Un invito davvero autorevole e intrigante che, però, l’imprenditore casertano, memore dei doveri familiari, non aveva alcuna possibilità di accettare.
Quanto di vero e quanto di leggenda ci fosse nell’aneddoto appena narrato non è dato saperlo. Ma dando uno sguardo alla biografia dell’autorevole Maestro è stato possibile appurare due cose. In primo luogo. Arturo Toscanini aveva preso parte alla grande guerra raggiungendo, con i "suoi uomini", una delle postazioni più avanzate in provincia di Udine. In secondo luogo, Toscanini qualche anno dopo la guerra era effettivamente partito per una tournée negli Stati Uniti, come narrava il D’Innocenzo. Dunque, sembrerebbe esserci una certa rispondenza tra la storia dell’illustre direttore d’orchestra ed i racconti di Benedetto. Tuttavia, non resta possibile chiarire tutti i termini dell’avvenimento e del contesto nel quale si verificava.
Toscanini a parte, ritornando alla storia del nostro protagonista - alla fine del 1918 terminava la prima guerra mondiale, con la vittoria dell’Intesa e quindi anche dell’Italia che riusciva ad ottenere i tanto agognati Trento e Trieste. Alla conclusione del conflitto i militari potevano far ritorno a casa ed anche Benedetto, una volta ottenuto il congedo illimitato, tornava alla propria famiglia, potendo finalmente conoscere il suo ultimo figlio. Aveva da recuperare un bel po’ di tempo, all’incirca tre anni di lontananza dalla moglie, ma soprattutto dai figli che Benedetto ritrovava cresciuti. Otello aveva quasi 14 anni ed aiutava sua madre, insieme ad Isaia e Desdemona.
La famiglia D'Innocenzo, dunque, si era dovuta riorganizzare per andare avanti. Col ritorno di Benedetto, ovviamente, le cose iniziavano ad andare molto meglio. Quanto meno si alleggerivano le responsabilità che Alessandra si era dovuta sobbarcare negli anni della guerra, ritrovando progressivamente la tranquillità e la stabilità di un tempo. A contribuire a tutto ciò si era aggiunto il fatto che Alessandra era nuovamente incinta. La nuova arrivata nasceva il 15 novembre del 1919 e, come anticipato, era stata chiamata Trieste.
Immediatamente dopo la fine del conflitto, Benedetto iniziava a fare propaganda politica, ma solo fino al Natale del 1920, quando veniva accusato di oltraggio e resistenza all'arma dei Reali Carabinieri. in quella circostanza egli decideva di ridimensionare il suo impegno, almeno fino a quando non si sarebbero calmate un po’ le acque. L'anno seguente, tuttavia, la situazione del proletariato italiano stava per subire una trasformazione radicale, sia in ambito locale che nazionale. Difatti, il mito della rivoluzione d’Ottobre e il crescere del conflitto sociale interno determinavano una netta frattura all’Interno del PSI, provocando poi la scissione di Livorno del 1921 e la conseguente formazione di una nuova organizzazione: il Partito Comunista d’Italia, sezione della III Internazionale. Il napoletano Amadeo Bordiga era il principale leader del neonato gruppo. Secondo lui il nuovo partito doveva essere formato da un insieme di rivoluzionari professionisti, ristretto e compatto, che avrebbe dovuto guidare le masse quando si sarebbe presentata l’occasione rivoluzionaria. Si trattava di una concezione molto vicina a quella di Lenin il quale, però, si trovava ad agire in un contesto sociale arretrato e contadino come quello russo. Tale differenza di ambiente era la principale contestazione con cui Antonio Gramsci si opponeva a Bordiga.
Per Gramsci la rivoluzione italiana non poteva essere una meccanica traduzione dell’esperienza russa per l’evidente diversità dei due Paesi. In tal senso, nel contesto nazionale dell’Occidente, il partito rivoluzionario non poteva ridursi ad un nucleo ristretto, centralizzato e separato dal contesto sociale. Infatti, se in Oriente lo Stato era tutto, nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto. In altre parole, in Italia dietro l’apparato statale si scorgeva una “robusta struttura della società civile”, per cui secondo Gramsci l’affermazione del socialismo nella nostra penisola sarebbe dovuto passare attraverso una lenta e progressiva conquista dell’intera società per poi giungere alla struttura dello Stato. Questo dibattito aveva un risvolto anche sul piano internazionale, nella fattispecie si parlava del “caso italiano” negli organismi della Terza Internazionale, dove Gramsci si trovava perfettamente in linea col comunismo sovietico (e da esso veniva ricambiato e sostenuto), mentre Bordiga sembrava allinearsi alle ragioni dell’opposizione guidata da Trotskji. Bordiga, in ogni caso, era un leader riconosciuto ed autorevole nella base del partito italiano.
