazione pubblica. Nello stesso tempo vanno ricordati i tratti salienti e la ricchezza della sua personalità: in primo luogo il suo impegno di uomo politico, di un militante comunista rigoroso. Era un cittadino attivo (un vero “homo civicus” per dirla con Franco Cassano) in difesa dei fondamentali diritti sociali ed ambientali, in fabbrica e nel territorio per salvare i Tifatini dallo scempio delle cave, per tutelare un bene comune come il paesaggio (così come prevede l’Art. 9 della Costituzione). La sua esecuzione fu molto spettacolare, per il modo con cui venne trucidato in auto (mentre la moglie Maria Luisa Rossi restò ferita), davanti ai cancelli della sua fabbrica la Face Standard di Maddaloni. Come è stato ricordato in una nota della Fondazione Polis, che sta svolgendo un ottimo lavoro di documentazione e di memoria storica sulle vittime delle mafie, Imposimato era un iscritto al PCI, molto attivo nella vita politica e sindacale. Ricordo i suoi interventi appassionati, di vero militante FIOM CGIL, nelle assemblee di fabbrica e nelle manifestazioni. Nello stesso tempo svolgeva una intensa attività culturale, con un particolare interesse alla salvaguardia dell’ambiente e dei centri storici. Memorabili restano le sue battaglie contro lo sfascio delle cave sui Monti Tifatini, che purtroppo nel tempo è continuato con danni irreparabili. Per i suoi assassini aveva una grave colpa: era il fratello del giudice Ferdinando, in servizio presso il tribunale di Roma. Per questo la “cupola” mafiosa decise la sua morte, che era già scritta da tempo: nel marzo del 1983 gli rubano la Ritmo (poi utilizzata nell’agguato) e veniva pedinato. Il fratello giudice, Ferdinando Imposimato, comprese l’esistenza di un reale pericolo: si rivolse ai carabinieri perché venisse allestito un servizio di scorta e sollecitò il direttore generale della Face Standard a trasferire il fratello. Dalle indagini e dai processi emerse subito la matrice mafioso-camorrista del crimine: si è voluto colpire il giudice Ferdinando Imposimato con un’azione trasversale. All’origine dell’omicidio del sindacalista c’era un patto di ferro fra banda della Magliana, mafia e camorra. Come è emerso dalle sentenze e condanne, a volere l’omicidio furono Pippo Calò, considerato il cassiere della mafia, ed Ernesto Diotallevi, uomo di punta della banda della Magliana. Visto che Franco Imposimato viveva in Campania, era coinvolto anche Lorenzo Nuvoletta. Secondo la ricostruzione dei magistrati, i due decisero di uccidere il giudice Imposimato quando questi arrivò a loro nel corso delle indagini sull’omicidio di Domenico Balducci e su una serie di speculazioni edilizie nella Capitale. I due compresero che un agguato non sarebbe stato possibile, ma non per questo rinunciarono al loro obiettivo. Spostarono soltanto il tiro: il magistrato avrebbe, comunque, capito il messaggio e si sarebbe fermato. Allora si rivolsero ai Nuvoletta che erano interessati ad eliminare proprio Franco Imposimato. Il sindacalista, infatti, aveva avviato una battaglia per fermare le cave abusive sui monti Tifatini, da dove è estratto il materiale per costruire dei tratti ferroviari i cui appalti erano affidati a ditte che facevano capo al boss di Marano. Appariva chiaro che l’impegno di Imposimato fosse tutt’altro che gradito al potente clan. La morte di Franco rientra nelle classiche vendette trasversali in quanto risultava impossibile colpire il fratello giudice. È ancora viva la commozione che suscitò la notizia del suo assassinio, a cui seguì una forte mobilitazione unitaria del sindacato con una grande manifestazione dai cancelli della fabbrica per le strade di Maddaloni. Tutta la città si strinse commossa intorno al feretro di Franco, a fianco della moglie e dei figli. Toccò a me fare l’intervento conclusivo (a nome di CGIL-CISL-UIL), insieme ad Antonio Bassolino ed al fratello Ferdinando. Per ricordare la figura di Franco, la CGIL e la FIOM di Caserta – insieme alla rete di associazioni del terzo settore ed alla piazza del sapere – stanno valutando una iniziativa che si terrà a Caserta.
In quei giorni alcuni atti di violenza (incendi e danni vari) hanno riproposto alla attenzione della cronaca il tema dei beni confiscati alla camorra. Nella lotta per la legalità democratica Terra di Lavoro negli ultimi anni si è distinta nella gestione e riuso dei beni confiscati alla camorra. Grazie ad una collaborazione virtuosa tra istituzioni, enti ed associazioni del terzo settore in alcune delle terre che venivano definite di Gomorra si sono realizzate alcune esperienze e buone pratiche che hanno visto quei beni “liberati” dal dominio dei clan, con la costruzione di nuove imprese (in particolare nel settore agro-alimentare), di nuovi servizi di accoglienza, di cura e di formazione dei soggetti più colpiti (come i bambini, le donne vittime di violenza ed i migranti). Da un poco di tempo sembra che vi sia una inversione di tendenza negativa, che quello slancio vitale si sia affievolito, o perlomeno ci appare che il tema dei beni confiscati sembra finito in un cono d’ombra. Nessuno ne parla. Lo stesso Consorzio Agrorinasce – finora riconosciuto come una delle esperienze più avanzate di cooperazione tra istituzioni ed associazioni – è alle prese con un laborioso e defatigante iter di riassesto. Anzi, vi è qualche caso di abbandono come quello del comune di Casal di Principe, dove l’amministrazione ha deciso di fuoriuscire con motivazioni per noi incomprensibili. Per non parlare del caso di S. Maria La Fossa che sta operando un vero e proprio boicottaggio nei confronti di progetti già finanziati, come si evidenzia in un appello di Nero e non solo. Ci troviamo in una fase di calo della tensione e dell’attenzione, anche dell’impegno civile intorno a questo tema. Come emerge dalla ultima relazione della Agenzia Nazionale nella nostra provincia si registra un dato preoccupante: su 324 beni assegnati ai comuni solo 110 sono stati accettati, con una media di appena il 24% rispetto a quella regionale anch’essa bassa sul 36% del totale. Va detto che in Terra di Lavoro si registra uno dei tassi più alti di beni sequestrati e confiscati, molti dei quali rimangono per decenni riutilizzati finiscono per essere vandalizzati dagli stessi soggetti a cui erano stato sottratti dopo lunghe ed accurate indagini, dopo vari processi e condanne.
Dati. Nell’ultimo censimento dell’Agenzia BC sono risultati 571 beni immobili, tra questi 324 risultano definitivamente confiscati (di cui ben 85 solo nella città Domiziana). Se passiamo alle aziende, abbiamo questo quadro: 138 aziende sono in gestione mentre 63 di esse sono destinate. Per un totale di 709 beni confiscati, oltre il 40% a fronte del totale campano di 1797. Con questi dati Caserta risulta essere la sesta provincia italiana, subito dopo Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Catania e Milano, per numero di beni sottratti alle criminalità organizzate. Sul totale di 709, 571 riguardano beni immobili, mentre 138 sono le aziende. Un patrimonio ingente di migliaia e migliaia di euro quello confiscato alla camorra e distribuito su 42 comuni dei 104 della provincia di Caserta. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio tesoro (fatto di beni immobili e di imprese), che troppo spesso, per molteplici problematiche, viene lasciato a marcire, oppure non si riesce a reimpiegarlo in maniera ottimale. In questo contesto il comune di Castel Volturno si caratterizza per il gran numero di beni confiscati alla camorra: un vero e proprio record nazionale. Se ne contano oltre 120, la maggior parte dei quali sono ancora in disuso, appaiono come dei veri e propri beni “fantasma”, vedi il caso dei 2 Lidi Nettuno e Passerotto nella zona di Ischitella. Per la verità in questo territorio si trovano tanti beni ed imprese sottratte ai vati clan: in pratica qui ha investito ed imperversato il gotha dei cosiddetti “casalesi”. A cui oggi si aggiunge un’altra presenza inquietante, quella della “mafia nera” dei nigeriani con le loro “connection house” disseminate su tutto il litorale, dove imperversano le cosiddette maman che crescono ed educano i bambini e le bambine ad un futuro di tristezza e di violenza: quello del traffico di droga, della tratta delle donne e della prostituzione, della vendita a famiglie senza figli, o peggio ancora del traffico degli organi umani. Anche su questo nuovo inquietante scenario occorrerebbe un intervento più mirato e deciso delle forze dell’ordine.