Tra coloro che decidevano di seguirne le orme c’era anche Benedetto D’Innocenzo, che si schierava al suo fianco sin dai giorni successivi la scissione di Livorno. Ma non era stato il solo a fare “la grande svolta”. Di lì a poco arrivavano anche un gran numero di ferrovieri della provincia, espulsi dal lavoro perché organizzatori degli scioperi; tra questi emergeva Corrado Graziadei, il futuro leader e parlamentare comunista, abitante a Sparanise che, non più giovanissimo, si iscriveva alla facoltà di Giurisprudenza per diventare un brillante avvocato pochi anni dopo. Benedetto stringeva con lui un’amicizia destinata a durare per tanti anni e che portava i due a vivere delle esperienze drammatiche, ma allo stesso tempo intense e significative.
Nel maggio del 1924 Graziadei partecipava al Convegno segreto di Como, dove era andato in rappresentanza della Federazione comunista di Caserta e lì, anche l’ex ferroviere aveva sostenuto le posizioni assunte da Bordiga. A lui si accodavano molti altri, tanto da far pensare che il leader napoletano avrebbe conservato tranquillamente il controllo del partito. Tuttavia, Bordiga non aveva potuto mettere in pratica la sua aspirazione poiché a livello internazionale era cambiata la “scena”. Nel corso del quinto congresso della Terza Internazionale, infatti, Stalin liquidava l’opposizione guidata da Trotskji, compreso Amadeo Bordiga. Tutto ciò aveva un riflesso immediato sul piccolo partito italiano, al quale si imponeva immediatamente un cambio della leadership.
Intanto, nella vita dell’imprenditore D’Innocenzo si avvicendavano una serie di avvenimenti più o meno piacevoli. Il 14 marzo del 1922 nasceva Giacomina Ribelle detta Mimina, ma l’anno successivo tanta gioia veniva oscurata da un terribile lutto per la morte di un’altra figlia: Vladimira, scomparsa a pochissimi mesi. Era un duro colpo per l’intera famiglia, ma soprattutto per Benedetto che era riuscito a superare l’accaduto con grande difficoltà, trovando solo nel crescente impegno politico un lenimento e una valvola di sfogo. Aveva infatti ripreso l’attività militante, questa volta - come si è preannunciato - nelle fila del comunismo, andando incontro a non pochi inconvenienti. I tempi, peraltro, erano cambiati, la battaglia politica si era fatta più dura e lo spettro del fascismo diveniva sempre più manifesto ed evidente.
Il 9 aprile del 1925, Benedetto era oggetto addirittura di una perquisizione personale in seguito alla quale gli era stato sequestrato un opuscolo del “Soccorso Rosso’’. Immediatamente dopo, altri controlli (in diverse case di sovversivi milanesi) favorivano il ritrovamento di alcuni elenchi di nomi, fra i quali quello del D’Innocenzo. Nello stesso periodo, inoltre, Benedetto veniva sorpreso mentre affiggeva dei manifesti di propaganda comunista ed era arrestato subito dopo. Come ricorda la prefettura di Caserta: il 9 aprile 1925 subì una perquisizione personale che fruttò il sequestro di un opuscolo sovversivo intitolato “Il perché del soccorso rosso internazionale’’. Da perquisizioni fatte eseguire in Milano in casa idi sovversivi furono trovati diversi elenchi di nomi fra i quali il suo. La sua attività l'esplica soprattutto nei comuni di Sparanise. Pietramelara e Riardo. Risulta altresì di essere stato arrestato per affissione di manifesti sovversivi offensivi alle istituzioni ed incitanti all'odio fra le classi sociali.