Valerio Taglione e il Festival dell’impegno civile
Il “Festival dell’Impegno Civile – Le Terre di Don Peppe Diana”, promosso dal Comitato Don Peppe Diana e da Libera coordinamento provinciale di Caserta, è la prima manifestazione in Italia ad essere interamente realizzata in ville, appartamenti, terreni sottratti alle mafie e restituiti alla collettività. Nove anni fa, partì con la scommessa del desiderio di rivalsa parlando del bello e del buono. La prima edizione, nel 2007, fu fatta solo a Casal di Principe ma già dal secondo anno fu impossibile contenerne la forza e l’energia. Ogni anno un tema diverso. Quest’anno il fil rouge della kermesse, che ha avuto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica Italiana, è il Coraggio di fare scelte. L’obiettivo è il risveglio delle coscienze passando per la riappropriazione del maltolto, parlando di economia sociale antidoto dell’economia criminale. Alternando tappe e location, la rassegna è fitta di appuntamenti con spettacoli teatrali, musica, proiezioni cinematografiche, presentazioni di libri, incontri ed approfondimenti su temi come le nuove forme di organizzazione criminale, le ecomafie, l’antiracket, i testimoni di giustizia, le nuove forme di razzismo e sfruttamento. In ciascuna delle tappe, si incontrano e raccontano storie di persone, gruppi, luoghi, esperienze, che hanno lasciato una traccia di significato e valore, incidendo sul vissuto del nostro Paese. È certo sono storie spesso intrise dal dolore e dalla sofferenza perché non sono mai figlie di scelte semplici e scontate. Ma c’è sempre anche la speranza e la possibilità di dare forza a un’occasione di riscatto perché esiste il dovere morale di provare a lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello che noi abbiamo vissuto. Il Festival promuove, ma è anche un j’accuse corale della nuova generazione che crede in una realtà diversa, responsabile e attiva. Crede in una economia sociale, antidoto all’economia criminale che mette al centro il bene relazionale e nuove possibilità di sviluppo e occupazione, a partire dai soggetti più deboli, quelli che consideriamo “ultimi”. Il Festival è accompagnato lungo il percorso da scrittori, giornalisti, artisti e cittadini impegnati, avvicinando la società civile all’uso sociale dei beni confiscati per farli vivere, aprirne le porte ed impedire che continuino ad essere la rappresentazione simbolica della paura e dell’intoccabilità camorristica. E proprio da quei luoghi, spesso ville o addirittura castelli così come quello Mediceo a Napoli o la casa di via Ruffini a San Cipriano D’Aversa, si è parlato di teatro, di cultura e di astronomia. La terza edizione cominciò con il “Concerto per le vittime innocenti di camorra” organizzato dalla Procura della Repubblica e dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e si concluse con un tributo a Miriam Makeba a Castelvolturno. Per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, si raccontò e si promosse un’Italia diversa, unita dalla voglia di giustizia e legalità. Un’Italia che dà valore al bene comune, che ci mette la faccia e la fatica, che riscopre le straordinarie possibilità dello stare insieme, nord e sud, “normali” e “diversi”, donne e uomini, anziani e ragazzi. E nell’incontro le differenze diventano ricchezza capace di produrre cambiamento. L’essenza della camorra è fare solo ed unicamente i suoi interessi economici e criminali e dunque uccidere con le armi da fuoco o con il traffico dei rifiuti e della droga o ancora con l’inquinamento dell’economia legale e della politica. Il Festival dell’Impegno Civile coinvolgendo le folle ha il merito di aver invertito la tendenza. Di aver fatto riflettere sulla qualità della bellezza, dell’etica e della possibile rivincita. Nove anni fa nella storica Terra Felix che la criminalità organizzata ha trasformato in Gomorra e che la società sana tenta di farla rinascere come Terra di don Diana libera ed etica, solo in pochi avrebbero immaginato di ballare, cantare, presentare libri e parlare di economia nei covi dei camorristi. Il Festival ha consentito di uscire fuori dal vortice di notizie correnti e ha dato, fino a questo momento, la possibilità di mettere in risalto tutto quello che c’è di buono con un’azione propulsiva e propositiva, capace di sintetizzare i diversi aspetti di una cultura che ha bisogno di riscoprire tradizioni e valori, tornando ad essere e a fare comunità, per riscoprirci cittadini, protagonisti della nostra vita e del nostro presente.
I colori della razza. Un ponte tra culture
In una torrida notte il 25 agosto del 1989 nelle campagne di Villa Literno venne trucidato Jerry Essan Masslo, un giovane esule sudafricano che lavorava nei campi per la raccolta del pomodoro. In quella fase egli divenne un simbolo del movimento per i diritti e per la pari dignità. Lo stesso si può dire di un’altra donna eccezionale originaria del suo stesso paese: Miriam Makeba, nota in tutto il mondo come Mama Africa, la quale perse la vita qui a Castel Volturno in una fredda ed umida serata di novembre del 2008, alla fine di un concerto di solidarietà in ricordo dei 6 giovani ghanesi massacrati dalla camorra. A sua memoria c’è un cippo nella piazza di Baia Verde (eretto dalla Regione Campania, a poca distanza da un altro monumento, quello dedicato a Mimmo Noviello, anche lui imprenditore, vittima innocente di camorra). Queste date non possono cadere nel dimenticatoio. Per questi motivi come rete delle Piazze dei Saperi e dei Colori abbiamo deciso di concludere il ciclo di eventi dell’Estate 2020 con due iniziative dedicate a questi temi: la prima si svolgerà sabato 29-08 alle ore 11,00 sul lido Luise, dove si sono tenute le attività promosse con la rassegna “Letture di gusto”. Qui presenteremo il nuovo saggio di Gianni Cerchia “Tra accoglienza e pregiudizio. Emigrazioni e immigrazioni nella storia dell’ultimo secolo: da Sacco e Vanzetti a JE Masslo”, che può essere considerato come lo studio e la narrazione più significativa su queste tematiche tra quelle pubblicate negli ultimi anni.