Tuttavia, l’infortunio non scoraggiava certo un uomo come Benedetto D'Innocenzo che imperterrito continuava la sua battaglia. Un episodio che testimoniava il persistente e costante impegno politico era quello dell’incontro tra comunisti in una casa colonica nei pressi di Riardo. Si trattava del Congresso provinciale del partito, avvenuto nel 1925 e presieduto da Ennio Gnudi e Umberto Terracini. In questa circostanza, in cui veniva deciso il nuovo nucleo che avrebbe diretto l’azione del partito, era riconfermato Graziadei alla guida della federazione, affiancato proprio da Benedetto D’Innocenzo, oltre che da Domenico Schiavo, da Antonio Marasco, da Gennaro Leoncavallo e da Ambrogio Ursillo. Come se non bastasse, qualche mese dopo il Congresso della FGCI presieduto da Celeste Negarville si svolgeva a Taverna Mele, la dimora del D’Innocenzo.
Entrambe le riunioni si svolgevano in assoluto segreto, perché se solo la polizia avesse sospettato un minimo movimento, avrebbe impedito il tutto, arrestando certamente i malcapitati. E la situazione politica era destinata solo a peggiorare. Infatti, nel novembre del 1926 Benito Mussolini emanava le leggi speciali con le quali dava ufficialmente il via all'era della dittatura fascista. L'immediata conseguenza di ciò era lo scioglimento dei partiti ostili al neonato fascismo, primo fra tutti il PCI. Pertanto, iniziavano a “fioccare” tutta una serie di provvedimenti per “sistemare” una volta per tutte i fastidiosi antifascisti. A livello nazionale venivano dispensate sentenze eclatanti, come l’arresto e la successiva condanna a vent’anni di carcere toccata ad esponenti di rilievo come Antonio Gramsci; mentre a livello locale c’erano gli arresti, le ammonizioni, i provvedimenti di confinamento assegnate a tutti coloro che intralciavano la politica del regime.
Una punizione simile veniva data anche a personaggi come Graziadei e D’Innocenzo. Riguardo quest’ultimo, la polizia fascista rimarcava che:col pretesto di gestire una fabbrica di gazzose trova occasione di girare per diversi comuni ove esplica attività antinazionale. Il 15 dicembre del 1925 fu proposto per l’ammonizione e con ordinanza 28 detto fu ammonito.
Ma mentre l'ammonizione a carico dell’ex ferroviere Graziadei era revocata dopo qualche mese, quella di Benedetto era destinata a durare fino al 1928, con l’aggravio di una stretta sorveglianza da parte delle autorità.
La Commissione Provinciale dì Napoli - continuava il rapporto dell’autorità prefettizia - con ordinanza del 16 gennaio 1928. ha prosciolto dai vincoli della ammonizione il controsegnato comunista, ammonito con ordinanza del 28 dicembre 1926 dell’Ex Commissione Provinciale di Caserta. Il D’Innocenzo viene ora vigilato come sovversivo.
La situazione, dunque, si faceva insostenibile per i comunisti che dovevano, seppur per un tempo limitato, "deporre le armi” e rientrare dei ranghi della loro vita privata. Dal 1927 al 1936, infatti, per i comunisti di Terra di Lavoro era un “periodo buio”, come scriveva Giuseppe Capobianco. Il che valeva anche per Benedetto D’Innocenzo, sorvegliato costantemente dalla polizia che faceva rapporto sul suo conto ogni tre o sei mesi, senza però dare adito a contestazioni. In ognuno di essi, infatti, si leggeva: Durante questi ultimi tempi pur mantenendo ligio alle sue idee non ha dato luogo a rilievi con la sua condotta politica; è vigilato.
Questa vigilanza durava dal 30 giugno del 1928 al 2 gennaio del 1937, periodo in cui il sovversivo non si occupava affatto di politica. Tuttavia, in quegli stessi anni il regime si interessava anche al resto della famiglia, ad iniziare dal figlio Otello, sospettato di essere un comunista, pertanto schedato come “sovversivo”. La polizia aveva iniziato a fiutare qualcosa già dal 1926, quando il giovane lavorava a Milano, facendo propaganda sovversiva tra i suoi colleghi. Segnalato alle autorità, era puntualmente trasferito, prima a Trieste e successivamente a Messina e Ragusa. E proprio durante la permanenza in Sicilia, Otello aveva incontrato Santa, una giovane isolana, che sposava poco dopo. Nel 1928 arrivava il primo figlio, che i due avevano deciso di chiamare come il nonno paterno: Benedetto. Dopo la nascita del bimbo, Otello era ormai convinto di aver trovato una certa stabilità, oltre che familiare, anche lavorativa. Purtroppo, invece, era trasferito ben presto a Bologna dove, però, egli aveva avuto molta fortuna. Difatti, in Emilia Otello non proseguiva la sua solita attività di operaio, ma aveva intrapreso l’attività di imprenditore edile, sfruttando l’esperienza e la qualifica professionale di capo capocantiere. Il tutto ovviamente avveniva sotto l’occhio attento delle forze dell’ordine che non accennavano ad abbassare la guardia. Addirittura la polizia, non fidandosi di Otello, chiedeva informazioni su di lui anche tra i clienti, generando in molti casi qualche perplessità e, in qualche caso, la perdita del lavoro. Otello perciò decideva, nel settembre del 1928, di scrivere una lettera direttamente al Duce in cui gli spiegava la situazione, cercando di “salvare il salvabile”, dato che egli aveva perso già tanti clienti: Sono ingiustamente perseguitato dalla polizia perché ritenuto un comunista ma non lo sono, anche se mio padre lo era. Ciò che mi interessa maggiormente sono la mia famiglia (mia moglie Santa e mio figlio Benedetto) e il mio lavoro, senza interesse alcuno perla politica.
Questa lettera di abiura, insieme alla “buona condotta politica”, era ritenuta sufficiente dalla dittatura, tanto che nel 1933 Otello era radiato dallo schedario dei “sovversivi”. La situazione di quest’ultimo, d’altra parte, aveva preoccupato un po’ tutta la famiglia, in special modo il papà, che ben conosceva i metodi spietati e cinici della polizia fascista.
Intanto, a Taverna Mele c’erano stati diversi cambiamenti. In primo luogo due matrimoni: quello di Deifra con Antonio Elia, anch’egli comunista, e quello di Desdemona con Veltre, i quali dopo qualche anno decidevano di emigrare negli USA. Ai due bellissimi eventi, però, faceva seguito una tragica vicenda: la morte di Isaia. Il giovane ventiseienne lavorava come operaio ad Ariano Irpino ed aveva più volte segnalato all’ingegnere responsabile il guasto dei freni di un rullo compressore. Alla richiesta non aveva fatto seguito alcun atto concreto ed un giorno, il 3 ottobre del 1932, per una banale distrazione, Isaia veniva travolto e schiacciato dal rullo che lo uccideva sul colpo. Era un evento drammatico che gettava nello sgomento l’intera famiglia, disperati anche per la consapevolezza dell’evitabilità della tragedia che non mancavano di segnalare alla magistratura, denunciando l’impresa responsabile. Con ciò, riflettevano i D’Innocenzo, la famiglia non avrebbe certo riavuto Isaia, ma avrebbe quantomeno denunciato la situazione vissuta da tanti operai, costretti a lavorare in condizioni di estrema pericolosità.
Per lo stesso Benedetto il colpo era durissimo e cercava di attutirlo gettandosi nel lavoro e in uno sporadico e assai prudente impegno politico; almeno per quel tanto che era consentito al cospetto dell’occhiuto controllo di un regime all’apogeo della sua forza. Proprio nell’anno della morte dell’amato figlio, infatti, il fascismo festeggiava il primo decennale del suo trionfo con innumerevoli celebrazioni e, addirittura, concedendosi il lusso di una larga amnistia per i reati politici. L’anno dopo, però, l’infezione totalitaria dilagava dalla periferica Italia al cuore stesso dell’Europa e Hitler conquistava il potere in Germania. Il fenomeno sembrava accompagnarsi, inoltre, ad un generale declino delle democrazie e all’affermazione di regimi autoritari e reazionari, sia nell’Europa orientale che nella vicinissima penisola iberica.
In particolare, agli inizi degli anni Trenta la Spagna entrava in un periodo di conflitti sociali e politici molto acuti che portavano prima all’immediata caduta delia monarchia - sostituita dalia Repubblica – poi ad una sovversione militare che, a partire dal 1936, apriva una vera e propria guerra civile. Le forze armate sleali alla Repubblica erano sostenute all’interno da una forte destra conservatrice e dalla Chiesa cattolica. All'esterno, invece, erano proprio i regimi di Mussolini e di Hitler a fiancheggiarne l'azione politica e militare, individuando in esso un campo di ulteriore espansione del proprio modello di Stato e di governo.