A fine settembre, subito dopo le elezioni regionali, organizzeremo un concerto multietnico, con la partecipazione di artisti di livello internazionale (come la cantante italo-tunisina) Taled Ben Kaleb) insieme con altri gruppi e talenti campani. In questo modo, attraverso il linguaggio universale della musica, si può ripartire con la cultura anche in terre difficili, piene di contraddizioni, come quelle della costiera Domiziana, per far vivere e diffondere tra le nostre comunità i principi ed i valori costituzionali dell’accoglienza e della convivenza tra popoli diversi, della solidarietà umana e della coesione sociale.
Per questa via possiamo rilanciare la lotta contro ogni forma di violenza e di razzismo: potremo costruire un dialogo e creare ponti tra culture ed etnie, anche per fare in modo che la diversità diventi una opportunità per lo sviluppo locale, che sempre più si deve basare su una partecipazione consapevole e su forme innovative di cittadinanza democratica. Questi eventi verranno realizzati in collaborazione con una rete di associazioni: dal FTS Casertano al CIDIS Onlus, dal CSA Ex Canapificio al Centro Fernandes, dai Padri Comboniani a Black e White, dalle Acli all’ARCI ed Auser, Onlus Don Milani, Letteratitudini).
Le Piazze dei Saperi e dei colori. Contro ogni violenza e fanatismo
Grazie all’ospitalità e all’accoglienza del lido Luise da alcuni anni l’estate a Castel Volturno è stata animata da eventi ed incontri culturali e sociali, anche di carattere ricreativo. All’insegna di “Letture di gusto. Libri, cibo e territorio”, ogni estate si ripete una magia con la rassegna promossa ed organizzata dalla rete delle Piazze del Sapere/Aislo – in collaborazione e partenariato con le associazioni del territorio Domiziano. Va detto che negli ultimi anni gli eventi sono stati di particolare livello e qualità per contenuti e protagonisti. Basta ricordare l’incontro con la scrittrice-attrice americana Katerina Wilson, le serate di poesia e di arte contro il degrado, quelle di musica popolare con le danzatrici nigeriane e tante altre manifestazioni con autori ed artisti del territorio, spesso di caratura nazionale. Come ha commentato Paolo Miggiano in occasione di un incontro per la presentazione del suo libro “L’ultimo casalese”: dopo aver attraversato dei viali dominati dal degrado urbano e ambientale, quando si arriva sul mare e sul lido si rimane sorpresi dal livello gradevole dell’accoglienza e dell’organizzazione degli eventi. Sembra di essere in un mondo fatato dove la cultura viene vissuta e praticata come socialità ed ospitalità.
Per lo più gli incontri si svolgono negli spazi del lido, a ridosso di un mare stupendo, a volte con gli sfondi incantevoli di un tramonto dorato. Possiamo dire che l’iniziativa delle Piazze del Sapere e dei Colori ha funzionato come luogo di socialità e di attrazione, in un luogo emblematico delle contraddizioni della nostra Terra Laboris. Qui si toccano con mano i contrasti di una realtà che oscilla tra bellezze e arretratezze: da un lato una pineta stupenda oscurata da ammassi di rifiuti (che d’estate vengono abbandonati lungo i viali da orde di turisti, indigeni o immigrati non fa differenza). Ma ancora: la visione della foce del Volturno con l’oasi dei Variconi fa contrasto con la violenza dell’erosione, che si abbatte sulla costa e sulla spiaggia. La tipicità della mozzarella e di altri prodotti del mare si contrappone alla violenza della tratta delle giovani donne (nigeriane e dell’Est Europa, che vendono il loro corpo lungo la Domiziana). Alle belle dune e spiagge si contrappongono le favelas ed i ghetti che abbrutiscono gran parte del litorale. E si potrebbe continuare, fino al disastro ecologico dei Regi Lagni o l’abbandono del castello e del borgo medioevale. Ancora una volta abbiamo cercato di dimostrare che in un luogo dove si è raggiunto il fondo, si può reagire in due modi: o con la rassegnazione e la protesta (come tende a fare buona parte della popolazione); oppure con azioni che tendono ad invertire la rotta, per mettere in campo progetti ed attività per il riscatto civile e sociale. Ed è proprio questo l’obiettivo primario che ci siamo posti grazie al contributo e alla cooperazione di diverse associazioni e competenze, che hanno deciso di scendere in campo per dimostrare che con la cultura si può ripartire, si possono avviare percorsi virtuosi di socialità, di partecipazione consapevole e di apprendimento permanente, di vera e propria cittadinanza democratica (come amava ripetere il mio amico Bruno Schettini).