Per questo suo carattere ideologico, il confronto che si apriva in Spagna non rappresentava un semplice fatto locale, ma si affermava presto come un nodo importantissimo della politica internazionale. E se l’Italia e la Germania mandavano mezzi e soldati in aiuto al generale Franco, migliaia di combattenti antifascisti affluivano in Spagna da quasi tutti i Paesi del mondo per contrastare l’ennesimo regime liberticida. Molti erano gli Italiani che fondavano perfino una propria brigata internazionale, intitolata a Giuseppe Garibaldi. In particolare, i comunisti vedevano nella guerra spagnola il riaccendersi di un barlume di speranza nella sconfitta del fascismo, iniziando ad interessarsi dell’andamento della guerra. Ma era proprio una notizia riguardo il conflitto ad essere fatale per Benedetto D’Innocenzo e Corrado Graziadei. I due infatti venivano arrestati proprio per la divulgazione di un fatto accaduto in Spagna. In merito, il Questore di Napoli Stracca scriveva il 29 marzo del 1937: La notte sul 24 volgente questo Ufficio procedette in Calvi Risorta all'arresto del noto comunista schedato ex ammonito D'Innocenzo Benedetto essendo risultato che pochi giorni prima aveva propalata la notizia, che assumeva di avere appresa attraverso una radio diffusione da Barcellona, relativa a tal D'Andreti Alessio del comune di Roccaromana, combattente volontario in Ispana, che sarebbe stato colà fatto prigioniero con molti altri volontari italiani dai battaglioni rossi Garibaldi e Matteotti, dai quali peraltro sarebbe stato trattato bene. [...] A seguito dell'arresto proseguendo nelle indagini questo Ufficio accertò che egli il giorno 15 andante aveva ricevuto incarico a mezzo lettera dal comunista schedato Graziadei Corrado, suo compagno di fede, per avvertire i famigliari del D'Andreti della sua prigionia. Fu anche accertato che il Graziadei aveva appresa la notizia la sera del 14 volgente attraverso ascoltazione dell’apparecchio radio che egli stesso teneva nel proprio domicilio, e pertanto la notte sul 24 volgente fu proceduto pure al suo arresto.
Al D’Innocenzo era stata sequestrata la lettera che Graziadei gli aveva scritto per raccontargli ciò che aveva ascoltato dalla radio e, ovviamente, la polizia aveva usato il contenuto della missiva contro di loro. D’Innocenzo e Graziadei dichiaravano di aver agito per generosità verso la famiglia dell’uomo in questione (volevano rassicurarli sulla sorte del loro caro, ancora in vita, nonostante la prigionia). Ma secondo le forze dell’ordine quanto detto dai due non corrispondeva a verità:
è ovvio che lo scopo era ben altro: come si evince dalla divulgazione della notizia riflettente la cattura delle armi e munizioni per nulla attinente alla prigionia del D'Andreti.
Pertanto, sia Benedetto che Corrado venivano assegnati al confino politico. Il 31 marzo del 1937 il D’Innocenzo era portato nella Regia Questura di Napoli dove gli era comunicata la sentenza: “condanna al confino di polizia a Tremiti per ragioni politiche per due anni, con la possibilità di ricorrere alla Commissione d’Appello”. Cosa che egli faceva, senza pensarci tanto su, producendo un ricorso in data 6 aprile 1937 e scrivendo una lettera alla Commissione Ministeriale per i confinati:
lo, semplice operaio, non ero alla pollata di capire se ciò che conteneva il biglietto era compromettente o meno. Nella mia intenzione non vi era nessuna voglia di propalare il comunicato radio, perché se ciò avessi voluto fare, avrei incominciato a Sparanise dove mi fu consegnato il biglietto: invece me ne tornai a casa senza dire niente a nessuno: a conferma di ciò sta il fatto che neanche a Riardo a nessuno parlai del comunicato.
Dopo essersi giustificato di ciò che aveva fatto, Benedetto continuava raccontando cosa era successo (evidenziando sempre la buona fede nella divulgazione della notizia). Ma il tentativo si rivelava vano e gli veniva riconfermata la sentenza del confino per due anni, costretto perciò a lasciare la sua famiglia e a scontare, tristemente, la pena inflittagli. Giungeva così alle Tremiti, il 12 aprile di quello stesso anno, dove era sottoposto agli obblighi del confino da ultimare il 23 marzo del 1939, salvo interruzioni.