Va detto che gli eventi spesso sono stati resi più accattivanti grazie alla esposizione e degustazione di prodotti tipici e di eccellenze del territorio, come le mozzarelle DOP degli antichi caseifici Luise e Spinosa, i vini e gli oli del Frantoio Barbiero e della Cantina del Volturno, gli ortaggi della Sbecciatrice, di Calle Chiarelle, dei produttori di canapa sativa ed altri. Tutto questo ha reso ancora più piacevole ed allegra la partecipazione, per lo più attenta e numerosa. In questo modo la cultura viene vissuta anche in luoghi di villeggiatura e di svago come fattore di coesione sociale di apprendimento permanente. In certe occasioni risulta davvero sorprendete ed incoraggiante il livello di ascolto e di attenzione dei turisti, molti dei quali provengono dalle aree metropolitane di Napoli e Caserta. Particolarmente significativa risulta anche a conclusione delle attività estive prevista per la fine di agosto e settembre, con alcune manifestazioni di grande attualità sui temi dell’accoglienza e della solidarietà: “Un ponte tra le culture”, in alcuni luoghi simbolo delle politiche di integrazione, sede di un museo interculturale, come il Centro Fernandes, e nella Piazzetta di Baia Verde, in memoria di alcune figure simbolo come Miriam Makeba (Mama Africa), JE Masslo ed i giovani ghanesi massacrati dalla camorra. con un concerto multietnico in a loro dedicato e a tutte le vittime di ogni forma di violenza/fanatismo. In una fase di violenze, di paura e di rigurgiti di razzismo a livello nazionale - con la rete delle Piazze del Sapere abbiamo provato a lanciare sul mare un ponte tra le diverse culture con un programma ricco di eventi e di incontri vari, tesi a far vivere la cultura come un fattore di coesione sociale e di apprendimento permanente. Come consuetudine degli ultimi anni, una delegazione della Comunità di S. Egidio e dell'Ufficio Immigrati CGIL si è recata il 25 agosto a Villa Literno per rendere omaggio sulla sua tomba alla memoria di JE Masslo - in occasione dell'anniversario della sua uccisione. Nello stesso tempo su iniziativa della rete di associazioni e del centro Fernandes a Castel Volturno nella Piazzetta di Baia Verde (un luogo simbolo della lotta per la legalità democratica) una delegazione nazionale di giovani dell’AGESCI (ambasciatori di pace e solidarietà) ha ricordato due donne eccezionali: Mari Osay (fondatrice di Mondi Senza confini, da poco scomparsa) e la grande Miriam Makeba nei pressi del monumento a lei dedicato nello spazio dove perse la vita il 9-11-2008 alla fine di un concerto in memoria dei giovani ghanesi massacrati dalla camorra, un simbolo universale della cultura della solidarietà, delle sue lotte per la convivenza e cittadinanza cosmopolita, contro ogni forma di violenza e di fanatismo, per la pace e solidarietà tra i popoli . A due passi si trova anche il monumento dedicato a Mimmo Noviello, l’altro casalese anche lui massacrato dalla camorra. In questo contesto, la richiesta delle associazioni intende avanzare alle istituzioni ed alle scuole dell’area Domiziana la proposta di dare vita ad un percorso per richiamare le diverse tappe di impegno e mobilitazione per la lotta contro la violenza e per affermare la legalità democratica, con eventi ed iniziative, a partire dal 18 settembre p.v. per ricordare la strage per mano della camorra dei 6 giovani ghanesi nella loro sartoria etnica. In occasione dell’anniversario della morte di Miriam Makeba abbiamo ripreso l’idea di creare un ponte tra le culture e religioni diverse, proprio con la musica e con il suo linguaggio universale. Come avvenne due anni fa nella Fondazione Leo a Caserta riproporremo un grande concerto multietnico, con musiche popolari e contaminazioni tra le diverse tradizioni con i balli, i ritmi ed i suoni di vari gruppi etnici.