Il 30 giugno, in un rapporto della Regia Prefettura di Foggia si leggeva: “finora non ha dato luogo a rilievi in linea politica’’. Benedetto D’Innocenzo era, dunque, un “confinato” tranquillo che non dava problemi. Era, molto probabilmente, per questa ragione che il 4 luglio egli chiedeva una licenza che gli era anche con diversi creditori che, approfittando della lunga assenza dell’imprenditore, non pagavano il dovuto. Inoltre, c’era da portare avanti la causa contro l’impresa edile per l’infortunio di Isaia che era ancora in corso dal 1932. Tuttavia, la breve licenza non era stata sufficiente a Benedetto per sbrigare le varie faccende; cosicché, una volta ritornato a Tremiti e aspettato circa un mese, chiedeva un’altra licenza. La Regia Prefettura di Foggia esprimeva anche questa volta parere favorevole, concedendo al confinato un permesso a partire dal 28 agosto 1937, con la durata di otto giorni. Allo scadere del termine stabilito Benedetto chiedeva una proroga di 20 giorni, ma il Prefetto di Napoli gli accordava solo 10 giorni, ritenuti sufficienti per poter sistemare il tutto. Così, il D’Innocenzo il 16 settembre, munito di foglio di via e scortato da due agenti, che lo avevano accompagnato durante tutta la permanenza a Calvi Risorta, faceva ritorno alle isole Tremiti.
Dopo la partenza di Benedetto, i suoi familiari tentavano di ottenere qualcosa scrivendo direttamente a Mussolini per spiegare la situazione del loro caro. Una prima lettera veniva mandata da Otello, il quale chiedeva clemenza per il padre: mio padre è stato assegnato al confino politico a Tremiti, prov. Foggia, per anni due a causa di dicerie riportate riguardanti un prigioniero di guerra in Spagna. Mentre assicuro V.E. che i suoi sentimenti sono e sono sempre stati del più alto amore di Patria e della più completa devozione alla rivoluzione ed al fascismo mi permetto rivolgere la più viva e rispettosa preghiera a V.E. per poter ottenere che mio padre sia graziato.
La lettera di Otello era datata 21 settembre 1937 e due giorni più tardi, il 23 settembre, anche Alessandra mandava una comunicazione al Duce nella quale chiedeva: che fosse riesaminata la cosa coscienziosamente, e se da questo riesame fosse emersa la sua buonafede e la sua innocenza. rimandarlo in seno alla famiglia, che senza la sua presenza si sarebbe andati irreparabilmente alla rovina. [...] inoltre, mio marito non ha ancora trovato un avvocato per Cassazione per poter controbilanciare le grandi influenze degli avversari; ma ciò non è stato possibile durante la licenza non essendosi potuto recare a Roma.
Non è stato possibile appurare l’iter delle due lettere, ma di certo Benedetto era ben presto libero. Infatti, nell’autunno del 1937 giungeva l’inaspettata notizia: S.E. il Capo del Governo gli aveva commutato il residuale periodo di confino in ammonizione. Questo provvedimento era datato 8 ottobre 1937 ed il giorno 12 dello stesso mese Benedetto partiva dalla colonia di Tremiti diretto a Napoli, accompagnato da alcune guardie. Giunto a destinazione il giorno 13, era ufficialmente dichiarato ammonito e avviato verso Calvi Risorta. I vincoli ai quali era sottoposto, tra cui quello di non fare propaganda politica ed avere un domicilio stabile, imposti con un'Ordinanza della Regia Prefettura di Napoli, in seguito alla riunione della Commissione Provinciale per l’ammonizione, si sarebbero esauriti il 23 marzo del 1939.