A tal fine, come rete abbiamo aderito al Manifesto antirazzista per un percorso unitario contro il razzismo e la cultura della violenza, per la costruzione di politiche di pace, diritti umani, nonviolenza, giustizia sociale e accoglienza, proposto a luglio da importanti associazioni nazionali. Viene accolto l’invito a partecipare all’incontro organizzato a Caserta per dare vita ad un Coordinamento territoriale con la partecipazione delle principali realtà del mondo del terzo settore e del volontariato (attive nella nostra Provincia).
Rete di associazioni promossa da: Le Piazze del Sapere-Aislo, i Missionari Comboniani, Comunità di S. Egidio, l'Associazione Muni Onlus, Generazione Migrante, l'Ufficio Immigrati CGIL di Caserta e Anolf CISL, le Acli ed Auser Provinciali, la Caritas di Capua e Centro Fernandes, Italia x il Mondo e Villaggi Globali, Finetica Onlus, FTS Casertano, Centro Sociale Ex Canapificio.
La mafia nigeriana
La mafia nera nei giorni scorsi è stata di una lunga indagine della DDA tra Torino e Ferrara vi è stato un blitz con settanta misure cautelari, con decine di arresti a carico di cittadini di origine africana appartenenti alla mafia nigeriana. In questo caso è stato colpito il clan di stampo mafioso detto “Viking”, suddiviso in cellule locali dislocate in numerose città italiane, con la cattura di numerosi personaggi al vertice della mafia nigeriana in Italia, in diretto contatto con i capi di altre organizzazioni criminali dedite alla gestione dello spaccio di sostanze stupefacenti nelle piazze cittadine e dell’attività di sfruttamento della prostituzione.
Questa realtà criminale negli ultimi è stata al centro di inchieste e vari reporter di Sergio Nazzaro, con dei saggi in alcuni volumi come “MafiAfrica” e “Castel Volturno. Reportage sulla mafia africana”, Einaudi. Di recente l’autore, che tra l’altro è originario di Mondragone, una cittadina Domiziana, ha pubblicato un nuovo volume dal titolo illuminante: “La mafia nigeriana”. La prima indagine della squadra antitratta”, edito da città Nuova. Dopo Cosa nostra, ‘ndrangheta, Camorra e Sacra corona pugliese, viene qui presentata la nuova mafia operante in Italia: quella nigeriana o mafia nera, che gestisce traffici milionari legati alla droga e alla prostituzione. Il libro ricostruisce i momenti chiave della prima indagine della Squadra antitratta di Torino, il cui compito è quello di assicurare alla giustizia i criminali che si arricchiscono sfruttando il traffico di donne, molto spesso minorenni, che arrivano in Italia sole e senza documenti. Nelle pagine di questo reportage narrativo, Sergio Nazzaro, attraverso interviste, intercettazioni mai pubblicate prima e documenti inediti, ricostruisce la prima inchiesta della SAT e ci permette di osservare, da molto vicino, il modo di pensare e di agire della mafia nigeriana. Una mafia che da decenni prospera dal Sud al Nord dell’Italia in combutta con le mafie italiane. Questo libro ripercorre le tappe di un’indagine chiave nella storia della lotta alla mafia nera in Italia. Come abbiamo già avuto modo di documentare anche noi qualche tempo fa con vari interventi (ad esempio sul settimanale Left e sul portale di Infiniti Mondi), questi episodi di criminalità dovrebbero fare aprire gli occhi anche alle istituzioni ed all’opinione pubblica della Campania e di Terra di Lavoro, dove il fenomeno è molto diffuso, in particolar modo a Castel Volturno e sulla costiera Domiziana. Anche qui, diverse indagini hanno permesso di individuare due organizzazioni, denominate Maphite e Eye, composte da cittadini nigeriani, specializzate nello sfruttamento della prostituzione e nel traffico di droga. Grazie al lavoro della SAT è stato possibile scoprire l’esistenza di «una grande organizzazione internazionale, dai contorni paragonabili alle nostre mafie, che minaccia, sfrutta e uccide». Per questo motivo abbiamo deciso di ritornare sull’argomento, con particolare riferimento alla triste realtà delle cosiddette “connection house”, che sono diffuse e ramificate nelle villette abbandonate del lungomare domitio.