Ma un altro colpo di scena faceva mutare ulteriormente la situazione: in seguito ad atto di clemenza di Mussolini, in ricorrenza del Natale, il 25 dicembre entrambi i due ex confinati erano prosciolti anche dai vincoli dell’ammonizione. D’Innocenzo e Graziadei, dunque, erano completamente liberi seppur attentamente sorvegliati, Dalla Regia Prefettura di Napoli sono stati registrati controlli di vigilanza su Benedetto ogni tre mesi fino al 23 aprile del 1943, in cui era riportata sempre la stessa dicitura: “Durante decorso trimestrale nessun rilievo da segnalare. Ha serbato regolare condotta politica”. Dunque, anche se “alleggerito” dalla condanna precedentemente imposta, egli era ancora sotto i riflettori della polizia fascista che lo teneva d’occhio a debita distanza. Tuttavia, la sorveglianza andava sempre di più scemando, tant’è vero che, a differenza di quanto si raccontava nei rapporti ufficiali delle autorità, al ritorno dal confino sia Benedetto D’Innocenzo che Corrado Graziadei riprendevano i contatti con i pochi comunisti sopravvissuti alla dittatura e con essi decidevano di ricostruire il partito.
Intanto, nella vita privata di Benedetto c’era stato un altro avvenimento tragico: la morte di Alessandra. La signora D’Innocenzo, duramente provata dalle disgrazie di Vladimira ed Isaia, nonché dalle traversie legate alla repressione del fascismo, veniva a mancare nel 1939. La famiglia, straziata dal dolore, si stringeva intorno a Benedetto che era rimasto unico punto di riferimento del nucleo familiare. Per di più, in quello stesso anno aveva inizio anche il secondo conflitto mondiale, con il timore che esso potesse ben presto coinvolgere anche l’Italia. L'anno seguente, infatti, Mussolini decideva di entrare in guerra con un massiccio impiego di uomini. Il conflitto si rivelava disastroso per il Paese, che lo affrontava completamente impreparato. Nel giro di pochissimo tempo gli italiani dovevano chiedere aiuto al potente alleato tedesco, fino a dover subire - a partire dal giugno-luglio 1943 - l’invasione degli anglo-americani decisi a risalire tutta lo stivale, dalla Sicilia alle Alpi. Era in quel clima, come è noto, che maturava il crollo del fascismo, con una sorta di colpo di palazzo - il 25 luglio del 1943 - orchestrato dal re e dal fascismo moderato. Nel giro di un mese e mezzo, inoltre, gli eventi precipitavano e l’Italia era costretta, addirittura, a firmare l'armistizio con gli anglo-americani. Era l’8 settembre; in quel momento il vecchio alleato nazista cambiava volto e diventava un nemico incattivito per il voltafaccia e, dunque, molto pericoloso.
Prima di quel momento, i comunisti casertani erano già riusciti a ricostruire un minimo di organizza-zione, a partire dall’esperienza cospirativa ispirata da Aniello Tucci, noto antifascista di Terra di Lavoro, iniziata nel 1941 insieme al fratello Tommaso ed altri (quali Lazzetti, Semerano e Spinosa). L’intento era quello di costruire una rete e mettere insieme tutte le forze antifasciste della provincia di Caserta. Spinosa aveva portato con sé anche Corrado Graziadei e questi successivamente si era preoccupato di far inserire altri nel gruppo. Si volevano creare dei nuclei operativi per quante più zone possibili, autonomi e non in contatto diretto col il nucleo principale, in modo che sarebbe stato difficile per la polizia individuare l'intera organizzazione.
Era in quest’ambito che, nel 1942, nasceva a Capua il solo giornale di opposizione di tutta l’Italia meridionale: «Il Proletario». Esso veniva sempre stampato nella città natale, in una tipografia mobile, e usciva con una certa regolarità ma soltanto fino al luglio del 1943. Nella redazione vi erano tutti i componenti dell’organizzazione summenzionata, tra cui anche Graziadei. L’avvocato si occupava sia degli articoli che dello smistamento del giornale nella zona del Matese e di Sparanise, con l’aiuto - ovviamente - del compagno Benedetto D’Innocenzo. Ma, come si è detto, l’organizzazione aveva potuto agire solo fino al 1943, quando “alla Cappella di Cangiani, Napoli, nella casa di un compagno ci fu una riunione per stringere le fila del movimento clandestino e per raccogliere fondi per il periodico”. In quella occasione, infatti, intervenivano le forze dell’ordine che arrestavano 49 persone su 79 partecipanti e scompaginando la redazione del «Proletario» che smetteva praticamente di esistere.