Come si legge nel recente Rapporto della Dia, la mafia nera (in particolare quella nigeriana) si è perfettamente inserita nel nostro territorio, avviando significative sinergie criminali con le organizzazioni mafiose autoctone e diventando essa stessa un'associazione di stampo mafioso. La stessa Cassazione ne ha esaltato i caratteri tipici della mafiosità, rappresentati dal vincolo associativo, dalla forza di intimidazione, dal controllo di parti del territorio e dalla realizzazione di profitti illeciti. Come osserva la Dia, “il tutto "sommato ad una componente mistico-religiosa a codici di comportamento ancestrali e a un uso indiscriminato della violenza". La mafia nigeriana è tribale e spietata, difficile da decifrare nelle dinamiche interne. Di certo quella nigeriana si segnala come una nuova mafia che qui opera in pieno accordo con la camorra dei casalesi. Con l’immigrazione in Italia di numerosi cittadini nigeriani anche rappresentanti di alcuni gruppi “cultisti” si sono radicati nelle nostre città seguendo logiche organizzative di tipo gerarchico e territoriale, come pure esistono dei rappresentanti nazionali regionali e locali organizzati fra loro in modo gerarchico. Alcuni gruppi si segnalano per la loro ferocia e crudeltà.
Castel Volturno hanno trovato terreno fertile per attecchire nelle zone degradate del lungomare, nei viali in stato di abbandono: alcune villette sono state trasformate in “connection house”, dove le maman ed i capiclan organizzano le attività più losche: dal traffico di droga alla tratta delle donne per la prostituzione. Qui vengono accuditi anche tanti bambini, il cui destino non è ben chiaro (vengono venduti per adozione o nella peggiore delle ipotesi per traffico di organi umani). A livello globale, la mafia nigeriana sta diventando una vera protagonista del traffico di droga, forte di una rete che va dal Sudafrica al Brasile, all’India, agli Stati Uniti. Passando per l’Europa. Proprio l’Italia, insieme a Spagna e Regno Unito, è fra i nodi più importanti.
Sebbene il fenomeno sia stato descritto e denunciato, anche in alcuni libri di successo come quelli di S. Nazzaro e di E. Ammaliato, l’attenzione della pubblica opinione e delle stesse istituzioni non sembra ancora adeguata. A dire il vero nemmeno l’opera di prevenzione e di contrasto da parte delle forze dell’ordine. In primo luogo sarebbe utile poter definire la presenza degli immigrati, a partire da quelli provenienti dall’Africa – con particolare riferimento ai nigeriani e ghanesi – che realmente abitano e trafficano in queste contrade (anche alla luce della mobilità indotta dal coronavirus in queste aree).
In secondo luogo bisogna individuare i luoghi in cui si concentrano i vari culti e gruppi etnici, alcuni dei quali sono diventati famigerati nel mondo, come “i Black Axe – conosciuto anche come Neo-Black Movement of Africa – i Black Cats, i Vikings e gli Eiye, insieme ai Buccaneers e i Pirates. Uno dei culti, a scanso di equivoci, si è battezzato semplicemente “Mafia”. Per la verità a livello territoriale non c’è molta disponibilità a parlare di questo fenomeno. Anzi, alcuni esprimono paura e terrore. Per superare questa situazione contraddittoria, in certi versi insostenibile, come rete di associazioni del terzo settore abbiamo deciso di mettere a fuoco il tema. Già abbiamo raccolto diversi materiali, documenti, testimonianze, anche una bibliografia dedicata, per poter cominciare a descrivere e conoscere meglio la realtà. Su questo chiederemo una mano anche agli esperti e ai grandi giornali (a partire dai settimanali VITA e LEFT, molto attenti a queste tematiche).
Libro. Marta Correggia, Il mio nome è Aoise, Vanda Edizioni 2022
Uno dei prossimi libri che presenteremo il 28-10-2022 a Caserta con le Piazze del Sapere nella sala del CIDIS è scritto dalla giudice Marta Correggia, del tribunale di Napoli. Già nel titolo c’è tutta la volontà da parte della protagonista, una giovane nigeriana, di affermare il suo vero nome, la sua identità umiliata e violentata. Il volume rappresenta un vero atto di denuncia di uno dei fenomeni più esecrabili, che quotidianamente avvengono sotto i nostri occhi: quello della tratta delle donne per la prostituzione – una vera piaga sociale. Nella sua attività di magistrato, l’autrice ha avuto modo di toccare con mano e di conoscere questa amara realtà in tutte le sue forme e dimensioni, a volte veramente disumane. Infatti per diversi anni ha lavorato ed ascoltato tante storie tristi di giovani donne vittime dello sfruttamento e dell’oppressione più brutale, in particolare nelle zone della costiera Domiziana e della fascia metropolitana di Napoli. Tutta l’odissea di questa ragazza ci viene raccontata con pathos: dal momento in cui avviene il “reclutamento”, con sottrazione violenta alla sua famiglia e alla sua comunità di un povero villaggio della Nigeria. In modo dettagliato ci vengono descritte tutte le violenze subite lungo il drammatico esodo nel deserto libico e poi nella traversata in mare verso le coste del nostro Paese. Fino a giungere in quel vero e proprio girone dell’inferno che sono le cosiddette connection house diffuse nei viali del lungomare Domiziano. Si tratta di veri e propri luoghi di “rieducazione” in cui le ragazze vengono avviate alla prostituzione, in base ad un subdolo principio secondo cui per loro l’unica fonte di ricchezza sta nel loro corpo. A loro volta i maschi vengono addestrati al traffico di droga.