Gli eventi che seguivano vedevano Terra di Lavoro interessata dal rapido passaggio della guerra che provocava lutti ed enormi distruzioni, pur senza dare il tempo materiale per organizzare una diffusa ed efficace resistenza contro le truppe tedesche. Il risultato era quello di un gran numero di stragi di civili (circa 650 morti, senza distinzione né di sesso né di età) e il deterioramento di una situazione economica, di per sé già tutt’altro che positiva. La fibrillazione sociale, tuttavia, non si traduceva immediatamente come una spinta al cambiamento politico-istituzionale. Lo dimostrava in maniera evidente il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, ad un anno dalla fine della guerra, quando I' 80% della popola-zione casertana si esprimeva a favore dei Savoia. L’attaccamento alle passate istituzioni, corresponsabili sia dell’avvento al potere di Mussolini che della guerra, era tanto forte da determinare veri e propri disordini all’atto della proclamazione dei risultati definitivi che assegnavano la vittoria alla Repubblica.
Intanto, il PCI, finalmente alla luce del sole, aveva da risolvere molti problemi interni. Anzi, era a questa situazione di crisi che Capobianco addossava il cattivo risultato del partito, attestatosi ad appena il 4,98%, contro il quasi 20% nazionale. La prestazione deludente dava vita ad una discussione aspra e difficile, tanto da portare ad un avvicendamento della guida provinciale del partito che passava, nel settembre 1946, nelle mani di Nino De Andreis. Graziadei restava invece nel nuovo comitato federale, dove era eletta anche Trieste D’Innocenzo che aveva seguito le orme del padre74. Quest’ultimo, al contrario, aveva già raggiunto un’età in cui bisognava iniziare a centellinare gli impegni, evitando gli strapazzi e le eccessive fatiche. A quasi 70 anni, d'altra parte; continuava a condurre l’azienda (che nel frattempo era divenuta un’impresa familiare nella quale lavoravano i figli). Non rinunciava alla politica, insomma, ma assumeva un atteggiamento più distaccato e meno coinvolto. Il testimone, in realtà, era passato da una generazione al ’altra, dal vecchio padre alle mani della giovane Trieste. Questo ritrarsi nel privato, tipico degli ultimi anni di Benedetto D'Innocenzo, non si traduceva però in un disinteresse verso la società o nei confronti dei problemi degli altri uomini. Il suo istintivo sentimento di solidarietà nei confronti dei simili continuava, infatti, a manifestarsi senza tregua, e in termini sia economici che morali. Un esempio molto ricordato dalla famiglia è quello che vedeva coinvolto uno studente inglese di origine malese, un giovane di nome Revi che rischiava di moriva annegato nel corso dell’alluvione del 1960. La fortuna volle che Benedetto si trovasse a passare di lì e, a più di 80 anni, riuscisse a trarlo in salvo dal fiume nel quale era caduto. Il giovane, molto malandato a causa della sua peripezia (pare avesse contratto una forma di polmonite) veniva subito portato a Taverna Mele dove la famiglia D’Innocenzo lo accoglieva e lo curava per diversi giorni. Solo dopo essersi ripreso perfettamente, Revi faceva finalmente ritorno in Inghilterra.
L’episodio anticipava di poco la scomparsa di Benedetto D’Innocenzo che moriva il 26 febbraio del 1962, all’età di 83 anni. Si concludeva, così, la vita di un uomo che la polizia fascista qualificava come un “sovversivo, un comunista schedato pericoloso, più volte ammonito, confinato. Ma ciò che appare più evidente dalla sua biografia è la tenacia e costanza nel professare e difendere gli ideali in cui ha sempre creduto, nonostante le oggettive difficoltà dettate dalla necessità di mantenere una numerosa famiglia - un’esigenza che lo aveva spinto, in qualche caso, a fingere perfino il ravvedimento politico per evitare la stretta repressiva del regime fascista.
Ma la politica era solo una delle passioni che lo contraddistinguevano. D'Innocenzo era un uomo semplice, naturalmente buono, generoso nei confronti di tutti, comunisti e non, che sapevano di poter trovare a Taverna Mele sempre un sostegno e una parola di conforto. In tal senso, la sua storia merita di essere raccontata: per il coraggio e la fermezza delle proprie idee, ma anche per l’orgoglio e la fierezza che, ancora oggi, suscita nel ricordo dei suoi familiari e dei suoi concittadini.
** Tratto d Quaderni Vesuviani autunno 2008 |