La narrazione si muove tra il presente e il passato di Aoise in Africa, raccontando come la ragazza dalla Nigeria sia arrivata in Libia e da lì nel nostro Paese. La rotta è quella che conosciamo: la Libia è il primo approdo di disperati che vengono rinchiusi in centri che sono veri e propri “lager di detenzione” (come ha denunciato il papa), dove sono costretti a subire violenze di ogni tipo. Quel viaggio ad Aoise costa 50 mila euro, un debito da ripagare con la propria libertà. Alex Zanotelli, che firma la prefazione al romanzo, critica fortemente la politica migratoria europea che ha consentito ai libici di perpetrare un tale sistema di orrori. Per le donne è ancora più dura. Questa è la storia di una di loro, una nigeriana che in Italia finisce in una casa di prostituzione per africani gestita da una maman. Per ripagare il debito dovrà prostituirsi dalle 15 alle 20 volte al giorno. Ogni prestazione costa 15 euro. Aoise scompare per fare posto a Erabon, con un altro nome, un’altra identità. In questo modo vengono alimentati alcuni dei traffici più degradanti intorno a cui da tempo si è stabilito un patto di complicità tra la camorra locale e le “mafie nere” africani (a volte anche con quelle provenienti dall’Est Europa).
Come ci racconta l’autrice del libro, una volta arrivata a Castel Volturno, ad Aoise non rimane nulla, neppure il suo nome. Lei e le altre ragazze nigeriane (Joy, Friday, e Prudence) hanno già giurato il Ju Ju e attraverso i riti sciamanici, restano vincolate per anni al loro destino di prostituzione. Se disobbediscono gli spiriti si vendicano con le loro famiglie. E poi senza soldi, dove possono andare? All'interno della connection house, Aoise vive esperienze di estrema violenza. Ma in quell'inferno in terra si consumano anche sentimenti di amicizia, di complicità di protezione fra donne. Donne come lei, ognuna con un nome, una faccia e una storia. Si tratto di un vero romanzo sull'orrore della prostituzione e dello sfruttamento umano, ma anche sulla forza dell'amicizia e dell'amore, sul coraggio e su quella resistenza nutrita dalla speranza che possono portare anche le più disgraziate ragazze di Benin City a costruirsi una vita nuova, lontano dalla fame e dallo sfruttamento. L’inizio del libro è più che esplicativo: “Il primo era grasso, con le gambe sottili, le ginocchia rugose, i denti guasti. E puzzava. Un miscuglio indecifrabile di carne di pollo, aglio, uva sultanina e petrolio. Le disse di girarsi e la penetrò così forte che Erabon sentì lacerarsi non solo il ventre ma anche un pezzetto della sua anima”. Quella di Aoise è una delle tantissime storie di sfruttamento sulle quali chiudiamo gli occhi. Donne invisibili che ci vivono accanto e non vediamo, un nuovo schiavismo sul quale lucrano mafie locali africane e italiane. Aoise inizia a prendere coscienza della sua condizione dopo la cosiddetta strage di Castel Volturno: è il 18 settembre 2008 quando la camorra uccide a sangue freddo sei immigrati. La sommossa che segue è un fatto inedito nella storia dell’immigrazione italiana. Arriva poi a scuoterla Miriam Makeba, la cantante sudafricana che si batteva per i sudafricani liberi e che il destino ha fatto morire proprio a Castel Volturno dopo un attacco cardiaco su quel palco dove aveva voluto esibirsi come gesto contro la camorra e contro il razzismo. E qui si era esibita con l’ultimo suo concerto, portando un messaggio: Freedom for Africa. Una libertà che per molti nel mondo continua ad essere una parola proibita. Nei 12 capitoli del libro vengono descritti senza reticenza gli innumerevoli episodi di violenza e di sopraffazione subiti da questa ragazza e dalle sue amiche. A volte la narrazione e la descrizione dei fatti possono apparire dure e cruenti, di una brutalità bestiale. Per tutti questi motivi sarebbe utile che tutti leggessero queste storie, che ci aiutano a fare piena e drammatica luce sulle nefandezze che avvengono intorno a noi. In particolare lo consiglierei agli esponenti delle forze dell’ordine e degli organi di governo (a partire dal prefetto fino al questore), ma anche ai sindaci ed amministratori locali e regionali. Di fronte a queste testimonianze non ci sono alibi per nessuno.

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